La sensazione di colore è frutto di una lunga evoluzione e la sua modellizzazione matematica, completa o parziale, rimane ancora un problema aperto. Edoardo Provenzi, professore all’Université de Bordeaux, ci guida in un sorprendente percorso, lungo più di tre secoli, ricostruendo le tappe fondamentali dello studio matematico del colore, terminando con un racconto del suo particolare cammino scientifico. La prima puntata la trovate a questo link.
Nell’articolo precedente abbiamo visto quanta importanza abbia la percezione del colore per gli esseri umani e quanto, accompagnandoci in ogni istante, la diamo per scontata. Ora cominciamo ad esaminare, attraverso una selezione di scienziati e di scoperte, a che punto siamo arrivati nella comprensione della sensazione di colore.
Newton: “il gigante”
Isaac Newton, 1643-1727, fisico, matematico e astronomo inglese, universalmente noto per i suoi straordinari lavori sul calcolo differenziale, la meccanica e la gravitazione, può anche essere considerato il primo “geometra del colore”. Per capire cosa vuole dire questa frase, occorre prima di tutto discutere il ben noto esperimento del 1666 nel quale Newton decompose con un prisma la luce solare nei suoi costituenti irriducibili, chiamati “colori spettrali”. Oggi, molti conoscono questo esperimento grazie alla splendida copertina dell’altrettanto splendido disco del 1973 “The dark side of the moon” dei Pink Floyd, riportata nell’immagine seguente.
I colori spettrali sono definiti irriducibili perché non sono ulteriormente decomponibili: passando attraverso un altro prisma vengono rifratti, ma non mostrano ulteriori sottostrutture cromatiche. Newton osservò che i colori spettrali hanno la proprietà di essere percepiti come colori “puri”, ovvero non attenuati nella loro “cromaticità” o “saturazione”. Il concetto di saturazione è molto elusivo e solo recentemente si è arrivati ad una definizione matematica rigorosa, ma per intuirlo è sufficiente pensare alla coppia di colori data da un rosso vivo e da un rosa pallido: la saturazione del primo è alta e quella del secondo è bassa.
L’evidenza empirica mostra che i colori spettrali sono percepiti con la saturazione massima possibile, nessun altro colore è percepito più puro, o più saturo, di loro. Newton, a partire da queste osservazioni sui colori spettrali, decise di organizzare geometricamente i colori come mostrato dalla figura che segue, chiamata “disco dei colori di Newton”.
Nel centro del disco, indicato con O, Newton posizionò i “colori acromatici”, quelli che oggi chiamiamo i livelli di grigio, dal nero al bianco passando per tutte le possibili gradazioni di grigio intermedie. Sul bordo esterno del disco invece dispose i colori spettrali, parametrizzando la loro tinta con la coordinata angolare. Infine, rappresentò la saturazione come la distanza dal centro O: più grande è questa distanza, più alta è la saturazione. Risulta quindi ovvio che i colori spettrali, in questa rappresentazione, sono i più saturati e che le gradazioni di grigio hanno una saturazione nulla. Da questa rappresentazione deriva la ben nota descrizione della saturazione di un colore come la sua “distanza dal bianco” o la “quantità di bianco che lo caratterizza”. Purtroppo, questo tipo di definizioni estremamente vaghe e matematicamente mal definite popola tutt’oggi un certo tipo di letteratura sul colore.
Maxwell: “l’uomo che ha cambiato tutto”
James Clerk Maxwell, 1831-1879, sublime fisico-matematico scozzese, è il genio che ha unificato elettrodinamica e magnetismo e che, senza timore di utilizzare iperboli, ha cambiato per sempre la storia scientifica, tecnologica e quindi anche sociale del genere umano. Maxwell ha vissuto solo 48 anni, ma ha fatto in tempo a regalarci, tra le altre cose, l’elegantissima e oltremodo importante teoria dell’elettromagnetismo, la teoria cinetica dei gas e la spiegazione della stabilità degli anelli di Saturno, trovando anche il tempo per occuparsi…di colore! Lo fece soprattutto in quelli che sono conosciuti come “gli anni di Cambridge”, dal 1850 al 1856.
Già dai primi anni del 1800 era nota la possibilità di riprodurre moltissimi colori attraverso la combinazione di sole tre luci colorate, ottenute con dei filtri ottici. Maxwell, durante delle dimostrazioni pubbliche molto in voga in quegli anni, riprodusse questo fenomeno non con luci, ma attraverso una costruzione “meccanica”, con quella che oggi chiamiamo la “ruota di Maxwell”, rappresentata nella figura qui sotto.
Oggi sappiamo che il funzionamento della ruota di Maxwell è spiegato dal fatto che la trasmissione dell’informazione di colore non è passata istantaneamente dalla retina al cervello, quindi, se la ruota gira in modo sufficientemente rapido, l’informazione proveniente dei tre colori della ruota viene fusa e interpretata come un colore ben definito. A seconda delle dimensioni relative tra le componenti di rosso, verde e blu si percepiranno colori differenti.
Usando la sovrapposizione di tre filtri colorati, nel 1857 Maxwell realizzò la prima fotografia a colori della storia e, da buon scozzese, decise di usare il “tartan ribbon” rappresentato qui sotto come soggetto per la sua fotografia.
Come detto sopra, la più importante teoria sviluppata da Maxwell è quella dell’elettromagnetismo, pubblicata nel 1861, quando aveva solo 30 anni. Da questa teoria discende che la luce è una particolare “onda elettromagnetica”, ovvero un segnale oscillante composto da un campo elettrico e da uno magnetico, concatenati perpendicolarmente tra loro, capace di propagarsi anche nel vuoto alla più grande velocità conosciuta in natura…la velocità della luce: quasi 300000km/s.
A seconda della rapidità d’oscillazione, le onde elettromagnetiche possono identificarsi, in ordine crescente, come onde radio, microonde, raggi infrarossi, luce, raggi ultravioletti, raggi X e raggi gamma. L’intervallo di oscillazioni che corrisponde alla luce si chiama spettro visibile ed è una frazione minuscola di tutte le lunghezze d’onda (lo spazio che intercorre tra due picchi successivi dell’onda): infatti, il sistema visivo umano è capace di percepire come luce solo le radiazioni elettromagnetiche composte da onde che oscillano con una lunghezza d’onda tra i 380 e i 780 nm, dove nm significa nanometro, ovvero un miliardesimo di metro.
Grazie alla teoria dell’elettromagnetismo di Maxwell, i misteriosi colori spettrali che fuoriescono dal prisma di Newton sono spiegabili in modo molto semplice: la luce del sole è composta da una sovrapposizione di onde elettromagnetiche che vibrano con lunghezze d’onda variabili, ognuna delle quali, se vista in assenza delle altre, è percepita come un colore spettrale. Il colore rosso spettrale corrisponde alla lunghezza d’onda più lunga (ovvero alla frequenza di oscillazione più lenta), mentre il colore violetto spettrale corrisponde alla lunghezza d’onda più corta (ovvero alla frequenza di oscillazione più rapida), come schematizzato nella figura qui sotto.
Il prisma di Newton, attraverso la rifrazione, permette di scindere le varie componenti della luce e di esibirle separatamente. Vediamo qui un esempio eclatante di come una teoria fisico-matematica astratta e complicata come quella di Maxwell, basata sull’interazione di quattro equazioni differenziali alle derivate parziali, interviene nella spiegazione di un fenomeno solo apparentemente lontanissimo come quello dell’esistenza dei colori spettrali.
Questa trionfale interazione tra matematica astratta e spiegazione di fenomeni naturali è un paradigma ricorrente, tanto che il grande fisico-matematico Eugene Wigner, nel 1960, pubblicò un affascinante saggio intitolato “l’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali”.
Edoardo Provenzi
#Fine seconda parte
Cara Rosanna,
c’è un’interessante branca dello studio sulla visione chiamato in inglese “color naming”, nella quale si mostra che le catalogazioni dei colori percepiti sono innate negli esseri umani e che, a seconda delle condizioni ambientali in cui si vive, si dà più importanza a certi colori piuttosto che ad altri. Per esempio, è ben noto che i lapponi utilizzano moltissimi nomi per distinguere tinte di grigio, il ché è dovuto alle varie gradazioni di colore acromatico che sono sempre stati abituati a vedere a causa della neve. Lo stesso avviene per gli abitanti dell’amazzonia con le gradazioni di verde.
Insomma, è un tema davvero affascinante, che mescola biologia, sociologia, percezione e chissà quante altre discipline. Ma qui mi fermo perché non sono uno specialista di nessuna di queste 🙂
Edoardo.
Grazie infinite. Approfondiro’ quest’aspetto. Attendo la prosecuzione degli articoli……in modo che la curiosità sia sempre viva.
La teoria corpuscolare (luce costituita da particelle) di Newton, come mostrato con il prisma, già era contrapposta a quella di Huygens, che invece affermava che la luce fosse costituita da onde (teoria odulatoria). Dopo lo studio sull’interferenza della luce di Thomas Young, gli studi di Maxwell confermarono l’aspetto ondulatorio della luce, lo studio sull’effetto fotoelettrico di Einstein, confermò entrambi gli aspetti della luce: ondulatorio e corpuscolare.
Con gli studi di questi Giganti della fisica siamo in grado di dare risposte convalidate da studi e ricerche.
La curiosità è invece relativa alla percezione del colore da parte di chi non possedeva, più di 2000 anni fa, queste conoscenze.
Percepivano i colori?
Sono stati in grado di catalogarli in rosso, verde….? I colori della natura sono stati sempre presenti.
Come hanno spiegato la presenza dei colori in natura?
Forse il colore e le sue catalogazioni sono percezioni innate nell’uomo, come il concetto di numero?
Grazie.
Scusate se mi sono dilungata.