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Oggi esce in sala il film “Il diritto di contare”, che nella versione originale si intitola “Hidden Figures”, come il libro da cui la storia è tratta. Come promesso nel post di presentazione, ecco la recensione di Anna Maria Cherubini che lo ha visto per noi in anteprima. Attenti agli SPOILER (ce ne sono parecchi) e buon 8 marzo!

“Il diritto di contare”, titolo italiano di “Hidden figures”, come l’originale è un gioco di parole. L’originale è più azzeccato, allude non solo alle figure dimenticate protagoniste del film ma anche alle cifre nascoste dal pennarello che Katherine, la protagonista, deve ‘controllare’ ogni giorno. Il film è la storia (romanzata) di tre scienziate nere alla NASA, nei primi anni ’60 e del ruolo che hanno avuto nella riuscita dei primi voli. In modo gentile, ironico e divertente, racconta cosa significava essere donna e nera, la normalità quotidiana del razzismo e del maschilismo.

Katherine è Katherine Goble, poi Johnson, e il film comincia con lei bambina che viene iscritta, grazie ad una borsa di studio ed una colletta delle maestre, all’unica scuola per studenti di colore in Virginia che arrivasse fino alle nostre superiori. Katherine è un prodigio in matematica, frequenta classi per ragazzi più grandi di lei, e viene invitata a mostrare a tutti come si risolve un’equazione, cosa che lei fa in maniera impeccabile lasciando tutti ammirati. L’equazione non è da strapparsi i capelli, è il prodotto di due polinomi di secondo grado, ma è bella lunga, sullo schermo fa la sua figura, e lei è una bambina con i codini, davanti ad una grande lavagna, e capiamo subito di che pasta è fatta.

Subito la scena cambia, siamo in Virginia nel 1961 e con Katherine adulta (Taraji P. Henson) incontriamo le amiche con cui condivide anche il lavoro, Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe). La macchina di Dorothy è in panne, sono in ritardo al lavoro e, mentre Dorothy la ripara, arriva una macchina della polizia. È uno dei due momenti in cui il film è più esplicito sullo stato di timore e intimidazione in cui vivevano in neri nell’America della segregazione. Le tre amiche smettono di scherzare, si irrigidiscono, una dice per tranquillizzare “Non è reato avere la macchina rotta”, un’altra ribatte “Non è reato neanche essere neri”. L’agente è grosso, arrogante, con il manganello, ma viene rapidamente ammansito quando vede dai documenti che le tre donne lavorano alla NASA. Non se lo immaginava, dice, che assumessero… “donne”, lo interrompe Dorothy. Il poliziotto è sedotto, il programma spaziale è un mito, i maledetti comunisti sono già su e spiano dal cielo, e quando Mary gli fa credere che loro tre lavorano gomito a gomito con gli astronauti di Mercury 7, l’agente si offre galantemente di scortarle al lavoro. E così capiamo anche di che pasta sono fatte Dorothy e Mary.

Katherine, Dorothy e Mary fanno parte del gruppo di calcolatrici umane della NASA, che all’epoca usava assumere donne per questo compito. Le calcolatrici nere sono separate dalle bianche, e Dorothy è di fatto la supervisora di un gruppo di trenta donne, e ne coordina il lavoro. Ogni mattina assegna ad ognuna faldoni di conti da rivedere e continua a chiedere che il suo ruolo venga riconosciuto ufficialmente. Mrs. Mitchell (Kirsten Dunst), la sua supervisora bianca, le dice però che se lo può scordare, perché “That is it”, è così. Dorothy si rivolge alla sua superiore chiamandola “Mrs Mitchell”, e in cambio viene chiamata “Dorothy”. That is it.

“That is it” (o “that’s the way it is”) è il ritornello che i personaggi nel film usano per giustificare le ingiustizie della discriminazione: è così e basta, non ci si può fare niente. Una donna nera non può diventare ingegnere, né frequentare le università dei bianchi, prendere in prestito il libro che preferisce in biblioteca e nemmeno usare le loro toilette o condividere il bricco del caffè.

Il film non risparmia esempi delle indegnità quotidiane subite dalle persone di colore, anche tra le élite professionali dell’epoca. Lo fa in modo didascalico, quasi a voler spiegare il concetto gentilmente, senza troppo traumatizzare le platee americane: oltre al poliziotto dell’inizio, l’unico altro accenno alla violenza razziale è dato da qualche secondo di filmato di repertorio, dove la polizia attacca con i cani un corteo di dimostranti per i diritti civili.

Mary Jackson (Janelle Monáe) and NASA mission specialist Karl Zielinski (Olek Krupa) in Hidden Figures. MUST CREDIT: Hopper Stone, SMPSP; Twentieth Century Fox

Torniamo alla storia. Mary ha una formazione ingegneristica, e le viene richiesto da un ingegnere polacco di entrare a far parte del suo team. Il personaggio del film si chiama Zieliski, e come molti altri, a parte le tre protagoniste e John Glenn, è un personaggio fittizio, probabilmente una fusione di varie persone veramente esistite. Zielinski è un gentile ebreo polacco i cui genitori sono morti in un campo di concentramento e incoraggia Mary a far domanda per essere promossa a ingegnere perché ha talento, e non deve fare la calcolatrice tutta la vita. Mary gli risponde che è una donna nera e non ha intenzione di fare sogni impossibili. Zielinski ribatte che anche essere un ebreo sfuggito ai campi e arrivare a costruire un’astronave sembrerebbe impossibile, ma, dice, ‘stiamo vivendo l’impossibile’.

Nel frattempo il capo dello Space Task Group, il team d’élite che progetta le missioni spaziali, è alla ricerca disperata di una calcolatrice che conosca la geometria analitica (sic). Il programma spaziale è in ritardo, i prototipi perdono pezzi, i Russi sono lì lì per mandare in orbita il primo uomo nello spazio e i politici fanno tanta pressione. Il capo è un altro personaggio fittizio, nel film si chiama Al Harrison, ed è interpretato da Kevin Costner, qui nel suo ruolo classico dell’Americano integerrimo anni ’60. Grande e grosso e con gli occhiali e il senso della giustizia ben radicato sotto camicia bianca e cravatta. Deve fare i conti con gli ego dei geni e la disorganizzatione generale: il gigantesco IBM mainframe che aspetta da tempo non arriva e quando arriva non entra dalla porta. Allora lui consiglia di usare ‘il martello grande’ (sulla porta, non sull’IBM).

Dorothy propone Katherine per lo Space group e Katherine si ritrova nell’ambiente di lavoro più “chilly” che si possa immaginare: unica donna a parte la segretaria bianca, scambiata all’inizio per la donna delle pulizie, odiata dal genio ufficiale del gruppo, che si offende all’idea che qualcuno gli controlli i conti e ne nasconde gran parte con tratti di pennarello nero con la scusa che lei non è autorizzata a leggere informazioni riservate.

Katherine dimostra ben presto di essere la matematica più dotata del gruppo. Lavora ‘come un cane’, dice nella sua unica esplosione di rabbia contro Harrison: deve attraversare il campus se vuole andare in bagno, perché c’è un’unica toilette per donne nere, può usare solo il bricco del caffè con su scritto ‘colored’ che gli altri non toccano, e non può neanche adeguarsi al dress code, che prevede un ‘semplice filo di perle’ oltre che gonne sotto al ginocchio, perché le calcolatrici di colore sono pagate pochissimo (e lei è vedova e a casa ha tre figlie e la madre).

Harrison, che come si è capito ama i martelli e va per le spicce, distrugge l’insegna del bagno segregato, e da quel momento ha un’intesa professionale con Katherine, che riesce grazie alla sua tenacia a farsi assegnare compiti ‘impossibili’. Grazie ai suoi calcoli è possibile il lancio del primo americano, Alan Shepard. La matematica per il lancio e per calcolare l’orbita di Glenn si deve ancora inventare, secondo Harrison. Lei non se la inventa, ma usa il metodo di Eulero per approssimare numericamente l’orbita di rientro della Friendship 7 di John Glenn. I calcoli di Katherine alla lavagna arrampicata su una scala sono scenografici e lasciano a bocca aperta i generali del Pentagono, come lei da bambina aveva lasciato a bocca aperta i suoi compagni. Alla fine, sarà lei a confermare che i dati dell’IBM per il punto di rientro di John Glenn sono corretti.

Nel frattempo Mary combatte la sua battaglia per diventare ingegnere. Deve frequentare un corso superiore in una scuola per bianchi e fa appello al tribunale perché le permettano di iscriversi. Non ha un avvocato, non si rivolge pubblicamente al tribunale, ma chiede di parlare con il giudice e lo convince: non con argomenti di giustizia ed eguaglianza, ma facendo leva puramente sulla storia e l’ambizione personale del giudice.

Dorothy

Infine Dorothy capisce che l’era dei calcoli a mano è finita e che presto le computer umane verranno soppiantate dal computer IBM. Decide di imparare il FORTRAN e di insegnarlo alle sue ragazze, cui spiega la sua strategia: imparate bene il vostro lavoro, rendetevi preziose, perché comunque per far andare la macchina serviranno umani che sappiano spingere i bottoni. Per imparare il FORTRAN Dorothy deve rubare un libro dalla sezione dei bianchi in biblioteca, e spiega ai figli che non è un furto perché la biblioteca è finanziata anche dalle sue tasse. Le sue ragazze sono pronte quando finalmente l’IBM prende a funzionare. A Mrs Mitchell che le chiede di addestrare le ragazze bianche, Dorothy risponde che sarebbe il compito di un vero supervisore, e ottiene finalmente la promozione. E il diritto di essere chiamata Mrs Vaughan.

Il film, come dicevo, è abbastanza romanzato: per esempio, il potente espediente narrativo delle corse di Katherine (su Pharrell Williams che canta ‘Running’) per andare nell’unico bagno per donne nere, pare non rispecchi la storia. La vera Katherine avrebbe detto di essersi sempre rifiutata di usar le toilette riservate. Ma d’altra parte la storia dei bagni ha un suo ruolo nella storia delle donne scienziate: esemplare la storia di Eva Rubin, che ha scoperto la dark matter e rischiò di veder respinta la sua domanda per fare ricerca all’osservatoriorio di Mount Palomar perché di solito non si accettavano donne anche per mancanza di un bagno apposito.

È un film di Hollywood, non dimentichiamolo, ed è molto patinato, e questo è però parte della sua efficacia: le calcolatrici sono vestite in modo impeccabile, smalto e rossetto, pennellate colorate contro lo sfondo di camicie bianche e cravatte degli uomini bianchi. Ma è anche molto efficace nel descrivere persone e ambienti. Fuori dal lavoro le tre protagoniste hanno famiglie e corteggiatori: Katherine si risposerà con il Colonnello Johnson (Mahersala Ali) che al primo incontro la fa arrabbiare mettendo in dubbio le capacità matematiche delle donne. Vanno ai picnic in parrocchia, organizzano feste danzanti casalinghe e tra di loro giocano a carte e si ubriacano mentre fanno una torta. Commentano (Mary commenta) quanto siano carini gli astronauti, anche se sono bianchi.

Si accenna al clima politico: l’antagonismo con l’Unione Sovietica, la paranoia nucleare, le lotte per i diritti civili guidate da Martin Luther King. La conquista dello spazio è un sogno epico comune, gli astronauti sono eroi popolari: non succedeva solo in America, una belissima mostra dedicata ai cosmonauti sovietici allo Science Museum di Londra un paio di anni fa ben documentava quanto l’impresa spaziale fosse condivisa dal pubblico. E si trattava veramente di imprese eroiche, i piloti venivano mandati in orbita in navicelle che ora e sembrano rudimentali giocattoli. Il bel film “Cosmonauta” di qualche anno fa racconta come anche in Italia si seguissero con passione le vicende spaziali: nel film è una bambina che sogna di diventare astronauta (o meglio cosmonauta, come venivano chiamati in USSR, perché i suoi genitori sono comunisti).

Lo spazio era un sogno per tutti, anche per le calcolatrici nere che non mettono mai in dubbio la necessità di partecipare al progetto di un paese che le discrimina. Il film glissa distratto sul fatto che alla NASA lavorassero anche scienziati nazisti, oltre che il simpatico ebreo polacco, e in generale la politica rimane sullo sfondo. È un film che denuncia ingiustizie, ma non spaventa e quasi rassicura. La tenacia e il talento individuale vincono sempre.

La vera Katherine Johnson la notte degli Oscar

Come in altri film basati su eventi storici (penso per esempio alla figura di Turing in ‘The imitation game’), la storia mette in luce le capacità individuali di tre eroine, non un impegno comune. Katherine, Dorothy e Mary ce la fanno perché hanno talento e si rendono indispensabili, non in base a generiche considerazioni di eguaglianza universale. Il marito di Mary è l’unico ‘rivoluzionario’ del film: le dice che i diritti si devono pretendere e prendere con la forza, non si fa domanda in tribunale (allo stesso tempo, “un’ingegnera nera non si è mai vista” e le rinfaccia di non stare abbastanza con i bambini). Mary gli risponde che ci sono tante strade per arrivare ad uno scopo e segue la sua, manipolando con ironia la vanità del giudice, come già aveva fatto con il poliziotto.

Incidentalmente, far leva sulla vanità dell’uomo che decide è una strategia usata anche da Katherine, quando chiede di partecipare ai briefing del Pentagono per avere le informazioni che le servono per i suoi calcoli. Non si può, il protocollo non prevede che le donne partecipino, that is it. Il protocollo non prevede neanche che un uomo orbiti attorno alla terra, dice Katherine, ed esorta Harrison a comportarsi da ‘capo’ e prendere le decisioni necessarie.

La descrizione delle vie individuali alla soluzione di problemi sociali è la parte per me più moderna e avvincente del film: la descrizione delle battaglie personali, anche con se stesse, di donne in un ambiente sociale che le svantaggia. Mary ci mette un po’ a smettere di lamentarsi e convincersi di far causa per essere ammessa a scuola. Dorothy vede avanti, aspetta, studia e pianifica la sua strategia. E intanto parla con le macchine come con amiche: ‘That’s a girl’, e brava la mia ragazza, dice alla televisione che ha appena sintonizzato e all’IBM che finalmente si accende.

Katherine resta parecchio indecisa prima di autorizzare se stessa a firmare gli articoli frutto del suo lavoro. Il genio ufficiale del gruppo le strapperà i frontespizi, perché le calcolatrici non firmano lavori scientifici, anche se li fanno loro. Ma lei persiste. Le chiuderanno la porta in faccia, letteralmente, fino all’ultimo, ma alla fine entrerà anche lei nella sala di controllo.

L’ultimo commento è per il macchinone IBM, animale quasi mitologico che occupa uno spazio sconfinato. Mi ha ricordato quello che ho visto da bambina, anni dopo, nell’ente per cui lavorava mio padre, ed era sempre enorme. Mio padre portava a casa le schede perforate e i fogli da stampante continui, a righe bianche e verdine e con i fori laterali, perché noi bambini potessimo usare la parte bianca per disegnare. Per anni ho fatto le brutte dei compiti su quei fogli. Mio padre non è mai andato in America, ma condivideva la passione e il rispetto per la scienza e la tecnologia che caratterizzava quegli anni. E la determinazione delle calcolatrici contro condizioni avverse. Credo sia un film che gli sarebbe piaciuto.

REGIA: Theodore Melfi
ATTORI: Taraji P. Henson, Octavia Spencer,Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst,Jim Parsons, Mahershala Ali, Aldis Hodge, Glen Powell, Kimberly Quinn
SCENEGGIATURA: Theodore Melfi, Allison Schroeder
PRODUZIONE: Chernin Entertainment, Fox 2000 Picture
DISTRIBUZIONE: 20th Century Fox
PAESE: USA
DURATA: 127 Min

Anna Maria Cherubini
Università del Salento
Dipartimento di Matematica e Fisica

Roberto Natalini [coordinatore del sito] Matematico applicato. Dirigo l’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del Cnr e faccio comunicazione con MaddMaths! e Comics&Science.

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