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Daniele A. Gewurz è nato e vive a Roma. Alla formazione scientifica – laurea e dottorato di ricerca in matematica – affianca da sempre l’amore per le belle lettere, che dal 2002 lo ha portato alla traduzione dall’inglese di narrativa (tra cui romanzi di Jasper Fforde) e di saggistica (per lo più testi divulgativi di argomenti scientifico, tra l’altro di Ian Stewart e Gregory Chaitin). Tiene un blog, “L’Accademia de’ Pignuoli” di “idee e pignolerie assortite” sul mondo della traduzione. 

Dove ti sei laureato e perché hai scelto matematica?

Mi sono laureato a Roma, alla Sapienza, e ho scelto matematica… perché mi piaceva. No, diciamo che due professori delle superiori erano stati bravi a far intravedere che la matematica, e il suo rapporto con le altre scienze, è qualcosa di più di quello che si evinceva dagli aridi programmi scolastici (magari adesso nei programmi è cambiato qualcosa, non so). E mi accorgevo che la matematica mi riusciva particolarmente facile: imparavo tutto semplicemente ascoltando le lezioni, senza praticamente dover studiare, e non certo per mancanza di secchioneria. Certo, col senno di poi, il programma di matematica del liceo classico non è esattamente un macigno insuperabile.

Quale materia ti piaceva di più?

Della scuola abbiamo già parlato; all’università mi sono presto trovato a mio agio con gli aspetti più discreti della matematica: l’algebra e in particolare la teoria dei gruppi, e la combinatoria. Sono questi gli argomenti su cui ho seguito i corsi non fissati dal piano di studi, e che ho approfondito via via per la tesi di laurea, di dottorato e oltre, e nei quali tuttora quando ho tempo faccio qualche conticino.

Dopo la laurea hai avuto altre esperienze in campo strettamente matematico?

Direi di sì: ho fatto il dottorato, sempre alla Sapienza, lavorando per la tesi con Peter J. Cameron, che all’epoca stava al Queen Mary & Westfield College di Londra (adesso il QMW non si chiama più così, e PJC si è trasferito in Scozia).
Poi per vari anni ho fatto ricerca e ho insegnato all’università, pubblicando diversi articoli, ma sempre in modo piuttosto precario, con una borsa post doc e vari assegni di ricerca, borse e contratti di collaborazione.

Ci potresti raccontare la tua storia? Come sei arrivato a diventare un traduttore?

Penso che siano confluiti vari fattori. Da una parte mi hanno sempre interessato molto anche le questioni linguistiche (c’entrerà il fatto che mia madre era traduttrice e poliglotta, e che sono cresciuto in una casa in cui mancavano varie cose ma non i libri?). Credo che uno dei primi libri non scolastici e non narrativi che ho letto sia la “Guida all’uso delle parole” di Tullio De Mauro, uno dei “Libri di base” degli Editori Riuniti, che mi aprì il mondo dei “linguaggi” in vari sensi, di significanti e significati; in particolare mi affascinò l’elenco finale delle 6690 parole del “vocabolario di base della lingua italiana”, distinte in tre categorie a seconda dell’uso e della disponibilità.

Tornando più sul concreto, ho cominciato a tradurre in realtà per caso: attraverso conoscenze, mi era stato chiesto di tradurre dall’inglese qualche articolo e voce di enciclopedia di argomento scientifico. In questo modo m’ero reso conto che mi riusciva tutto sommato facile, nonché che mi piaceva (e mi veniva anche bene, ma questo non me lo posso dire io da solo).
Quindi, via via che si diradavano le possibilità di lavoro all’università, ho cominciato a cercarne in ambito editoriale. La prima traduzione di un libro sano (a quattro mani con un collega), un romanzo dello scrittore britannico Jasper Fforde, arrivò per un caso fortunato: era un libro che mi era piaciuto in originale e ne stavo parlando con qualche editore italiano, fino a rivolgermi proprio a chi ne aveva acquistato i diritti per l’Italia.
Da allora traduco sia narrativa che saggistica, quest’ultima non sorprendentemente soprattutto di argomento scientifico, per Einaudi, Laterza, Rizzoli, Codice e altri.

In cosa consiste esattamente il tuo lavoro?

Ho a casa una grossa scatola nera in cui da una parte infilo i testi in inglese, dall’altra escono in italiano, mi pagano profumatamente per farlo, dopodiché prendo il mio aereo privato e mi lancio verso località esotiche.
No, non proprio… Come tutti i traduttori degni di questo nome, prendo un testo in una lingua (in genere l’inglese) e ne scrivo uno che dice “più o meno la stessa cosa” in un’altra lingua (in genere l’italiano): qualcosa cioè che, nelle intenzioni, abbia lo stesso effetto sul lettore della lingua di arrivo di quello che il testo originale aveva nella lingua di partenza. Notoriamente, non si dovrebbe tradurre a livello della singola parola, ma a livello di frasi o di intero testo, e non lo dico io, ma lo sapevano già Cicerone e san Girolamo.
Quanto agli aspetti concreti, in genere i miei committenti sono case editrici che mi commissionano la traduzione di un libro per volta, e redazioni di riviste per la traduzione di articoli. I traduttori sono oggi quasi tutti liberi professionisti, e se c’è un rapporto continuativo con una stessa casa editrice o testata è perché c’è una relazione di fiducia e apprezzamento reciproci.
Fammi ricordare, già che ci sono, che per la legge italiana e di molti altri paesi i traduttori (a parte certe eccezioni) sono autori a tutti gli effetti, e il loro lavoro è tutelato appunto dalla disciplina del diritto d’autore: insomma, finché non sarò morto da 70 anni, nessuno potrà usare le mie traduzioni senza il permesso mio o dei miei eredi!

“L’Accademia de’ Pignuoli” – idee e pignolerie assortite … Di cosa si parla nel tuo blog?

Sciocchezze, minuzie, piccole segnalazioni, correzioni di errori altrui (e spero non troppi errori miei). Mi piace parlare, quando capita, di faccende curiose, soprattutto linguistiche, per esempio per raccontare della volta in cui Dorothy L. Sayers, giallista e dantista, rese il provenzale dell’Arnaldo Daniello dantesco in scozzese [http://pignuoli.blogspot.com/2016/01/arnaldo-daniello-trovatore-doltremanica.html], o per fare qualche commento sui commenti di Tim Parks alle recenti traduzioni di Primo Levi in inglese [http://pignuoli.blogspot.com/2016/02/da-parks-dante-passando-per-levi.html].
Si tratta di osservazioni un po’ eterogenee, e nel complesso io sono, come sono stato più o meno definito una volta, il blogger più pigro del mondo, il che ha senso perché il blog esiste ormai da quasi nove anni, ma a un ritmo pacato, mai molto più di un paio di post al mese.

Come ti definiresti, più un letterato o un matematico?

Quando devo compilare un formulario o simili, scrivo “Matematico e traduttore”, ma il mio problema è proprio che mi interessano troppe cose. Tuttora gli argomenti che mi appassionano, di cui leggo avidamente e quando posso scrivo, oltre a quelli che hanno a che fare con le mie due vite – matematica e altre scienze da una parte, lingue, letteratura e traduzione dall’altra – sono troppi e troppo eterogenei (disse il signore sicuro che, se si fosse concentrato su una disciplina sola, in quella avrebbe vinto il Nobel).
Ho pile di libri e megabyte di appunti sull’energia nucleare e i movimenti filo- e antinuclearisti, cercando di capire se e dove abbiamo sbagliato; mi diletto di musica classica, pur non suonando decentemente nessuno strumento; mi piace la fantascienza e in altri tempi curavo con amici una fanzine sull’argomento; non sono del tutto digiuno di aviazione; sono innamorato della mia città, Roma, e quando ho una mezza giornata libera me ne godo qualche aspetto, che sia un tratto delle mura erette da Aureliano o la Rebibbia cantata da Zerocalcare; vorrei avere più tempo per coltivare il cinema classico, ma non disdegnando le ultime uscite; e così via. E non sto neanche menzionando le persone care.
Quindi, come mi definisco? Boh. Con un amico ci facemmo una volta dei biglietti da visita scherzosi in cui ci qualificavamo come “cultori di onniscienza”, ma probabilmente sono più un ignorante ad ampio spettro: sono moltissime, le cose su cui sono ignorante.

Cambieresti qualcosa nella tua vita da matematico trascorsa?

Forse sì, e ogni tanto accenno obliquamente alle mie “scelte accademiche sbagliate”. Ma d’altronde, primo, la macchina del tempo non esiste e, secondo, sono felice qui e ora. E quindi, perché cambiare alcunché?

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

More of the same, direi. Fare un lavoro che mi piace, stare più possibile con le persone a cui tengo, seguire per quanto mi riesce i miei troppi interessi e magari dedicarmi di più ad alcuni dei progetti a cui adesso riservo solo i ritagli di tempo, tra cui un paio di cose che sto scrivendo, nonché le attività dei Dragomanni [http://www.dragomanni.it/], un’iniziativa che porto avanti con vari colleghi per autopubblicare traduzioni inedite, la “non casa editrice dei traduttori”.

[Intervista di Maya Briani]

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