Gigliola Staffilani è una matematica italiana che lavora negli Stati Uniti ed è “Abby Rockefeller Mauze Professor” di matematica presso il Massachusetts Institute of Technology. I suoi studi si concentrano sull’analisi armonica e le equazioni differenziali alle derivate parziali. Dal 2014 fa parte della American Academy of Arts and Sciences. Gigliola è anche una vecchia conoscenza per i lettori di MaddMaths! (vedi qui la nostra prima intervista con lei e qui per un’altra per Radio3 Scienza). Nei prossimi giorni sarà possibile assistere ad un colloquium e ad un suo breve corso presso il Dipartimento di Matematica dell’Università di Roma Tor Vergata, in quanto Gigliola è l’EMS Lecturer 2018. Questa intervista, raccolta da Roberto Natalini, è apparsa originariamente sulla Newsletter della European Mathematical Society di giugno 2018 (qui il testo originale in inglese), e la ripubblichiamo con il permesso dell’editore.
Roberto: Gigliola, potresti raccontarci qualcosa di te, gli inizi dei tuoi studi, la tua vita da bambina in Italia?
Gigliola: Sono nata in una piccola cittadina in Abruzzo. I miei genitori erano contadini e ho vissuto con la mia famiglia e quella di un mio zio paterno. Mi piaceva molto giocare all’aperto con la mia cara amica Lina, che abitava alla porta accanto. Ero molto brava a scuola, e specialmente in matematica. Ero anche molto competitiva ed ci rimanevo male se non riuscivo ad avere i voti migliori. Mio fratello è più grande di me di dieci anni ed è stato il primo della mia famiglia ad andare alle scuole superiori e poi all’Università. Non c’erano libri in casa, ma lui si abbonò a “Le Scienze” e così, molto presto, cominciai a leggere di alcune straordinarie scoperte scientifiche. Non capivo molto di quello che leggevo, ma mi piacevano molto le brevi biografie degli scienziati. Fu in quel periodo che sentii nominare per la prima volta Princeton, Stanford, Harvard, MIT… Sono stata molto felice nella mia infanzia, ma, sfortunatamente, quando avevo nove anni, mio padre, che allora ne aveva 43, si ammalò di un tumore al colon e morì nel giro di un anno. Ne fui devastata e persi il mio carattere spensierato. Per non pensare troppo a questa perdita, nel tempo libero decisi di mettermi a risolvere i problemi di matematica che trovavo nel libro scolastico e continuai a farlo per tutto il liceo e, in qualche modo, funzionò.
R.: Che cosa pensavi della matematica quando eri una bambina?
G.: Mi piaceva il fatto che la matematica fosse completamente logica, senza sorprese. Mi piaceva il fatto che potessi controllarla e che una dimostrazione fosse un fatto non soggettivo o emotivo. Avevo abbastanza emozioni negative intorno a me e avevo proprio bisogno di un luogo mentale dove le emozioni non potessero prevalere.
R: Potresti decriverci l’inizio della tua carriera matematica negli Stati Uniti? È stata dura iniziare da emigrante in un paese nuovo e sconosciuto?
G.: Penso che il primo e forse maggiore “shock culturale” lo provai quando partii dal mio villaggio per andare a Bologna per studiare all’università. Andare poi da Bologna all’università di Chicago è stato in qualche modo più semplice, nonostante il fatto che anche lì abbia incontrato una quantità infinita di ostacoli. Non dovevo dimostrare niente a nessuno a Chicago e non conoscevo nulla della cultura americana. Il primo ostacolo che incontrai una volta arrivata al campus, fu che non potevo immatricolarmi come studente perché non avevo ancora sostenuto il TOEFEL (NdT: la prova di conoscenza della lingua inglese). In realtà non sapevo proprio niente di inglese. Per questo motivo avevo soltanto un “visto temporaneo da studente potenziale”, che non mi permetteva di immatricolarmi. Non potendo immatricolarmi, non potevo abitare come studente nel International House, per cui in pratica mi trovai senza casa in uno dei campus più pericolosi degli Stati Uniti. Cercai allora di trovarmi una stanza in affitto. Avevo risparmiato un po’ di soldi lavorando d’estate nei due anni precedenti, e trovai una stanza non ammobiliata. La presi, così da avere almeno un tetto sulla mia testa. Fortunatamente, il direttore del dipartimento di matematica mi concesse di registrarmi come studentessa, nonostante il mio visto non lo consentisse, pensando che io avrei in ogni caso rinunciato dopo un paio di settimane, risolvendogli così il problema. Ma io restai per un mese intero e a quel punto si presentò un secondo ostacolo: non ricevetti il primo assegno della mia borsa di studio. Seppi in seguito che questa era un’altra conseguenza del fatto che ufficialmente ero ancora una “studentessa potenziale”. A quel punto mi convinsi che era meglio rinunciare e con mio grande dispiacere decisi di usare la cabina telefonica nel dipartimento di matematica per fare la prenotazione per il viaggio di ritorno in Italia. Mentre ero al telefono, il responsabile della mia iscrizione, il Professor Sally, passò per caso di lì. Vide che ero turbata, mi fece segno di interrompere la telefonata e mi chiese cosa succedeva. Con il mio scarso inglese di allora gli spiegai la situazione. Allora, come se nulla fosse, mi portò nel suo ufficio e mi diede un assegno di circa 1500$, che era l’equivalente del mio primo mese di borsa. Penso spesso a quel momento, una fortunata coincidenza, completamente casuale, che sarebbe potuta non succedere. Se così fosse stato la mia vita sarebbe stata completamente diversa!
R.: Oggi invece sei un’esperta mondiale in analisi armonica ed equazioni alle derivate parziali di tipo dispersivo. Come mai hai deciso di studiare in questo settore? Perché ti piace?
G.: Ho iniziato a occuparmi di analisi armonica da studentessa a Bologna, mentre scrivevo la mia tesi su certe funzioni di Green. Amo l’analisi, per me è molto più versatile dell’algebra. L’analisi armonica in particolare ti permette di ridurre molti problemi alla comprensione delle interazioni tra funzioni semplici e quindi a doverle rimettere insieme in modo intelligente così da dedurre delle proprietà delle funzioni in generale. A me sembra sia proprio uno strumento potente e molto versatile.
R.: Potresti spiegare ad un pubblico istruito, ma non specialistico, il succo degli studi sulle equazioni dispersive che hai prodotto nella prima parte della tua carriera accademica?
G.: Quando inizia a parlare con il mio direttore di tesi di dottorato all’Università di Chicago, Carlos Kenig, mi spiegò che avrei potuto lavorare in una delle due aree di ricerca in cui lui era esperto: le equazioni ellittiche, su cui un enorme progresso era stato raggiunto negli ultimi anni e i problemi lasciati aperti erano veramente difficili, o le equazioni dispersive, su cui aveva cominciato a lavorare solo recentemente e per cui c’erano molti problemi aperti. Aggiunse che non sapeva bene se quest’ultima direzione di ricerca sarebbe veramente diventata importante in analisi. Decisi di prendere il secondo argomento, e sono molto contenta di averlo fatto, poiché in effetti, grazie anche ai lavori in questo campo di Jean Bourgain e Terence Tao, le equazioni dispersive sono diventate realmente molto importanti. I problemi principali che ho affrontato con vari collaboratori sono stati relativi all’esistenza, unicità e stabilità (ossia la buona positura) di soluzioni poco regolari di equazioni dispersive come le equazioni di Schrodinger o la KdV. Eravamo interessati a queste soluzioni poco regolari perché uno vorrebbe assumere che solo la massa (quella che chiamiamo la norma L2) o l’energia (collegata alla norma H1) siano limitate per queste soluzioni in quanto hanno un significato fisico nel contesto del problema. Come primo passo uno potrebbe dimostrare la buona positura in un piccolo intervallo di tempo, ma il passo successivo e più difficile è di capire cosa succede per tempi molto lunghi. Per rispondere a questa domanda, con i miei collaboratori Colliander, Keel, Takaoka e T. Tao, abbiamo inventato il concetto di “leggi di quasi conservazione” che è stato in seguito sviluppato in diversi contesti da noi e altri ricercatori.
R.: Quali sono stati i maggiori contributi che hai ottenuto nel tuo campo? Le tue idee più originali?
G.: Ci sono tre elementi della mia ricerca di cui sono molto fiera. Il primo ha a che fare con le stime polinomiali per le norme negli spazi di Sobolev di soluzioni di equazioni dispersive. Queste stime sono state introdotte per la prima volta da Bourgain per dare delle limitazioni superiori per delle quantità che indicavano il trasferimento di energia, ossia quanta “energia” delle soluzioni si può muovere dalle basse alle alte frequenze nella dinamica fornita dalle equazioni dispersive. Il secondo contributo è in collaborazione con Colliander, Keel, Takaoka e Tao, è venuto molto dopo, ed è la costruzione di una soluzione particolare per l’equazione di Schrodinger non lineare periodica in due dimensioni spaziali, che in effetti mostra una specie di “trasferimento di energia”. Era una dimostrazione costruttiva che comportava alcuni argomenti di tipo combinatorico e strumenti di analisi dei sistemi dinamici. Il terzo contributo, con gli stessi autori di prima, riguardava le “leggi di quasi conservazione”. Se non lavori al livello della massa né a quello dell’energia, non c’è nessun metodo intrinseco conosciuto per controllare la dinamica del problema nel corso del tempo. Per esempio, supponiamo che il problema non sia abbastanza regolare da dare senso all’energia che è legata alla norma H1, ma la soluzione è definita in Hs, con s<1. A priori non c’è un buon controllo in tempo per la norma Hs della soluzione. Ma se guardiamo alla norma Hs come ad una Haniltoniana di una soluzione perturbata di poco, allora ci accorgiamo che è possibile operare alcune opportune cancellazioni nello spazio delle frequenze e dare quindi un controllo soddisfacente della soluzione per s<1, ma abbastanza vicino a 1.
R.: Qual è il risultato più importante tra quelli che hai ottenuto e perché è importante per te?
G.: Tutti i risultati di cui ho parlato prima sono per me molto importanti, ma ce n’è un’altro, di cui non ho detto, che ha avuto un impatto enorme nella comunità dispersiva, poiché ha dimostrato un qualcosa che era facile da enunciare, che era creduto vero da tutti, ma molto difficile da provare rigorosamente. È stato in un altro lavoro con Colliander, Keel, Takaoka e Tao. Consideravamo un tipo di equazione di Schrödinger non lineare in tre dimensioni spaziali, con dati di energia finita. Esiste una soluzione globale nel tempo che conserva l’energia costante che viene dai dati iniziali? Il problema qui era che l’energia è una quantità “critica”, nel senso che un cambiamento di scala intrinseco la lascia invariata, e quindi nessun riscalamento permette di ridurre la grandezza dei dati e farlo diventare un problema a dati piccoli, molto più facile da maneggiare, poiché in questo caso la parte non lineare può essere trattata come una piccola perturbazione della parte lineare del problema. Abbiamo dovuto trovare un modo di analizzare il problema considerandolo come puramente non lineare. Alla fine l’elemento mancante di cui avevamo bisogno era la disuguaglianza di interazione di Morawetz (NdT: in onore della matematica Cathleen Synge Morawetz che per prima utilizzò questo tipo di disuguaglianze in problemi di scattering), che in realtà è un’identità fondamentale che fino ad allora non era stata scoperta. È stato eccitante trovare questa identità. In analisi le disuguaglianze sono la normalità, le identità sono rare e di solito sono state scoperte da molto tempo. Per questa è stata veramente una grande sorpresa!
R.: Collabori con alcuni matematici molto famosi come James Colliander, Markus Keel, Hideo Takaoka, e Terence Tao, e ho letto che siete conosciuti come l’«I-team». Potresti spiegare cosa vuol dire e l’origine di questo nome?
G.: Siamo chiamati l’I-team perché in uno degli articoli originali sulle “leggi di quasi conservazione” abbiamo usato un operatore di moltiplicazione che, senza nessuna ragione particolare, abbiamo indicato con “I”. Mi sembra che a quel punto avessimo finito tutte le altre possibili lettere.
R.: Ora sei professore di matematica pura al MIT. Credo tu sia una delle poche donne ad aver raggiunto questo tipo di posizione. Che cosa ne pensi? La situazione sta cambiando?
G.: Quando arrivai al MIT c’era sono un’altra donna in matematica applicata ed ero la sola in matematica pura. Ora siamo in 5. Per cui c’è stato un piccolo miglioramento, ma non così tanto se pensiamo che siamo 53 professori nel dipartimento.
R.: Com’è l’ambiente nel tuo dipartimento e quanto è importante per te, per il tuo lavoro?
G.: Adoro il mio dipartimento, è un posto molto “democratico” e le persone ti ascoltano. Certo, ci sono varie discussione, ma sempre molto costruttive. Non ci sono gruppi che si combattono l’uno contro l’altro e ognuno è responsabile di fornire la migliore organizzazione possibile per gli studenti, i postdoc e i professori. Questo per me è fondamentale. Ho bisogno di sentirmi felice quando vado a lavoro, altrimenti sarei una pessima ricercatrice, insegnante e mentore.
R.: Ci dici qualcosa sui problemi che hai considerato più recentemente? Qual’ è il centro della tua attività attuale?
G.: Di recente ho cominciato ad usare un pochino più di probabilità nel mio lavoro. Spesso quando lavori con dati iniziali poco regolari, capita che uno possa dimostrare che ci sono particolari controesempi per la buona positura. Ma se uno chiede un po’ meno, potrebbe accontentarsi di dimostrare che per “quasi tutti i dati iniziali” la buona positura è possibile. Ovviamente uno deve dare un senso a quel “quasi tutti”, ma è per questo che c’è la probabilità. Ho lavorato anche alla struttura di integrabilità per alcune gerarchie di equazioni di tipo dispersivo che descrivono la condensazione di Bose-Einstein nel quadro della teoria di Gross-Pitaevskii .
R.: Hai ricevuti molti premi e riconoscimenti. Qual è il più importante per te?
G.: Il fatto di essere stata nominata membro della American Academy of Arts and Sciences è stato veramente straordinario. In un simile organismo mi sento di far parte in qualche modo della Storia. Inoltre, come membro, ho la possibilità di discutere di nuove direzioni nell’insegnamento che un giorno potrebbero influenzare la vita di molte persone, e per questo motivo mi sembra di “ridare indietro” alla società qualcosa di ciò che ho ricevuto.
R.: Quanto del tuo lavoro è intuizione e quanto è solo duro lavoro?
G.: Penso che nel mio caso sia metà e metà. Credo che l’intuizione arrivi quando ti sei chiarita abbastanza della tua mente da poterla ricevere. E per chiarirti devi lavorare duramente per cercare di eliminare tutti quei tentativi che non portano da nessuna parte.
R.: Come organizzi il tuo lavoro? Segui una routine, o cambi a seconda delle condizioni esterne?
G.: Recentemente ho lavorato molto con colleghi esperti e postdoc. È difficile fare tutto nello stesso momento, per cui cerco di fare in modo che certi momenti prefissati della settimana siano liberi per lavorare con determinati gruppi. In questo senso direi che seguo una routine.
R.: Secondo te, qual è la situazione delle donne in matematica nel mondo? C’è una differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti?
G.: Forse posso solo confrontare l’Italia e gli Stati Uniti. Penso che in entrambi i paesi vi siano troppe poche donne al livello di professore ordinario. Ma non penso che in Italia le persone credano che la ragione sia che le donne non hanno lo stesso talento degli uomini. Sfortunatamente negli Stati Uniti le persone ancora credono che le donne non siano in generale portate per la matematica e che non riuscire in matematica per una ragazza sia assolutamente normale. Ho paura che questo modo di vedere sia molto difficile da cambiare.
R.: So che sei impegnata nel ridurre le differenze tra donne e uomini in matematica. Quali azioni hai intrapreso a questo scopo?
G.: Credo profondamente nella diversità, in tutte le sue sfumature: genere, razza, provenienza familiare. Credo però che quando non ci sono modelli di comportamento è molto difficile immaginarsi in una certa posizione, ed è per questo che sostengo con forza la presenza di tali figure nel dipartimento per seguire i giovani. Al MIT organizzo un seminario all’ora di pranzo in cui invito donne matematiche, che lavorano con successo in ambito accademico o industriale, che vengono a raccontare alle donne del dipartimento (a partire dagli studenti del corso di laurea in poi) come siano arrivate dove sono ora. Nel fare questo spiegano anche, in modo divulgativo, la matematica che usano per fare ricerca o nel loro lavoro.
R.: Che cosa fai a parte la matematica? Hai degli hobby?
G.: Non ho molto tempo per me stessa, ma quando posso, amo molto fare passeggiate in montagna, prendermi cura del mio piccolo giardino di città, e per la maggior parte del tempo chiacchierare con mio marito e i nostri figli.
R.: Che rapporto hai con l’Italia adesso? Sei ancora in contatto con il tuo paese?
G.: Adoro visitare l’Italia, sia per lavoro che per ragioni personali. Sono in contatto con qualche matematico laggiù e ho anche tenuto corsi in qualche scuola estiva. A luglio infatti sarò a Roma per una settimana!