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Ganna Rozhnova è Professoressa di Modelli Epidemici alla University Medical Center Utrecht (UMCC). E fa parte del gruppo di ricerca del BioISI—Biosystems & Integrative Sciences Institute di Lisbona. La intervista Marco Menale.

Marco Menale: Ciao, Ganna. Come va? E cosa stai facendo in questo periodo?

Ganna Rozhnova: Ciao, e grazie per l’invito. Tutto bene, anche se sono molto impegnata con il lavoro. Di recente, sono stata a Bilbao per la “Conference on Dynamical Systems Applied to Biology and Natural Sciences (DSABNS)”. Si è trattata della 14° edizione di questo evento, particolarmente interessante per il mio campo di ricerca. Quest’anno ho presentato i risultati di un lavoro sull’epidemia di COVID-19 in Olanda.

Ganna

E poi sono molto impegnata con gli insegnamenti. C’è il corso di “Moleculare Epidemiology” per gli studenti del Master (Laurea Magistrale, in Italia) in “Epidemiology” della University Medical Center Utrecht (UMCC). Inoltre tengo anche il corso di “Complexity in the Sciences” per il Bachelor (Laurea triennale, in Italia) in “Beta Sciencies” alla Utrecht University. Senza dimenticare il lavoro con giovani ricercatori e ricercatrici, sia al dottorato che dopo. Infatti, due nuovi dottorandi si sono uniti al mio team che è parte del gruppo “Infectious Disease Modeling group” del UMCC. Tra questi c’è un’italiana: Benedetta Canfora.

MM: Come sei arrivata a occuparti di epidemiologia?

GR: Nasco in Ucraina, dove compio parte dei miei studi, fino al liceo. Seguo un percorso scolastico specializzato sulla matematica e sulla fisica. A 15 anni, la mia famiglia si trasferisce in Portogallo, a Lisbona, per alcune esigenze. Per gli studi universitari scelgo la fisica, perché era la mia passione durante gli anni della scuola. E già so di voler continuare poi con un dottorato. Poco prima della laurea all’Università di Lisbona, decido di presentare domanda per una borsa di dottorato “Fondazione Portoghese per la Scienza e la Tecnologia”.

Ganna Conf

Però devo trovare un supervisore per un valido progetto di ricerca. E dopo alcuni tentativi, mi rivolgo alla professoressa Ana Nunes, esperta in fisica della materia condensata. Mi propone un progetto per modellare le malattie infettive infantili con diversi strumenti della matematica e della fisica, tra cui: meccanica statistica, processi stocastici, complex network e sistemi dinamici. Quello è un periodo di grande interdisciplinarità: la fisica comincia a interessarsi alla modellazione di diversi fenomeni, tra cui le epidemie. Ci sono diverse possibilità di finanziamento. Capisco subito che la modellistica delle epidemie sarà il mio campo di ricerca, e lì cercherò di dare il mio contributo. Tuttavia, non è sufficiente conoscere solo la matematica e la fisica; per questo comincio a studiare anche biologia ed epidemiologia. E così mi specializzo nel campo dei modelli per malattie infettive, dove tuttora lavora.

MM: Ci racconti del tuo lavoro di ricerca?

GR: Mi occupo di applicare (e trovare) modelli matematici per rispondere a domande di saluta pubblica e per aiutare i decisori politici nelle loro scelte. Mi riferisco a scelte basate su evidenze scientifiche. In questo modo tentiamo di intervenire nel caso di malattie infettive, in modo repentino ed efficace. Purtroppo non è facile trasmettere alla popolazione l’importanza di questi studi. E nemmeno dopo la recente pandemia di COVID-19. Infatti, quello delle malattie infettive è un problema che va ben oltre il COVID-19, e riguarda tutto il mondo. Basti pensare che solo nel 21° secolo ci sono stati otto eventi epidemici. In ordine cronologico abbiamo avuto: SARS, influenza suina, MERS, Ebola, Zika, COVID-19, epatite di origine sconosciuta nei bambini e vaiolo delle scimmie. Abbiamo sviluppato trattamenti e vaccinazioni per diverse malattie infettive, tuttavia c’è ancora molto da fare. Infatti, finora solo il vaiolo è stata eradicato.

MM: E come lo fai usando la matematica e la fisica?

GR: A me interessa capire la dinamica spazio-temporale di un’infezione virale e l’impatto degli interventi sulla trasmissione a diverse scale. Ad esempio, capire come una certa misura possa impattare sull’epidemia all’interno di una scuola, oppure, su scala più grande, come la vaccinazione possa farlo sull’intera popolazione mondiale. Dunque, il modello mi aiuta a capire come l’infezione si diffonde nella popolazione umana e/o animale, sia a livello spaziale che temporale, e quali interventi ne interrompono la diffusione. Io mi occupo di infezioni a trasmissione respiratoria e sessuale, sia già radicate che emergenti, e che richiedono attenzione per il loro impatto su scala globale. E tra queste ci sono: SARS-CoV-2, vaiolo delle scimmie, HIV, influenza e CMV.

Ganna Conference
I modelli epidemici sono utilizzati per capire l’impatto degli interventi di salute pubblica. E non si potrebbe fare altrimenti. Non possiamo certo fare esperimenti sulla popolazione umana, lasciando circolare liberamente un virus e capire quale misura assicuri il modo più rapido ed efficace per fermare la diffusione. Per questo studiare e sviluppare modelli è importante per rispondere a queste domande e non farsi trovare impreparati. L’importanza dei modelli non è emersa per la prima volta con la pandemia di COVID-19. Infatti già con l’HIV, il programma di eliminazione “Joint United Nations Progamme on HIV/AIDS (UNAIDS)” si è basato su pubblicazioni scientifiche che mostravano attraverso i modelli come bloccare la trasmissione di HIV tra persone, usando test e trattamenti.

 

 

MM: Quali modelli utilizzi?

GR: Utilizzo diversi modelli che variano per la loro complessità. Provo a elencarli per complessità crescente. I più semplici distinguono la popolazione in compartimenti. Si parla di “modelli compartimentali” (dall’inglese, “compartmental models”). Ad esempio, ne consideriamo tre: suscettibili, infetti e rimossi. I suscettibili sono gli individui che possono contrarre l’infezione, per mezzo di un qualche tipo di contatto proprio con gli infetti. Mentre i rimossi sono quelli che hanno superato l’infezione con qualche esito (guarigione o morte). In questo caso si parla anche di “modelli a mix omogeneo” (dall’inglese, “homogeneously mixing models”), perché le persone sono viste come le molecole di un gas, e queste molecole, tutte uguali, si mischiano tra loro. Si tratta di modelli molto semplici, tuttavia descrivono bene l’epidemia in alcuni casi, come per il COVID-19.

Ganna scalata
Poi ci sono modelli con struttura sociale, in cui la popolazione è divisa per età o per qualche altra caratteristica demografica. Anche questi sono stati utilizzati per il COVID-19, ad esempio per spiegare il grande numero di ospedalizzazioni tra le persone più anziane. Ancora, ci sono i “modelli con reti di contatto” (dall’inglese, “contact network models”) in cui gli individui sono connessi in una rete attraverso la quale l’infezione può diffondersi. È il caso delle malattie sessualmente trasmissibili. Infatti, gli individui possono contagiarsi solo all’interno della rete dei contatti sessuali, mentre quelli all’esterno no. Poi ci sono i “modelli a metapopolazione” (dall’inglese, “metapopulation models”) per lo studio della diffusione di un’infezione tra diverse città o diversi continenti. In questo periodo, sto applicando questi modelli per la trasmissione dell’HIV nelle regioni dei Caraibi, composte da svariate isole.

 

Infine, utilizzo anche i “modelli basati sull’agente” (dall’inglese, “agent-based models”), forse i più dettagliati. In questi, ogni individuo ha le sue peculiari caratteristiche, rilevanti per la diffusione dell’infezione. E si può andare avanti con modelli più complessi. In generale, più complesso è un modello, meno è trattabile da un punto di vista analitico, cioè poco possiamo dire sulle soluzioni delle equazioni.

Ganna scalata
Ad esempio, i modelli a mix omogeneo sono scritti esplicitamente come un insieme di equazioni differenziali che possono essere risolte analiticamente o numericamente. E possiamo esprimerci su diverse proprietà delle soluzioni, anche se non note esplicitamente. Invece, i modelli basati sull’agente non permettono una scrittura esplicita, ma possono solo essere trattati per via informatica, con qualche buon linguaggio di programmazione, e simulati numericamente. Tuttavia, queste simulazioni diventano molto pensanti al crescere della complessità del particolare modello basato sull’agente utilizzato. E così si rischia di avere qualcosa di inutilizzabile. Per questi motivi, la scelta di un modello è una fase delicata. Infatti, bisogna scegliere un modello che sia semplice, così da poterci lavorare, ma realistico, ossia tale da non perdere troppe informazioni e non descrivere più nulla.

 

MM: E per il futuro quali sono le prospettive di ricerca?

GR: Sono diverse. Ma credo di poter contribuire maggiormente in tre direzioni. Sviluppo di strategie di vaccinazione su misura. Studio per strategie di cura  e per l’eliminazione dell’HIV. E dinamica post-pandemica del COVID-19, da estendere anche da altri virus respiratori. Continuerò ad applicare sia modelli semplici che complessi.

Per le strategie di cura dell’HIV, sto sviluppando modelli semplici con struttura sociale. Questi sono adeguati per questo tipo di problema, dato che non conosciamo l’impatto di una possibile cura sull’evoluzione delle infezioni da HIV.  Con questi modelli otteniamo delle conclusioni qualitative. Per ora osserviamo che l’introduzione di una strategia di cura dell’HIV nella popolazione europea potrebbe portare a un aumento nel numero di casi, a meno che la cura non sia perfetta, ossia previene l’infezione per il resto della vita, come nel caso dei vaccini. Questo risultato è in contraddizione con l’attuale politica di eliminazione dell’HIV nel mondo. Dunque, bisogna ben misurare l’introduzione di queste strategie.

Nel caso del COVID-19 sto utilizzando modelli più complessi. Ora l’infezione da SARS-CoV-2 causa più o meno un comune raffreddore nella maggior parte degli individui, mentre tra le persone più vulnerabili, ossia quelle con patologie croniche, si osserva ancora un eccesso di ospedalizzazioni e decessi. Serve ottenere stime di questi valori e determinare una strategia di intervento tale da proteggere questa fetta della popolazione. In quest’ottica sto lavorando su modelli per definire strategie di vaccinazione nella popolazione vulnerabile. Si tratta di modelli adattati ai dati con metodi statistici. Tuttavia, ci sono almeno un paio di difficoltà. Da un lato la procedura di adattamento ai dati (fitting, in inglese) può richiedere molto tempo. Dall’altro c’è una certa difficoltà nella disponibilità di dati. Ad esempio, serve collegare tra loro infezioni, ospedalizzazioni e patologie croniche individuali. E per questo ci stiamo avvalendo del supporto dei dati dello “Statistics Netherlands”.

MM: A tuo avviso, cosa abbiamo imparato dalla lezione del COVID-19? Saremo più preparati all’arrivo della prossima pandemia?

GR: È una domanda delicata, ne ho trattato anche in un recente articolo. Di sicuro, abbiamo imparato qualcosa, a livello personale, professionale e scientifico. Però non credo che siamo preparati per la prossima pandemia (qui per approfondire). Anzi, ne sono sicura, perché questo dimostrano i fatti. Nell’estate 2022 abbiamo assistito a un epidemia di vaiolo delle scimmie in Europa e non ci siamo dimostrati pronti ad affrontarla, con efficacia e tempestività. Bisogna cambiare alcuni processi decisionali con cui affrontare una pandemia. Ad esempio, ricercatori e ricercatrici dovrebbero avere un accesso rapido ai dati, perché senza dati non possiamo costruire modelli affidabili, ma solo lavorare con possibili scenari.

MM: A tuo avviso, com’è la situazione delle donne in ambito scientifico?

GR: La mia esperienza è relativa a due nazioni. In Portogallo ho solo conseguito il dottorato, dunque non ho potuto notare molte differenze di genere. Mentre, in Olanda, dove tuttora lavoro, ho constato le difficoltà delle ricercatrici nella loro carriera. In un certo senso hanno più impedimenti. Penso al minor tempo a disposizione dovuto agli impegni familiari per coloro che scelgono di avere dei figli. Tuttavia, in Olanda ci sono diverse opportunità. È possibile optare per carriere part-time, come successo ad alcune mie colleghe. E poi c’è la possibilità per le dottorande di estendere la durata del dottorato in concomitanza di una maternità, o di altre situazioni. Inoltre, il National Dutch Funder (NWO) mette a disposizione delle borse, le Aspasia grants, per consentire a giovani ricercatrici di fare carriera, arrivando al ruolo di docenti.

MM: Oltre la modellistica epidemiologica, quali hobby hai?

GR: Amo i gatti. Ne ho due con il mio compagno: Tishka, un british shorthai, e Sasha, uno european shortair. E poi amo le scalate, a più livelli. Tra le varie, sono arrivata alle vette di: Kilimangiaro, Aconcagua, Elbrus, Monte Bianco, Alpamayo e Stetind. E sono arrivata fino ai limiti del circolo polare artico, nelle Isole Lofoten. Ultimamente, il lavoro mi tiene a quote più basse, però continuo i miei allenamenti in strutture al chiuso.

Ganna scalata

 

 

Marco Menale

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