In occasione del convegno “Infinite Wallace / Wallace infini” tenutosi a Parigi nel 2014, il sito Images des Mathématiques ha chiesto a Roberto Natalini, che tra le altre cose è co-coordinatore, con Andrea Firrincieli, del sito Archivio DFW Italia, di scrivere un breve articolo sulle connessioni tra David Foster Wallace e la matematica. Pubblichiamo di seguito il testo in italiano (il testo in francese, nella traduzione di Maurice Darmon, lo potete trovare qui).
Roma, 12 settembre 2014
Le derivate sono solo trigonometria con un po’ di immaginazione
(David Foster Wallace, Infinite Jest)
David Foster Wallace è considerato uno dei migliori scrittori americani degli ultimi trent’anni, eppure di lui in Francia si parla ancora molto poco. Certo, è difficile apprezzarlo non avendo letto il suo principale romanzo, Infinite Jest, pubblicato negli USA nel 1996, che TIME ha inserito nella lista dei 100 migliori romanzi in lingua inglese degli ultimi 80 anni e che solo nel 2015 è stato tradotto in francese dalle éditions de l’Olivier (in Italia è stato tradotto nel 2000, in Germania nel 2009). Un romanzo sicuramente difficile da tradurre (1079 pagine, con ben 388 note finali), ma forse non altrettanto difficile da leggere, visto che in tutti i paesi in cui è stato pubblicato è stato accolto da un grande successo di critica e di pubblico. Tuttavia, qualcosa anche in Francia sta cambiando, e proprio in previsione dell’imminente (e più volte annunciata) traduzione, si è aperto l’11 settembre 2014, a Parigi, un grande convegno internazionale su questo autore “Infinite Wallace / Wallace infini”. Prima di andare avanti, i lettori di Images des Mathématiques vorranno però cercare di trovare risposta a due domande che a questo punto si staranno facendo strada: a) perché ce ne stiamo occupando su questo sito b) perché questo articolo non è apparso ieri. Alla prima rispondo subito, mentre la risposta alla seconda si capirà verso la fine dell’articolo.
Wallace ha dedicato un lungo saggio, “Everything & More” (W. W. Norton & Company, 2003)i all’infinito secondo Cantor, un saggio in cui si interessa tra l’altro alla soluzione matematica dei paradossi di Zenone sul movimento: voglio attraversare una strada, ma dopo aver percorso metà del tragitto, per arrivare dall’altra parte devo ancora arrivare alla metà del tragitto rimanente, ossia aggiungere un quarto, e poi alla metà della metà, ossia un ottavo, e poi metà della metà della metà, etc… Ossia devo attraversare un numero infinito di sottointervalli di ampiezza ogni volta dimezzata rispetto al precedente, che è una cosa che per Zenone era impossibile, perché pensava che non potessimo compiere un numero infinito di azioni in tempo finito. I matematici del XIX secolo risolsero questo paradosso, chiarendo da una parte la natura profonda dei numeri reali, e al tempo stesso definendo, con Cauchy e Weierstrass, in modo rigoroso e definitivo, la nozione di convergenza di una serie, in questo caso la serie geometrica. L’analisi di Wallace si sofferma sull’esistenza di due idee diverse di infinito: quello circolare e paradossale di Zenone, legato all’Ápeiron (=indeterminato) dei greci, che si avvita sui suoi stessi paradossi senza arrivare ad una conclusione; e l’infinito matematico cantoriano, che permette di usare senza problemi e in modo costruttivo l’idea di infinito.
Wallace è insomma uno scrittore per cui la matematica è importante. Avendo studiato logica modale all’università, nel saggio/racconto fintamente autobiografico, “Derivative Sport in Tornado Alleyii”, Wallace dichiara: “Quando lasciai il mio distretto squadrato in mezzo alla campagna dell’Illinois per andare a frequentare l’università dove si era laureato mio padre fra i vivaci rilievi delle Berkshires nel Massachusetts occidentale, sviluppai un’improvvisa fissazione per la matematica”. E una decina di anni prima del saggio su Cantor, Wallace aveva già affrontato, da narratore, l’idea di infinito, proprio nel suo capolavoro Infinite Jestiii (=lo scherzo infinito), che in questa sede rinunciamo a riassumere in modo credibileiv, in cui incontriamo delle situazioni narrative che corrispondono ai due infiniti di cui si è parlato sopra. Da una parte abbiamo la ripetizione infinita, a loop, il ripresentarsi continuo di gabbie in cui l’apparente porta di uscita conduce solo ad altre gabbie, il muoversi in modo circolare lungo curve chiuse: la dipendenza dalla droga e dall’alcool (i continui cicli di disintossicazione e di ricaduta), il sesso come esperienza vuota e straniante (uno dei personaggi maschili ha l’abitudine dopo il coito, che a lui non provoca nessun piacere, di tracciare compulsivamente con il dito il simbolo dell’infinito sul fianco nudo della ragazza con cui è appena stato), la ripetizione ossessiva della pratica sportiva nell’accademia di tennis, l’intrattenimento pervasivo e mai soddisfacente (il film che dà il titolo al romanzo, vedi nota iv, viene visto dalle vittime in un susseguirsi di cicli ricorsivi), la circolarità del sistema di produzione energetica onanita (sic!), basato sull’idea finzionale di “fusione anulare”, ossia un sistema che “produce rifiuti che alimentano un processo i cui rifiuti alimentano la fusione stessa”. E osserviamo che l’idea di questa fusione era venuta molti anni prima al giovane James O. Incandenza, osservando un pomello ruotare intorno all’asse formato dal suo perno, in una doppia rotazione formante una cicloide sferica. L’idea dei doppi cerchi rotanti viene poi ripresa nel progetto degli edifici dell’accademia di tennis da lui fondata, disegnati a creare la forma di una cardioide.
Wallace sembra però suggerire che questa circolarità autoreferenziale, che ingabbia la quasi totalità dei personaggi del romanzo, potrebbe avere una via di fuga, un rovesciamento radicale che corrisponde in qualche modo all’idea cantoriana di infinito, un infinito su cui costruire un’espansione verso l’esterno. Wallace cerca con il suo romanzo di superare, e farci superare, l’isolamento solipsistico che ci imprigiona. In uno dei passaggi del romanzo, uno dei capi istruttori dell’accademia di tennis, riflette a un certo punto sulla struttura del gioco: “ogni palla colpita bene ammette $$n$$ possibili risposte, $$n^2$$ risposte possibili a queste risposte, (…) come un continuo cantoriano di infinità di possibili mosse e risposte, cantoriano e bello perché stratificato, contenuto, questa infinità bigenerata di infinità di scelta ed esecuzione, matematicamente incontrollata, ma umanamente contenuta, delimitata dal talento e dall’immaginazione di se stessi e dell’avversario, ripiegata su se stessa dalle frontiere date dall’abilità e dall’immaginazione che alla fine fanno perdere uno dei giocatori, e impediscono a entrambi di vincere, che creano, alla fine, un gioco, queste frontiere del sé.”
È in questo universo espansivo, fatto di parabole e di iperboli, in un’opera che secondo il suo autore aveva la forma frattale, delimitata, ma infinita, di un triangolo di Sierpinski, che si trova forse la speranza di una fuga. Trasposto in una riflessione sulla scrittura, l’avversario siamo noi, i lettori, che reagiamo e interagiamo con il testo che ci viene proposto, che è calcolato dall’autore proprio per rispondere alle nostre reazioni. Da questa dialettica infinita, ma convergente, come può esserlo una serie, dalle frontiere tra autore e lettore, nasce il gioco, ossia il romanzo vissuto, che accade in ognuno di noi, in cui è possibile invertire le nostre posizioni, far entrare in contatto la nostra mente con quella dell’autore.
Finora ho cercato di rimandare il momento in cui lo avrei detto: David Foster Wallace si è tolto la vita a soli 46 anni, il 12 settembre del 2008, ed ecco il motivo per cui ne parlo oggi, 12 settembre 2014. Soffriva fin da giovane di depressione, e la “Cosa Brutta”, come la chiamava lui, ad un certo punto ha avuto la meglio. Certamente la sua passione per la matematica non è, non può essere, un motivo sufficiente per leggere le sue opere. Le leggiamo piuttosto per i suoi punti di vista spesso curiosamente alieni, i suoi reportage avvincenti su soggetti di per sé non necessariamente interessanti (una crociera di lusso, una fiera nel Midwest, la televisione e la narrativa contemporanea, il tennis -tra cui un famoso articolo su Federer come esperienza religiosa-, il festival del cinema porno, l’uso della grammatica inglese, Kafka, le elezioni americane del 2000), e soprattutto per romanzi e racconti di una bellezza sorprendente, per le idee, il linguaggio e l’immaginazione che possiamo trovarvi. Stupisce quel senso di intimità che coglie la maggior parte dei suoi lettori, un’intimità che si è tramutata in uno straordinario lutto collettivo al momento della sua morte. Leggendo Wallace sentiamo una voce nella nostra testa che parla, come se fosse un secondo ‘io’ più intelligente e linguisticamente onnisciente, che con noi costruisce un dialogo intenso e pieno di significato. E forse è proprio in quel momento che il gioco cantoriano di scambi e risposte di Wallace trova veramente il suo senso più profondo. David Foster Wallace (1962-2008) R.I.P.
di Roberto Natalini
Riferimenti bibliografici
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Stephen Burn. David Foster Wallace’s Infinite Jest: A Reader’s Guide, Second Edition. New York, London: Continuum, 2012.
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D. T. Max, Every Love Story is a Ghost Story: A Life of David Foster Wallace. New York: Viking, 2012.
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Roberto Natalini, “David Foster Wallace and the Mathematics of Infinity”, in “A Companion to David Foster Wallace Studies” Marshall Boswell and Stephen Burn eds., Palgrave Macmillan, 2013 (American Literature Readings in the Twenty-First Century).
Note
i “Tout et plus encore”, tradotto in francese da Thomas Chaumont, éd. Ollendorff & Desseins (2011)
ii Apparso in francese con il titolo “Revers et dérivées à Tornado Alley” nella raccolta: “Un truc soi-disant super auquel on ne me reprendra pas”, traduit par Julie et Jean-René Étienne, éd. Au Diable Vauvert (2005)
iii Titolo ispirato all’Amleto: “Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio: a fellow of infinite jest, of most excellent fancy: he hath borne me on his back a thousand times; and now, how abhorred in my imagination it is!” W. Shakespeare, Hamlet, Act 5, Scene 1.
iv Ma per i più curiosi diciamo solo che c’è un’accademia di tennis fondata da un certo James O. Incandenza, in seguito divenuto cineasta di valore, poi morto in circostanze inquietanti. C’è un gruppo di ex-tossicodipendenti in una casa di riabilitazione vicina all’accademia. E c’è un mondo del futuro prossimo (che curiosamente coincide con i nostri anni) in cui Stati Uniti, Messico e Canada sono riuniti nell’Organizzazione delle Nazioni dell’America del Nord (ONAN, sic!), una società dominata dal piacere fine a se stesso e dalla dipendenza. A questo stato di cose si ribellano i terroristi separatisti del Quebec. La loro arma dovrebbe essere un film dello stesso Incandenza, intitolato proprio “Infinite Jest”, così avvincente da risultare fatale ai suoi spettatori che lo guardano compulsivamente fino a morirne, e che è andato perduto alla morte del suo autore. Lo so, così ancora non si capisce come si vada avanti per 1079 pagine.