«Il pregiudizio esiste e la scalata ai vertici della ricerca per le donne è ancora difficile. Ma il gap è soprattutto generazionale».
Intervista a Elisabetta Strickland, professoressa di Algebra all’Università di Roma Tor Vergata e vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica. (Corriere.it, 17 giugno 2014)
«La matematica è una meraviglia estetica. Ragazze, non tiratevi indietro». Anche se mamma non vuole
Donne e teoremi, due universi paralleli e inconciliabili? Dopo il post sul pregiudizio che rende ardua la carriera delle scienziate – pregiudizio misurato e spiegato dall’economista Luigi Zingales in una ricerca di rilievo internazionale – pubblichiamo ora l’intervista a Elisabetta Strickland, professoressa di Algebra all’Università di Roma Tor Vergata e vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica. Il pregiudizio contro le donne scienziate è davvero così forte?
«I dati europei dicono che più del 50% dei laureati in materie scientifiche è donna ma quando si passa alla fase successiva la situazione cambia bruscamente: nella fascia dei ricercatori assunti solo il 30% sono donne. Ai livelli superiori, poi, il profilo di carriera diventa drammatico: nelle università italiane – ma è un dato comune in Europa – solo il 16,5% dei professori di ruolo sono donne, in tutte le materie scientifiche. Scarseggiano soprattutto in ingegneria e fisica. Va meglio in matematica, ancora di più in biologia e chimica. Ma in generale nelle scienze dure le donne sono davvero poche rispetto alle loro reali capacità».
Gli stereotipi di genere influiscono. «Le donne non vengono incoraggiate ad occuparsi di materie scientifiche. Sussiste lo stereotipo che non siano “adatte”. Ed è un grave errore perché ormai è provata la loro “equivalenza”, e lo dico in senso matematico perché i cervelli maschili e femminili hanno la stessa potenza pur essendo diversi per vari aspetti: le donne hanno un potenziale equivalente a quello dei maschi», spiega la professoressa Strickland.
Un giudizio che seppellisce definitivamente le stravaganti tesi dell’ex rettore di Harvard, Lawrence Summers, secondo cui “le donne hanno meno successo nelle materie scientifiche per motivi biologici”. «Seppelliamo Summers e le sue parole perché ha detto una colossale sciocchezza, soprattutto per una persona del suo livello. E’ stato sfiduciato e invitato a lasciare la carica per questo. Ma lo stereotipo sussiste. Nel liceo classico che frequentava mio figlio c’erano alcune ragazze che avevano un grande talento in matematica, ma i genitori dicevano “no, meglio di no, non fa per te, meglio che fai giurisprudenza o scienze politiche”. E così è successo, creando anche delle persone infelici»,
D’altra parte è difficile a 17-18 anni fare delle scelte di vita così importanti e definitive. Dovrebbero essere indirizzati dalle famiglie e dalle scuole, che spesso ricadono però involontariamente nel pregiudizio. Detto questo l’Italia non è messa peggio degli altri Paesi europei, anzi.
«La situazione è molto migliore che in Germania o in Gran Bretagna, ad esempio. La crisi, però, è reso ancor più grave il fenomeno del brain drain, la fuga dei cervelli. Molti giovani promettenti vanno fuori, verso altri Paesi europei. Il 20 per cento dei nuovi assunti dal Cnrs, l’equivalente francese del Cnr, lo scorso anno ad esempio era composto da giovani ricercatori italiani».
Scelte di carriera che in questo caso non hanno però nulla a che vedere con una “questione di genere”, sottolinea Elisabetta Strickland: «Io stessa non ho mai pensato, nella mia carriera, che essere donna fosse un handicap. Gli stereotipi si combattono. Margherita Hack disse una cosa molto bella: alle donne soprattutto manca la grinta, una forma di autostima che è necessaria per progredire. Uno deve credere in quello che fa».
La situazione sta cambiando. Negli ultimi dieci anni fra gli studenti più brillanti figurano spesso le donne.
Quali sono i requisiti?
«Al di delle qualità scientifiche e di una gran passione, serve la capacità di lavorare in equipe, essere pazienti, meticolosi, precisi. Qualità più comuni nelle donne che negli uomini. Ho lavorato spesso con le donne, abbiamo formato squadre eccezionali».
Si può fare la rete?
«Assolutamente sì. Più con le donne che con gli uomini. Soprattutto in matematica, che ha una componente ludica molto forte, e gli uomini tendono ad essere troppo giocherelloni».
Ma le donne non devono fare i conti con il fattore ansia?
«La mia generazione era forse un po’ meno ansiosa perché c’erano più posti. Queste povere creature che si laureano adesso hanno davanti una prospettiva lavorativa davvero drammatica. In università ci sono pochissimi concorsi per i giovani, non c’è ricambio generazionale. Un professore non può crearsi una squadra intorno, non può dare un posto alle persone meritevoli, che ha visto crescere, e deve necessariamente, per il loro bene, consigliare di andare all’estero. In questo momento la situazione è drammatica sia per gli uomini sia per le donne. E’ un gap generazionale più che di genere. Se vogliamo risollevare le sorti di questo nostro meraviglioso Paese bisogna creare posti per i giovani».
Perchè studiare matematica è una buona scelta?
«La matematica è una meraviglia estetica e dà grandi soddisfazioni. Credo ci siano poche cose al mondo belle come dimostrare un teorema (ride). C’è una componente filosofica, estetica, artistica nella matematica. Quando tutto quadra in una dimostrazione, scatta qualcosa di speciale come in un quadro d’artista. La matematica non è un mestiere facile, dà anche parecchia angoscia come avviene per tutte le creazioni, che sia il quadro di un pittore, il libro di uno scrittore o la dimostrazione di un matematico».
Le quote in matematica servono?
«Abbiamo introdotto le quote in Istituto: quando facciamo le elezioni per le cariche interne, c’è un bonus per la parità di genere. In questo ambito le quote servono moltissimo perché le donne sono invogliate a fare domanda. Sono però convinta che andranno tolte quando si sarà ottenuto il disgelo, quando le donne si faranno definitivamente coraggio e parteciperanno».
Un percorso analogo non potrebbe venire applicato nelle università, ad esempio istituendo delle quote nei concorsi per le cattedre?
«No. Onestamente, quando si parla di concorsi penso che le quote non ci debbano essere. Negli Stati Uniti le hanno introdotte e questo, in effetti, ha sortito l’effetto che ad Harvard finalmente hanno promosso qualche donna al ruolo di professore ordinario. Ricordo che quando ci andai trent’anni fa non c’era neppure l’ombra di una donna in cattedra nelle facoltà scientifiche. In linea generale, però, ho delle perplessità, perché nei concorsi deve vincere il più bravo». O la più brava.
Fonte: Corriere della Sera