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 Ci sono due punti di vista abbastanza diffusi, due affermazioni opposte che non condivido.

Affermazione 1: “La matematica pura è un gioco fine a se stesso, un esercizio difficile quanto si vuole ma inutile”.

Affermazione 2: “La matematica applicata non è realmente matematica: è semmai ingegneria o fisica o informatica ecc.”

L’Affermazione 1 è alla radice delle difficoltà nell’ottenere una comprensione adeguata del nostro lavoro e – logica conseguenza – nel ricevere finanziamenti decenti. L’Affermazione 2, pronunciata fortunatamente solo in alcuni ambienti matematici, è a mio parere un incantesimo malefico che pesa sui nostri laureati e sullo stesso sviluppo della nostra disciplina; penso che contribuisca alla diffidenza nei nostri confronti da parte del grande pubblico.

Che l’Affermazione 1 sia superficiale e inesatta l’ha dimostrato ripetutamente la Storia, per quello che riguarda non solo la matematica, ma in generale tutta la ricerca di base. È un fatto appurato che gli sviluppi tecnologici possono crescere solo su una base vastissima di conoscenze. Anche il nostro forno a microonde non esisterebbe se qualcuno – molto tempo prima –  non si fosse tolto lo sfizio di capire se gli atomi di una molecola d’acqua fossero in fila o a V; una curiosità che forse l’uomo della strada vedrebbe degna di un Premio IgNobel… Quanti secoli di studio della lingua sono poi alla base dei moderni traduttori automatici?

Nella matematica questo fenomeno è ancora più evidente. Dallo studio “fine a se stesso” delle sezioni coniche di Apollonio di Perga alle leggi di Keplero passano diciotto secoli. Nel Seicento Pascal, Huygens, Jakob Bernoulli inaugurano lo studio della probabilità prendendo spunto dal gioco d’azzardo; la disciplina si sviluppa intrecciandosi con l’analisi matematica e nel Novecento senza di essa la meccanica quantistica semplicemente non esisterebbe. Così come non esisterebbe la crittografia a chiave pubblica se tre secoli fa non fosse stata inventata l’algebra modulare. Il mio esempio preferito è costituito però dalle funzioni trigonometriche: nate nel 499 d. C. per usi geometrici e astronomici, si trovano in modo naturale come funzioni notevoli per derivazione e integrazione; Fourier non può fare a meno di usarle nello studio della propagazione del calore: la sua celebre serie nasce nel 1807. Prima ancora,  Eulero si era divertito a scrivere l’uguaglianza exp(ix) = cos(x) + i sin(x), legando le due funzioni a quell’altra “curiosità” che sono i numeri complessi, perciò Fourier può inventare la sua trasformata nel 1822. Io però la trasformata di Fourier l’avevo studiata non per l’equazione del calore, ma per lo studio dei campi elettromagnetici prodotti da una carica in movimento; e l’ho ritrovata in tutt’altro ambiente: la compressione d’immagini nel formato jpeg. Che la serie di Fourier sia essenziale nell’analisi del suono (e di conseguenza nella telefonia, nei CD, ecc.) è cosa ben nota.

Ora, possiamo certo dire che Aryabhata fosse più astronomo che matematico (sempre che la distinzione avesse senso) nel momento in cui inventava il seno di un angolo. Ma senza tutto lo sviluppo teorico dei secoli successivi, come si sarebbero mai potuti collegare ambiti così diversi come angoli, numeri complessi, derivate e integrali, propagazione del calore, campi elettromagnetici, suoni e immagini, con tutte le ricadute tecnologiche? Qualcuno pensa davvero che si potesse partire dall’esigenza di ridurre l’occupazione di memoria di un’immagine e inventare seno e coseno a questo scopo?

D’accordo: probabilmente la maggior parte dei teoremini che noi poveri mortali pubblichiamo non avrà alcun impatto sulla scienza e la tecnologia dei posteri. Ma è largamente imprevedibile quali siano le esigenze future e quali risultati possano rivelarsi fecondi fra venti, cento, anche mille anni. Poi permettetemi: non c’è solo il metro utilitaristico. Come l’arte, la conoscenza è un impulso dell’essere umano fin dalla notte dei tempi: se c’è qualcosa, qualsiasi cosa che si può sapere, allora si deve sapere. Il suo uso è un problema diverso.

Obiezione politica: anche ammesso che sia importante che qualcuno si dedichi allo sviluppo della matematica nella sua massima generalità, perché mai questo qualcuno dovrebbe essere pagato dal contribuente italiano? I teoremi sono pubblicati abbastanza in fretta, lasciamoli fare agli altri; basta abbonarsi alle riviste giuste. Eh no, non ci sto: sono convintissimo che lo sviluppo scientifico e tecnologico di una nazione (e la sua dignità) necessiti di tutto lo spettro. Questo mi porta a controbattere anche l’Affermazione 2.

Nessun matematico nega che gran parte dei concetti classici della nostra disciplina provenga da esigenze esterne, soprattutto dalla fisica. Ma poi – lo sostenevo poco fa – è solo grazie alla generalità conferita dalla ricerca matematica vera e propria che un’idea geniale può dare il massimo dei suoi frutti, con ricadute anche molto lontane dal contesto originario. Perciò le ultime generazioni di matematici, in particolare sotto l’influenza del Bourbaki, si sono via via allontanate da stimoli esterni, trovando problemi e riversando risultati all’interno della matematica stessa. Lungi da me l’asserire che ciò sia sbagliato! Però ritengo miope rifiutare che alcuni di noi trovino ancora ispirazione da problemi concreti, negare dignità alle loro ricerche. La fisica continua a proporre quesiti affascinanti, l’economia anche. I colleghi che lavorano in fisica matematica e in analisi l’hanno capito bene, per non parlare dell’analisi numerica. Ma la tecnologia di questo secolo – con l’analisi del parlato, la robotica, la visione artificiale, la comprensione automatica del testo, l’informatica teorica, la diagnosi automatica per immagini eccetera – offre un’enorme quantità di spunti affascinanti anche alle aree più tendenzialmente astratte come l’algebra, la geometria, la topologia. Per intenderci: anche questi problemi hanno bisogno di nuovi teoremi.

Disdegnare questi possibili sviluppi stigmatizzandoli come non-matematica è, secondo me, estremamente deleterio per diversi motivi. Uno è il pericolo di inaridire le fonti stesse della ricerca. Un altro motivo è il distacco da una catena di conoscenza che necessita di uno spettro senza soluzioni di continuità. Inoltre è necessario che i laureati in matematica siano maggiormente preparati ad affrontare problemi concreti, se vogliono essere efficacemente ricevuti dall’industria.

Un ultimo motivo è socio-politico. Un mio collega algebrista obiettava a queste mie considerazioni: “Se si dà valore alla matematica orientata alle applicazioni, ne verrà un danno a quella pura”. Io sono convinto del contrario! Impegniamoci a garantire ed evidenziare la continuità dello spettro: allora sì che il cittadino, il giornalista, il politico riconosceranno  la necessità di ogni fase della ricerca; capiranno che, nel momento in cui voglio sviluppare una branca della teoria dell’omologia ad uso della visione artificiale, ho bisogno di avere nello studio vicino il topologo “puro” e magari il categorista e il gruppista, da cui attingere aiuto e consiglio e a cui forse fornire uno spunto per ricerche tutte sue.

La conoscenza è vasta e intrecciata, non può essere diversamente; non deve continuamente giustificare la propria esistenza con qualche brevetto. La conoscenza non si riduce certo alla scienza, la matematica poi non è nemmeno una scienza, tecnicamente. Però la matematica è – per citare un mio allievo e Maestro – l’arte dell’apprendimento simbolico-quantitativo; in un mondo che sempre di più si fa simbolo dobbiamo coltivarla con attenzione, concederle libertà, lasciarla contaminare e contaminarsi. Dovremmo affidare al passato la contrapposizione pura/applicata e semmai distinguere la matematica che ci interessa e ci piace da quella che ci interessa e piace meno. L’arcobaleno della conoscenza è bellissimo con le sue sfumature. Non spezziamolo e non riduciamolo a pochi fissati colori.

Massimo Ferri

Dip. di Matematica, Università di Bologna

 

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