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Cosa fa un matematico applicato? Di solito tutto comincia con qualcosa di estremamente reale e tangibile, che non ha apparentemente nulla a che fare con la matematica…

 

Il mio collega Emiliano Cristiani mi perdonerà di essermi liberamente ispirato al sottotitolo di un suo recente libro [1] per intitolare questo articolo. Il fatto è che è davvero appropriato, e poi in fondo gli ho fatto un po’ di pubblicità gratuita (Emiliano, voglio una copia del libro in omaggio).

Cosa fa un matematico applicato? Di solito tutto comincia con qualcosa di estremamente reale e tangibile, che non ha apparentemente nulla a che fare con la matematica. Prendiamo le folle: cos’hanno di interessante? Beh, in generale la risposta dipende da te. Se sei un eremita probabilmente non sai nemmeno cos’è una folla, se invece sei il titolare di un grande magazzino o un addetto alla sicurezza di uno stadio è evidente, le folle sono, volente o nolente, parte integrante del tuo lavoro. E se sei un matematico? Ecco, se sei un matematico la questione si complica, perché in linea di principio non c’è una vera e propria ragione per cui, matematicamente parlando, le folle debbano interessarti (a meno che tu non sia un matematico eremita, nel qual caso non v’è dubbio: le folle non ti riguardano punto e basta). L’interesse può nascere all’improvviso, in maniera tanto specifica quanto fortuita, e poi svilupparsi seguendo ispirazioni e percorsi mentali difficili da prevedere. Uno, nessuno, centomila motivi.

Come matematico – o, per meglio dire, come persona che si occupa di matematica (perché non mi è ancora così chiaro cosa si intenda esattamente per “matematico”) – posso affermare che il mio interesse per le folle nacque nel novembre 2007. Ho un mese e un anno, non ricordo più il giorno ma sono certo che ve ne fu uno specifico, giurerei che fosse nella settimana tra il 12 e il 18. Prima di allora non me ne era mai importato un granché. In quel periodo, il mio nuovo direttore di ricerca mi disse che il big project che aveva in mente di sviluppare con me erano i modelli matematici di folle. Et voilà, l’interesse è servito. Qualche giorno dopo aggiunse che avrebbe voluto sviluppare questi modelli con certe tecniche matematiche che nessuno, fino a quel momento, aveva mai usato per quel genere di applicazione. Le mie idee incominciavano a prendere un po’ più forma: non sapevo ancora cosa fosse di preciso un modello matematico per le folle, però avevo studiato in astratto quelle tecniche e sapevo che mi piaceva la matematica che c’era dietro.

In fondo è sensato: se hai scelto di occuparti di matematica vuol dire che provi una certa soddisfazione nel “fare” matematica, quindi non è strano che, inizialmente, le motivazioni per interessarti ad una certa applicazione dipendano anche dal tipo di matematica che puoi mettere in campo. Se è matematica che padroneggi bene sei più motivato e parti avvantaggiato. Perché non è vero che a chi studia matematica piace tutta la matematica: personalmente, ci sono ampie parti che non ho mai capito e che rifuggo come la peste. Inoltre, conta ovviamente l’importanza che quell’applicazione ha presso la comunità scientifica: è un argomento di nicchia? Sta diventando di attualità? È già ampiamente sfruttata, con spazi di ricerca ormai saturi? Per certi versi è “più facile” lavorare in ambiti emergenti, perché ogni piccolo progresso sarà una novità e, se l’ambito suscita interesse, il tuo lavoro potrà trovare buoni canali per affermarsi. Il rovescio della medaglia è che, se fino a quel momento ci hanno lavorato in pochi, non c’è molto materiale da cui prendere spunto e può essere necessario costruire quasi tutto da zero, con l’ulteriore rischio che quell’ambito di ricerca non prenda piede e l’interesse generale si sposti altrove. È una scommessa che necessita di due ingredienti iniziali: intuizione sull’appetibilità dell’applicazione e individuazione della matematica appropriata da dispiegare.

In effetti, sarà una banalità ma il matematico applicato si chiama così perché ha due “io”: l’“io matematico” e l’“io applicato”. Al primo egli deve il gusto di fare matematica, al secondo il compiacimento nel constatare che la sua matematica si nutre continuamente di suggestioni e motivazioni esterne.

L’io applicato non si improvvisa, è una questione di mentalità: le applicazioni non sono un sottoprodotto della matematica. A volte ci si imbatte in lavori che iniziano più o meno così: “Queste equazioni sono usate per modellizzare le folle”, poi giù una sfilza di teoremi e considerazioni formali astratte. E le folle dove sono finite? Il modello, la sua costruzione, il confronto costante con la realtà? Non illudiamoci di aver fatto matematica applicata solo perché abbiamo dimostrato teoremi relativi ad equazioni che qualcuno ci ha detto essere applicabili alle folle.

Vale però anche il viceversa. Neanche l’io matematico si improvvisa. Non illudiamoci di aver fatto matematica applicata solo perché abbiamo usato equazioni e simboli matematici che poi abbiamo chiamato “modello”. Ci sono vari punti di vista con cui interessarsi alle applicazioni: quello del fisico, dell’ingegnere, del biologo, del chimico… Tra gli altri vi è anche quello del matematico. Intendiamoci: non che fisici, ingegneri, biologi, chimici non usino la matematica, però c’è sempre un che di strumentale nel loro utilizzo. È normale, la matematica non è un fine dei loro studi. Per il matematico applicato, invece, la matematica è una linea guida da seguire in modo creativo. C’è il gusto di esprimere in termini matematici concetti nuovi e apparentemente estranei alla matematica. C’è la sfida di farlo entro i limiti del rigore matematico, perché solo accettandone le regole ci si può far guidare dalla matematica e capirci qualcosa. C’è la soddisfazione di dimostrare teoremi, sì, c’è anche quella, perché alla fine lì sta una delle grandi sfide per il matematico, che lo distingue dal fisico, dall’ingegnere, dal biologo, dal chimico. La matematica senza dimostrazioni è come la pasta senza sugo: non è quello che ti immagini. Però per un matematico applicato il bello è se questi teoremi sono motivati dall’applicazione, se dicono qualcosa sul modo in cui il modello matematico rappresenta la realtà fisica. E quando ci lavori su è sorprendente constatare come la sinergia tra le strutture matematiche e il loro significato fisico spesso suggerisca le ipotesi giuste per arrivare con successo alla fine della dimostrazione.

Nella sua Apologia di un matematico, Godfrey Hardy sostenne in definitiva che i matematici applicati sono schiavi della realtà. Essi devono rinunciare a molte soluzioni interessanti e “belle” soltanto perché non si adattano alla realtà fisica. I matematici puri, invece, sono intrinsecamente liberi perché esplorano mondi immaginari. Una volta, un ragazzo più o meno della mia età che lavorava nel campo della matematica cosiddetta pura, sapendomi laureato in ingegneria matematica, mi chiese se per indicare gli intervalli aperti io usassi la notazione con le parentesi tonde, a suo dire propria dei matematici, o quella con le parentesi quadre rovesciate, a suo dire propria degli ingegneri. Sul momento rimasi interdetto dalla domanda e un laureando in matematica, presente alla conversazione, fu più pronto di me a rispondere. “Io – disse – di solito indico gli intervalli aperti elencandone uno ad uno gli elementi”. Il puro non rise a questa battuta.

di Andrea Tosin

[1]  E. Cristiani. Chiamalo x! ovvero Cosa fanno i matematici? Springer, 2009.

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