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Il tema del Carnevale della Matematica di gennaio 2018 è “Io e la matematica”. Leggiamo cosa ci racconta a questo proposito Barbara Fantechi.

“Ho cominciato a disegnare da bambina, e poi non ho smesso” dice di sé una famosa graphic artist, l’americana Alison Bechdel. Parafrasando, potrei dire “Ho iniziato a giocare con la matematica da bambina, e non ho più smesso”.

Fra i miei ricordi più vecchi c’è il prodotto cartesiano di insiemi, spiegato sul sussidiario di seconda elementare col guardaroba di un bambino che comprende quattro magliette (bianca, gialla, rosa e rossa) e tre paia di pantaloni (neri, blu e marroni); il prodotto è l’insieme dei modi in cui può vestirsi. Il fatto che non si prestasse attenzione a quali colori stanno bene insieme, cosa che mia madre ha tentato invano di inculcarmi, mi fece per la prima volta sospettare che c’era gente che vedeva il mondo come me.

Sempre delle elementari ricordo il fascino degli argomenti che sono stati in seguito tolti dai programmi: i numeri in basi diverse dal 10, la misurazione dell’angolo in radianti, i numeri fissi dei poligoni regolari ovvero la trigonometria per bambini, e il mio preferito, la prova del nove. All’insegnante – non più giovane – davamo del lei e la chiamavamo Signorina Maestra, ma era impossibile non sentire la sua competenza, il suo entusiasmo, e il suo amore per tutti noi oltre che per quello che ci insegnava.

Ricordo anche le lunghe corse in macchina, seduta accanto a mia madre ma impossibilitata a parlarle per il rumore del traffico (era sorda dall’orecchio destro) e come per distrarmi giocassi con le targhe, cercando relazioni fra i numeri che le componevano: 2436 era 2:4=3:6, 9126 era 9-1=2+6; più tardi ho riscoperto lo stesso gioco in televisione, dal Des chiffres et des lettres di TF2 al Paroliamo e contiamo di TMC.

Ho imparato presto a fare calcoli a memoria, uno zio insegnante delle medie mi ha insegnato criteri di divisibilità per 11 e per 7, ma il momento che ricordo di più è arrivato in seconda media quando ho dimostrato che c’erano infinite terne pitagoriche. No, non ho trovato la formula generale (quella, se volete, ve la racconto un’altra volta) ma ho solo osservato che 3,4,5 e 5,12,13 e 7, 24, 25 si ottenevano tutte nello stesso modo: si prende un numero dispari, e si scrive il suo quadrato (che pure è dispari) come somma di due numeri che differiscono di uno. 3×3=9=4+5, 5×5=25=12+13, 7×7=49=24+25. Le terne le avevo imparate facendo esercizi, e fu una soddisfazione quando in un problema comparve la successiva, 9, 40 e 41.

Non posso trascurare l’affettuosa attenzione con cui i miei insegnanti si sono presi cura di me; la mia insegnante di primo biennio di liceo mi regalò un libro da studiare oltre a quelli ufficiali, quello del triennio mi fece comprare i bellissimi testi di Giovanni Prodi “La matematica come scoperta”, e mi mandò a una gara in cui il premio (di consolazione) era lo splendido “Cos’è la matematica” di Courant e Robbins. Soprattutto, poco prima dei diciassette anni, nell’estate fra la quarta e la quinta liceo, fece in modo di farmi andare a Cortona, al corso di orientamento organizzato dalla Scuola Normale.

C’erano lezioni in tutti i campi dello scibile, spesso tenute da personaggi di spicco (a parlare di biologia e della propria vita c’era Rita Levi Montalcini, non ancora premio Nobel) e tanti nuovi amici provenienti da tutta Italia, divisi dagli accenti e dalle peculiarità grammaticali ma uniti da una curiosità per l’apprendimento per la quale non avevamo ancora il nome nerd. Più di tutto, c’erano giovani matematici dalle cui lezioni imparai soprattutto una cosa: che la matematica, lungi dall’essere stata tutta scoperta millenni prima, era un’emozionante avventura in divenire, e che chiunque, purché fornito di entusiasmo e buona volontà, poteva prendervi parte.

Tornai da quel corso sicura di cosa volevo fare nella vita; da allora la mia età si è triplicata, ma non ho cambiato idea. Anzi, se possibile, trovo la matematica ancora più bella di quanto mi sembrasse allora: l’unica cosa che non mi aspettavo è che studiarla non mi avrebbe solo portata ad avere un mestiere che era un’arte, ma anche a crearmi un villaggio di amici sparsi per il mondo, una seconda famiglia pronta ad aiutarmi fatta di genitori, nonni e zii, fratelli e sorelle e col tempo figli e nipoti, e infine anche il mio compagno di vita, con cui ho scritto quattro articoli e un capitolo di libro e tirato su tre figli nel senso più usuale del termine.

Chiudo con un ricordo del terzo anno di università: uno studente del primo mi chiese chiarimenti sulla moltiplicazione dei numeri complessi, e io gliela spiegai, con un misto di formule e disegni. Quando finalmente il procedimento fece clic nella sua testa, alzò la faccia dal foglio e sorrise: “Ma è una figata spaziale!”

Fu allora che capii che avrei potuto rivivere per tutta la vita la pura gioia di capire una cosa nuova in matematica non solo ampliando le mie conoscenze ma anche, soprattutto, condividendole. E ancora adesso, ogni anno, vedo la stessa gioia brillare negli occhi di chi siede dall’altro lato della cattedra: fra pochi giorni prenderò un aereo per portarla a un gruppo di persone dall’altro lato del mondo.

Sono una donna molto fortunata.

Barbara Fantechi

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