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Chi ha “scoperto” veramente l’America? Il Vecchio Mondo sapeva della sua esistenza già ai tempi di Tolomeo? Abbiamo intervistato  Lucio Russo, fisico, storico della scienza, titolare della cattedra di Calcolo delle Probabilità all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata in occasione dell’uscita del suo nuovo libro: “L’ America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo” (Milano, Mondadori, 2013).

[Dopo l’intervista… non andate via. Trovate infatti alcuni brani scelti dal libro]

Qual è la teoria riportata nel libro “L’America dimenticata” a proposito dei contatti tra le civiltà antiche e l’America?

La novità essenziale del libro consiste nella dimostrazione che le fonti di Tolomeo conoscevano, con buona approssimazione, le coordinate delle Piccole Antille. Il libro individua poi nei Cartaginesi la probabile fonte di queste informazioni ed espone plausibili scenari riguardanti la durata e la natura dei viaggi transoceanici, nonché le ragioni che hanno espunto queste conoscenze dalla tradizione geografica di età imperiale e medievale. Vorrei però sottolineare la diversa natura delle mie affermazioni. Mentre credo che sul primo punto si possa parlare di una “dimostrazione” (naturalmente non nel senso matematico del termine, ma nel senso in cui è normalmente usato in questioni storiche o filologiche), per il resto espongo solo scenari plausibili.

Riporto una curiosità di un lettore, commento a una recensione del libro di Pietro Greco sull’Unità: Perché, secondo lei, nonostante i lunghi contatti di cui si parla nel libro, nessuna delle culture americane adottò gli animali domestici eurasiatici (galline a parte), la ruota, o meglio il carro, l’uso dei metalli e in particolare il ferro?

Innanzitutto debbo dire che mi sembrerebbe lecito rispondere “non lo so”. Per dimostrare la realtà di un evento storico è sufficiente trovare una prova (o, ancora meglio, un certo numero di prove indipendenti) che esso sia avvenuto mentre non è necessario essere in grado di spiegare perché quell’evento non ha prodotto conseguenze che appaiono plausibili a eventuali critici.
Ciò detto, bisogna osservare che in America non solo si sviluppò la metallurgia, ma anche alcune tecniche particolari (come quella della “cera persa”) talmente simili a quelle usate nel Vecchio Mondo da costituire, secondo alcuni studiosi, prove indipendenti di antichi contatti culturali. Inoltre nel libro sacro dei Maya quiché, il Popol Vuh, si parla di ornamenti di metallo come importanti “status symbol” di uomini del passato.
Quanto alla ruota, come ricordo nel libro, le civiltà precolombiane la usavano per costruire modellini mobili: un altro forte indizio indipendente di contatti con civiltà che conoscevano il trasporto su ruote (si tratta di un caso tipico di ciò che nel libro chiamo una”nozione fossile”).
Resta il problema della mancata importazione di animali domestici di grossa taglia. Si può osservare che certamente è più facile compiere traversate oceaniche con galline che con bovini o ovini. Perché le culture americane adottassero ovini o bovini occorreva che: 1) qualche navigatore del Vecchio Mondo prendesse la strana decisione di togliere spazio ad altro carico o a viveri per l’equipaggio per imbarcare animali di grossa taglia e il foraggio necessario per il loro mantenimento durante tutta la traversata; 2) alcuni indigeni americani accettassero stranamente questi animali sconosciuti in cambio di altra merce; 3) questi stessi indigeni, pur non conoscendo tali animali, invece di usarli come cibo, decidessero di nutrirli per permetterne la riproduzione. Questa successione di eventi è certamente molto improbabile. Del resto sappiamo che l’allevamento dei polli si è propagato dall’Asia all’America attraverso il Pacifico, mentre nulla di simile è avvenuto per grossi mammiferi. Bisogna peraltro osservare che nel libro si ipotizza che i contatti possano essere continuati per secoli, ma non che siano stati frequenti né intensi.

Quali sono le altre ricerche a carattere storico che potrebbero portare supporto alle sue tesi? Per esempio vede qualche connessione con il libro di Elio Cadelo “Quando i Romani andavano in America”, uscito recentemente, in cui si parla di prove archeologiche e scientifiche che confermerebbero che i Romani abbiano attraversato l’oceano Atlantico raggiungendo l’America?

Esistono molti libri che hanno sostenuto l’esistenza di antichi contatti transoceanici. I più numerosi sono libri sensazionalistici privi di attendibilità. Ne cito due a titolo d’esempio:

Barry Fell, America B.C.: Ancient Settlers in the New World

Patrick Huyghe, Columbus Was Last: From 200,000 BC to 1492, A Heretical History of Who Was First.

Vi sono poi alcuni libri molto seri, che riportano i risultati di ricerche originali. Io ho trovato particolarmente utili i tre seguenti:

Carroll L. Riley, J. Charles Kelley, Campbell W. Pennington, Robert L. Rands (editors), Man across the Sea. Problems of Pre-Columbian Contacts, University of Texas Press, Austin-London 1971.

Victor H. Mair (editor), Contact and Exchange in the Ancient World, University of Hawaii Press, Honolulu 2006.

Terry L. Jones, Alice A. Storey, Elizabeth A. Matisoo-Smith, José Miguel Ramírez-Aliaga (editors), Polynesians in America, AltaMira Press, 2011.

Credo che il mio libro sia complementare ai precedenti, in quanto è basato su una prova quantitativa, del tutto diversa dagli elementi finora presi in considerazione.

Quanto al libro di Cadelo, si tratta di un contributo di carattere giornalistico, dedicato peraltro più alla navigazione nell’antichità che non al tema specifico dei contatti transatlantici. Vi sono riportati dati utili (io ne ho tratto un’interessante foto di una statuetta di epoca romana in cui è probabilmente raffigurato un ananas), ma anche idee molto personali. Ad esempio l’informazione che nell’antichità si conoscesse la forma sferica della Terra è presentata come una primizia in contrasto con la dottrina ufficialmente accettata dal mondo accademico.

Mi sembra di capire che le sue non sono congetture, ma vere e proprie dimostrazioni, il risultato di calcoli precisi partiti dall’errore di Tolomeo che era noto da tempo ma non è mai stato spiegato fino in fondo. E’ così?

Sì. Il principale argomento della dimostrazione può essere facilmente sintetizzato. Tolomeo, come alcuni suoi predecessori di epoca imperiale, identifica le “Isole Fortunate” con le Canarie, ma tale identificazione è evidentemente il frutto di un fraintendimento. Le “Isole Fortunate” (sulle quali esiste un’ampia letteratura che precede Tolomeo) non hanno infatti nulla delle Canarie: la loro latitudine media riportata da Tolomeo differisce da quella delle Canarie di 15° (quanto Napoli dista da località svedesi); inoltre sono allineate in direzione Nord-Sud (la loro longitudine, secondo Tolomeo, differisce al più di un grado), mentre le Canarie si sviluppano nella direzione Est-Ovest; anche le caratteristiche climatiche e ecologiche sono completamente diverse: le Isole Fortunate sono dette così perché favorite da un clima mitissimo e coperte da vegetazione lussureggiante, mentre le Canarie non hanno tali caratteristiche.

Poiché sappiamo che nei secoli che precedono Tolomeo vi era stata una grave perdita di conoscenze sull’Oceano Atlantico, la confusione tra isole di quell’oceano è del tutto plausibile. Sorge quindi il problema di identificare le originarie “Isole Fortunate” alle quali si riferivano le fonti di Tolomeo. Se, a parità di latitudine, ci si sposta verso ovest si trova un arcipelago con la stessa forma e la stessa estensione in latitudine e longitudine delle Isole Fortunate quali le trasmette Tolomeo e con le stesse caratteristiche climatiche ed ecologiche delle Isole Fortunate descritte dalle antiche fonti: le Piccole Antille. Supponiamo che le fonti di Tolomeo con il nome di Isole Fortunate intendessero riferirsi realmente alle Piccole Antille e che Tolomeo, accettando l’identificazione con le Canarie, comune ai suoi tempi, le avesse poste erroneamente alla longitudine delle Canarie. Poiché Tolomeo sa dalle sue fonti che le isole sono sul semimeridiano opposto a quello della capitale della Cina, si spiega allora sia la sua sistematica dilatazione delle differenze di longitudine sia, di conseguenza, la sua sottovalutazione delle dimensioni della Terra. Poiché in entrambi i casi la verifica può essere quantitativa e notevolmente accurata, mi sembra che vi possano essere pochi dubbi sulla validità della ricostruzione. Credo che si possa parlare di “dimostrazione”, anche perché due altre strade indipendenti, anch’esse quantitative, che qui ometto per brevità, convergono allo stesso risultato.

Secondo lei la sua teoria ha ancora aspetti controversi che potranno essere chiariti da ulteriori ricerche?

Io distinguerei nettamente due piani. Sul punto precedente (ossia sull’attribuzione alle Canarie di coordinate tratte da fonti che si riferivano alle Piccole Antille) sono ragionevolmente convinto di avere chiuso una questione. Naturalmente la possibilità di avere fatto un errore non può mai essere esclusa completamente. Perché mi convinca di avere sbagliato dovrei però ascoltare argomenti solidi. Finora non ne ho sentito nessuno.
L’identificazione delle originarie Isole Fortunate con le Piccole Antille, implicando rapporti tra paesi mediterranei e località dell’America centrale, solleva naturalmente un mare di questioni aperte, sulle quali nel libro ho solo cercato di abbozzare alcuni scenari di risposte possibili; sono convinto che la natura e la durata dei contatti e soprattutto la loro incidenza culturale siano tutte questioni aperte di enorme interesse.

Può parlarci meglio delle ricadute filosofiche delle sue ricostruzioni sull’evoluzione convergente delle società umane?

Molte civiltà hanno percorso un tragitto essenzialmente identico che da una cultura paleolitica di cacciatori-raccoglitori, attraverso l’introduzione dell’allevamento, dell’agricoltura, della ceramica, della tessitura e successivamente dell’architettura in pietra e della metallurgia, è approdato alla civiltà “storica”, caratterizzata da specializzazione del lavoro, città, scrittura e organizzazioni statali. Per capire la natura dell’uomo e della cultura è essenziale capire se lo stretto parallelismo di queste evoluzioni è dovuto ai contatti tra le civiltà o a una sorta di determinismo biologico, che costringe ogni società umana ad evolversi alla stessa maniera. L’archeologia degli ultimi decenni ha mostrato che nell’ambito del Vecchio Mondo tutte le civiltà che hanno condiviso l’evoluzione prima accennata erano tra loro in contatto, diretto o indiretto, da tempi antichissimi. Poiché alcune civiltà mesoamericane hanno seguito un percorso sostanzialmente simile, la questione dei contatti precolombiani è diventata cruciale per scegliere tra le due alternative precedenti. Se si crede che le Americhe siano rimaste in un sostanziale isolamento culturale sin da quando furono popolate da popolazioni di cacciatori-raccoglitori provenienti dall’Asia è inevitabile accettare il determinismo biologico. Credo che il mio risultato, pur essendo lontano dal dimostrare l’ipotesi opposta (per questo bisognerebbe dimostrare che vi siano stati contatti antichi e profondi) riapra la questione.

[intervista di Stefano Pisani]

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Brani scelti da L’America dimenticata (per gentile concessione dell’Autore):

 

Il problema di fondo

(pp. 40-41) Nella Mesoamerica, proprio come in Eurasia, sono apparsi allevamento e agricoltura, ceramica, tessitura e metallurgia, città, scrittura, sacerdoti e Stati, e, come vedremo, anche molti specifici prodotti culturali eguali fin nei dettagli a quelli elaborati nel Vecchio Mondo. Poiché nulla di tutto ciò poteva essere conosciuto dai cacciatori del paleolitico che, attraversando l’istmo che oggi è sostituito dallo stretto di Bering, avevano iniziato a popolare le Americhe, il Nuovo Mondo è stato usato come un gigantesco laboratorio in cui si dimostrerebbe la presenza di leggi universali che governano l’evoluzione di tutte le società umane in un’unica direzione. L’argomento è naturalmente basato sul presupposto (spesso assunto implicitamente come ovvio) che gli oceani abbiano costituito una barriera invalicabile, assicurando l’assoluto isolamento culturale del continente americano.

 

Qualche traccia di antichi contatti

(pp. 55-56, 58) il libro sacro detto Popol Vuh, che racconta la storia dell’origine del popolo Maya Quiché, contiene tracce di antiche relazioni con popolazioni sull’altro lato dell’Atlantico? La risposta dipende dall’interpretazione del testo. Riportiamone alcuni passi:

Vi furono molti sacerdoti e sacrificatori, non ve ne furono solo quattro, ma quei quattro furono i progenitori di tutti noi, popolo quiché. […] In Oriente si moltiplicarono. […] Vi erano in gran numero uomini neri e uomini bianchi, uomini di molte classi, di molte lingue, che destava meraviglia ascoltare. Non è chiaro però come essi passassero il mare: lo attraversarono e giunsero da questa parte, come se esso non fosse stato mare. […]

In questo modo avvenne la sparizione, la fine di Balam-Quitzé, Balam-Acab, Mahucutah e Iqui-Balam, i primi uomini che erano venuti dall’altra parte del mare, donde sorge il sole.

(pp. 60-61) Se veramente gli «uomini neri e uomini bianchi, uomini di molte classi, di molte lingue» […] dei quali il Popol Vuh conserva il ricordo come antichi progenitori dei Maya Quiché fossero venuti dall’altra parte del mare, e se inoltre questi lontani progenitori avessero dato un contributo genetico significativo alle popolazioni Maya, gli studiosi di genetica delle popolazioni dovrebbero essere in grado di verificarlo. In effetti le analisi effettuate sul genoma delle popolazioni native americane non mostrano alcun contributo proveniente da popolazioni non americane, tranne una sola eccezione: i Maya, al cui corredo genetico hanno contribuito significativamente antenati «toscani» e Bantu.

[…] Poiché si è sempre ritenuto che la sifilide sia stata importata in Europa dall’America dopo il 1492, si può immaginare che se nell’antichità vi fossero stati contatti non sporadici anche allora si sarebbe dovuta avere la stessa spiacevole conseguenza. La scoperta di numerosi casi di sifilide in epoca romana può quindi sembrare una conferma di contatti precolombiani, […]

(p. 63) In definitiva molti dati di natura biologica sono coerenti con l’ipotesi di antichi contatti tra Vecchio e Nuovo Mondo e sembrano avvalorarla in modo significativo, ma nessuno ne ha fornito una dimostrazione accettata come tale dalla comunità scientifica.

(pp. 65-66) Il caso della terracotta romana trovata nel 1933 in Messico in una sepoltura precolombiana, che varie testimonianze affidabili hanno certificato intatta fino al ritrovamento, è forse l’unico che non sembra poter lasciare alcun dubbio. Ciononostante anche questo ritrovamento non è logicamente incompatibile con l’assenza di contatti. Si può sempre sostenere infatti, come è stato fatto, che l’oggetto potrebbe essere stato trovato sul relitto di una nave i cui occupanti fossero tutti morti prima di toccare le sponde americane. Pur di scongiurare l’eventualità di un contatto transatlantico, si è anche suggerito che la terracotta potrebbe aver raggiunto il Messico attraversando tutta l’Asia e l’Oceano Pacifico

 

Il collasso culturale del II secolo a.C.

(p. 75) A metà del II secolo a.C. il mondo mediterraneo visse una catastrofe, culminata nel biennio 146-145, che, interrompendo bruscamente uno straordinario sviluppo plurisecolare, provocò una gravissima perdita di conoscenze e soprattutto di strumenti intellettuali. […]

(p. 88) La testimonianza forse più agghiacciante su cosa accadde ad Alessandria riguarda la sua istituzione culturale più famosa: la celeberrima Biblioteca. […] All’epoca della crisi era guidata da uno dei principali filologi dell’antichità: Aristarco di Samotracia. Un papiro proveniente da Ossirinco, che riporta l’elenco dei capi della famosa istituzione, ci informa che quando, nel 145 a.C., questi, con tutti gli altri intellettuali, fu costretto ad abbandonare Alessandria, alla direzione della Biblioteca fu chiamato a succedergli un  […] ufficiale dei lancieri.

(p. 94) La sfera cristallina delle stelle fisse aveva perso la sua utilità quando si era capito che il moto diurno rigido delle costellazioni è un’illusione dovuta alla rotazione terrestre ed era stata perciò abolita già da Eraclide Pontico nel IV secolo a.C., lasciando in sua vece una superficie sferica teorica, utilizzata come modello matematico per localizzare le stelle. Dopo il collasso culturale, la sfera delle stelle fisse riacquistò tutta la sua pesante corporeità, nella quale crederà ancora Keplero nel XVII secolo.

(pp. 95-96) […] molti filosofi vissuti dopo il collasso culturale si dicono stoici, cioè seguaci di una delle principali correnti filosofiche ellenistiche, della quale Crisippo era stato il massimo esponente. Per cogliere la distanza tra la corrente originaria e gli epigoni che si fregiano dello stesso nome basta però leggere questo passo del principale rappresentante dello stoicismo di epoca imperiale, Epitteto:

Ma io, che cosa voglio? Conoscere la natura delle cose e seguirla. Per questo cerco un interprete che possa spiegarmela; e quando ho appreso che Crisippo è in grado di farlo, ricorro a lui. Ma non capisco le cose che ha scritto; allora cerco un interprete.

Capire Crisippo era diventato altrettanto difficile che svelare la natura delle cose. […]

Il crollo fu ben più devastante di quanto può apparire dagli esempi fatti fin qui. Agli intellettuali latini che un paio di secoli più tardi cercarono di occuparsi di scienza non mancavano solo i metodi che avevano permesso di ottenere risultati raffinati, ma anche gli strumenti concettuali di base indispensabili per capire il significato dei risultati più elementari. È quindi inevitabile la nascita di gravi equivoci. Quando per esempio Plinio descrive popolazioni i cui piedi avrebbero anteriormente il calcagno e posteriormente le dita, è chiaro che espone un’idea generata da un grossolano fraintendimento del concetto di «antipodi».

(p. 98) La perdita delle conoscenze [geografiche] non riguardò solo le metodologie scientifiche della geografia matematica e della cartografia, ma anche informazioni qualitative su paesi e popoli, che spesso risalivano a epoche molto antiche. Il mondo mediterraneo si chiuse su se stesso e furono in larga misura dimenticate le conoscenze sulle regioni del mondo non incorporate nel dominio di Roma. Spesso scomparve, o sfumò nel leggendario, anche il ricordo dei viaggi del passato, che apparvero incredibili a chi non era più in grado di ripeterli. […]

 

L’errore di Tolomeo

(p. 151) Nel settore della geografia uno degli effetti più appariscenti della cesura culturale che separa Tolomeo dagli studiosi ellenistici è il rimpicciolimento della Terra. Tolomeo non attribuisce alla circonferenza terrestre i 252.000 stadi di lunghezza che Eratostene aveva misurato e Ipparco accettato, ma solo 180.000. Questa contrazione compensa la sua sistematica dilatazione delle differenze di longitudine, cosicché le distanze lungo i paralleli per Tolomeo sono le stesse delle sue fonti ellenistiche. È quindi evidente che dilatazione delle longitudini e contrazione delle dimensioni della Terra sono due aspetti di un unico errore. […]

Il principale risultato (per dare un’idea degli argomenti con cui è stato ottenuto se ne riporta il breve riepilogo finale)

(pp. 209-211) Credo che si debba considerare certa l’affermazione seguente.

(A) Nelle fonti di Tolomeo con il nome di Isole Fortunate si intendevano le Piccole Antille, mentre successivamente (in particolare da parte di Tolomeo stesso) queste isole erano state erroneamente identificate con le Canarie.

Poiché il metodo con cui il risultato (A) è stato ottenuto è insolito in storiografia, vale la pena riepilogare le ragioni che lo rendono in pratica certo. Da (A), che è coerente con le nostre conoscenze storiche e in particolare con il crollo delle conoscenze geografiche relative all’Oceano Atlantico verificatosi dopo la distruzione di Cartagine, discendono come conseguenze questi fatti documentati:

1. Tolomeo attribuisce alle Canarie le latitudini delle Piccole Antille, commettendo un errore enorme: in media circa 15°.

2. Tolomeo assegna all’arcipelago delle Canarie (che si estende soprattutto in direzione est-ovest) l’ampiezza di un solo grado di longitudine e 5,5° di latitudine, cioè con buona approssimazione le dimensioni delle Piccole Antille.

3. Poiché le sue fonti collocavano le Isole Fortunate sul semimeridiano opposto a quello delle località asiatiche più orientali di cui si aveva notizia, l’errata identificazione delle isole porta Tolomeo a dilatare l’ampiezza in longitudine dell’Eurasia, e di conseguenza tutte le differenze di longitudine, di un fattore vicino a 1,4.

4. Dal punto precedente e dalle distanze note lungo i paralleli Tolomeo deduce la misura della Terra di 500 stadi per grado di cerchio massimo, invece di quella di 700 stadi per grado che era stata determinata da Eratostene (e che, con metodi statistici, abbiamo dimostrato avere un errore non superiore a circa il 2%).

5. Tolomeo, contando le longitudini a partire dal meridiano passante per le Isole Fortunate, è indotto dall’errata identificazione delle isole a sbagliare la longitudine di Tule, che nella sua fonte era la longitudine dell’intersezione del circolo polare con la costa orientale della Groenlandia.

6. Ipparco [che è con ogni probabilità la fonte da cui Tolomeo trae le coordinate delle Isole Fortunate], estendendo la larghezza del mondo conosciuto per includervi le Piccole Antille, aveva aggiunto 26.000 stadi, lungo il parallelo di Atene, alla larghezza dell’ecumene calcolata da Eratostene, come in effetti afferma Plinio in un passo risultato finora incomprensibile (nel quale confonde la misura dell’ampiezza dell’ecumene con quella della circonferenza massima della Terra).

Per nessuno dei sei punti precedenti era stata proposta alcuna plausibile spiegazione e in ciascuno di questi casi la verifica ha potuto essere quantitativa e notevolmente accurata. La probabilità che ciò sia accaduto per caso in tutti e sei i punti precedenti è del tutto trascurabile.

Inoltre (A) permette di spiegare:

7. perché Tolomeo (come è chiaro dalla cartina a p. 185) abbia dovuto ritrarre verso oriente le coste occidentali dell’Africa;

8. perché Tolomeo (come è chiaro dalla stessa cartina) sia stato costretto a dilatare verso est l’estensione della Scozia e conseguentemente anche quella dello Jutland;

9. le testimonianze di Orosio, Procopio e altri su Tule (riportate a pp. 176-177), che finora erano risultate incomprensibili o giudicate fantasiose.

La forza dei punti precedenti è tale che per la certezza dell’affermazione (A) non sarebbero necessarie né l’ulteriore conferma data dalla testimonianza di Simeone Seth, che conserva le affermazioni fraintese da Tolomeo, né le descrizioni pervenuteci delle Isole Fortunate, che sono così coerenti con l’identificazione ottenuta da aver fatto proporre sulla loro sola base l’ipotesi che potesse trattarsi di isole dei Caraibi

 

Per concludere…

(pp. 218-219) La dimostrazione degli antichi contatti transoceanici è interessante soprattutto perché elimina il principale pilastro a fondamento della teoria dello sviluppo parallelo di tutte le civiltà attraverso le stesse fasi. Se la storia umana consistesse in una serie di evoluzioni parallele, progressive e lineari, rette da leggi definite, allora tutte le culture sarebbero ordinabili secondo una scala universale, ottenuta trasferendo in impliciti giudizi di valore un dato virtualmente cronologico (un po’ come si fa parlando di «età mentale» dei ragazzi). Accettando questa tesi sarebbe naturale considerare «primitive» le culture diverse dalla nostra (con inconfessati, ma probabilmente inevitabili, impliciti giudizi razzisti sulle etnie «ritardatarie»).

Diviene invece ora concepibile, anche se certamente tutt’altro che dimostrato, che la storia umana, proprio come l’evoluzione biologica, sia il risultato di una serie di eventi impredicibili e largamente casuali, che hanno disegnato particolari percorsi tra i tanti possibili, uno dei quali ha portato alla forma di civiltà alla quale siamo abituati, oggi egemone a livello planetario. […]

Il venir meno di un supposto unico percorso prestabilito di evoluzione ridarebbe alla storia passata tutta la sua complessità e all’umanità attuale l’enorme responsabilità di scegliere liberamente gli sviluppi futuri.

 

***

Update Il 28 maggio 2014, Lucio Russo incontrerà il pubblico nell’ambito della presentazione de L’America dimenticata. Il rapporto tra le civiltà e un errore di Tolomeo. Seconda edizione con postfazione di obiezioni e risposte” (Milano, Mondadori 2014). Appuntamento alle 19:00 presso la Biblioteca Villa Leopardi, via Makallé (entrata nel Parco), 00199 Roma.

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