di Cédric Villani
Allora ci dica, la matematica, in fondo, a cosa serve?
Quando si arriva alla fatidica e sempiterna domanda, durante un’intervista o una trasmissione televisiva, si fa un gran sospiro interiore; il ricordo va per un attimo a quel ministro che una volta fu così infastidito dalla domanda di un conduttore televisivo da lasciare su due piedi lo studio, ma ci si riprende e si passa in modalità automatica per rispondere.
Dopotutto questa domanda, che a noi sembra mostruosa, è legittima: per gran parte dei nostri concittadini, la matematica è un’attività del tutto inutile e quando spieghiamo loro che è essenziale per un progresso tecnologico un po’ più sofisticato si stupiscono come se si dicesse loro che il greco antico è utile nella costruzione di automobili.
Situazione molto pericolosa, ovviamente. La maggior parte delle nostre ricerche è pagata dal contribuente; se i cittadini e i loro rappresentanti non afferrano l’importanza delle scienze matematiche per il progresso della società, o non partecipano dei nostri sogni matematici, non si capisce perché dovrebbero continuare a finanziarci. A meno che non lo facciano perché si sentono costretti, ma la nostra immagine pubblica e la solidarietà che suscitiamo ne soffriranno ancora di più. E per il nostro benessere e per il futuro della nostra disciplina è importante che la nostra immagine sia positiva.
Inoltre non bisogna illudersi: la più grave preoccupazione per la nostra comunità in questo momento, non sono né le preoccupazioni legate alle risorse finanziarie, né le riforme in corso, né le irritanti domande dei giornalisti, ma la perdita di popolarità della nostra attività e la scomparsa sempre più rapida dei nostri studenti e dei nostri insegnanti, che mina l’intero edificio della ricerca e dell’istruzione superiore. Per rimediare a tutto ciò solo un messaggio positivo potrà sortire l’effetto desiderato. Parlare maggiormente di scienza in ambito pubblico non sarà probabilmente una condizione sufficiente per arrestare il declino delle vocazioni ma è certamente una condizione necessaria. Questo significa che dobbiamo stabilire relazioni dirette e durature con il pubblico e i mezzi di comunicazione.
Non se ne sa mai abbastanza: sono abilità che si apprendono. È così che nel 2007 ho potuto godere, con alcuni colleghi, di un’eccellente formazione sulla comunicazione scientifica organizzata dal CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique; il C.N.R. francese). Il relatore, Claude Vadel, ci ha dato alcuni elementi per comprendere la psicologia dei giornalisti e del pubblico e ha svolto alcune esercitazioni pratiche, a volte persino destabilizzanti. In una discussione sugli “scienziati che comunicano” ha evocato, per così dire, coloro che si ritrovano in prima linea davanti ai mezzi di comunicazione, in rappresentanza delle rispettive comunità presso il grande pubblico. Ovviamente per i loro colleghi questo può essere fastidioso, ma queste persone svolgono la funzione di mediatori tra il proprio ambito d’interesse e il grande pubblico, ruolo che i giornalisti scientifici, per quanto competenti, non possono svolgere con la stessa efficacia.
Quattro anni più tardi, nel mio ufficio all’Istituto Henri Poincaré, un giornalista di Télérama mi ha detto: «Lo sa che lei è a un passo dal diventare lo Hubert Reeves della matematica?» e ho dovuto fare una faccia sbigottita per qualche istante prima di riprendere il filo dell’intervista. Pochi giorni dopo, facevo di nuovo una faccia sbigottita scoprendo il titolo dell’articolo: “Sono la Lady Gaga della matematica” [NdT: qui la versione originale in francese]. (e ho pensato: “Be’, diciamo che dovrebbero sapere ciò che fanno, non sta a me giudicare se si tratta di un buon titolo”).
Un titolo interessante che tra i colleghi matematici ha suscitato pareri discordanti; alcuni vi hanno visto un’esplicita volontà di apparire eccentrico, altri un modo per mettersi in evidenza, altri una forma di populismo privo di decenza per un universitario, altri ancora non ci hanno visto nessun problema. Nelle mie intenzioni, evocare Lady Gaga, è stata una risposta lucida e pedagogica alla domanda del giornalista che mi ha chiesto come mai, in un paese come la Francia che ha conosciuto molti grandi matematici, io sia diventato così popolare. Evidentemente, le mie scelte in materia di abbigliamento costituiscono un fattore non trascurabile e, volendo proporre un’analogia in un contesto diverso, se oggi Lady Gaga detiene il record mondiale di seguaci su Twitter è senza dubbio, in primo luogo, per le sue eccentricità nel modo di vestire. In un caso come nell’altro, niente di cui vantarsi particolarmente. Ovviamente non avevo previsto che il confronto si sarebbe trasformato in un titolo così radicale.
Il giornalista di Télérama mi ha chiesto in seguito se per caso non pensassi che aveva esagerato un po’… Alla fine le reazioni del pubblico (il 99,99% del pubblico non è costituito da matematici) mi hanno convinto che il titolo era azzeccato: vista anche la risposta che ho ricevuto, tra tutti gli articoli in cui sono stato coinvolto negli ultimi due anni, questo è uno di quelli maggiormente letti e citati, alcuni entusiasti mi hanno addirittura confessato che è stato il titolo a spingerli a leggere l’intervista…
I veri problemi sono sorti altrove. Mi permetto di passare in rassegna alcuni dei peggiori ostacoli che ho incontrato in quasi due anni trascorsi a stretto contatto con i mezzi di comunicazione, nella speranza che ciò possa essere utile a coloro che vorranno seguirmi in questa direzione.
Il primo scoglio sono le scale di tempo e di spazio che impongono una pressione non indifferente. Spazio limitato sui giornali, tempo ridotto in televisione, preparazione in stato di urgenza, richiesta di reazione immediata; tutto questo fa andare contro le proprie abitudini di lavoro e induce a sbagliare. Quando in un articolo bisogna esprimersi con il vincolo di 3000 battute è impossibile sviluppare l’argomento come si desidererebbe, non si possono fare tutte le citazioni che si vorrebbe e si finisce con delle affermazioni sbilanciate di cui ci si rammarica profondamente. In un’intervista con limiti di tempo può benissimo accadere di vedersi tagliare la frase a metà. Quando si viene avvisati solo tre giorni prima sul tema che sarà trattato in un programma televisivo si avrà appena il tempo di informarsi. E ancora va bene se si è avvisati in anticipo; molti giornalisti, almeno in Francia, preferiscono puntare sulla spontaneità a scapito della preparazione (il contrasto è sorprendente quando si lavora con i mezzi di comunicazione di alcuni altri paesi; ricordo in particolare di un programma televisivo svedese molto ben preparato e al tempo stesso molto vivace).
Secondo problema: gli errori di trascrizione. Un’intervista o una biografia riflettono solo in parte le dichiarazioni rese dalla persona che le rilascia: vengono operate delle scelte, alcune frasi sono completamente riscritte. Capita regolarmente che le persone mi pongono domande su questa o quella dichiarazione rilasciata alla stampa e sono costretto ad ammettere, con tutta la buona volontà del mondo, che non capisco bene di cosa si stia parlando. Questo vale anche per i fatti, naturalmente: una volta un quotidiano ritenuto molto affidabile annunciava la mia presenza a una cerimonia dove non avevo messo piede. Bisogna esserne consapevoli: tutte le informazioni, tutte le parole che sono trascritte da terzi vanno prese con cautela.
E anche quando il corpo dell’articolo è trascritto bene, o se ne è direttamente l’autore, i dettagli possono fare precipitare ogni cosa! Può essere per esempio l’ordine nella presentazione: è così che in una conferenza stampa, una risposta data a un’ultima domanda si è ritrovata posizionata in testa al comunicato preparato da un’agenzia di stampa come se fosse la cosa più importante che volevo comunicare; il giorno dopo ho ricevuto telefonate e email furiose o preoccupate da parte dei responsabili dei programmi governativi, uno dei quali mi consigliava addirittura di pubblicare una smentita ufficiale (!?). Fortunatamente, i resoconti prodotti da altri canali di comunicazione hanno convinto i miei interlocutori che le dichiarazioni rilasciate erano state trascritte in modo parziale.
Un altro dettaglio non trascurabile è che a volte il contenuto di un’intervista fedelmente trascritta (o per esempio, stesa da voi stessi in forma scritta, per maggiore sicurezza) viene contraddetto dal titolo (scelto da non si sa chi). Mi è capitato almeno due volte che il titolo esprimesse il contrario di quello che era il contenuto del testo… ed è inutile dire che la maggior parte delle volte non scoprirete il titolo se non al momento della pubblicazione.
Anche in un testo che firmate di vostro pugno, può succedere di tutto. A volte delle parole vengono aggiunte da un correttore zelante che sente il bisogno di aggiungere la parola “cristallino” nel testo (dove malauguratamente parlate di un reticolo non cristallino); o un correttore che, visto che si sta parlando di Galton, pensa che non possa far male ricordare che si tratta di uno dei padri fondatori dell’eugenetica (con tutte le implicazioni che ci si possono leggere); oppure decide di cambiare la forma o la grammatica secondo regole inedite. La maggior parte delle volte sono stato in grado di correggere questi “miglioramenti”, a volte mi sono sfuggiti. Così, in quello che per me è stato senza dubbio l’episodio mediatico più traumatico di questi ultimi anni, un pezzo in cui trattavo di matematica finanziaria è apparso senza che una sola parola del mio testo fosse stata cambiata … ma con una suddivisione in paragrafi completamente devastata! E la suddivisione in paragrafi è un po’ come il montaggio di un film, modifica il significato del testo. A forza di unioni o separazioni tra i paragrafi, cercando in buona fede di rendere il mio testo più incisivo, l’editore ne aveva alla fine sconvolto gli equilibri già fragili a causa dei vincoli di spazio. Per finire, scoprendo con stupore l’articolo contemporaneamente ai commenti esterefatti che suscitava, mi sono reso conto con orrore che il giornale aveva deciso, senza alcun preavviso, di indirizzare il testo ad un pubblico specializzato (lettori delle pagine economiche) al quale non era per nulla destinato e per il quale avrei ovviamente scritto in modo molto diverso.
Sia chiaro: nonostante queste esperienze delicate, non bisogna prendere il (o la) giornalista per un ignorante o un truffatore dalla morale “elastica”. Niente di tutto ciò; in generale si tratta di persone rispettabili e intelligenti, che incontrano loro stessi notevoli difficoltà, stretti tra lo scienziato che ha faticato a trovare il tono giusto, un comitato di redazione che non esiterà a censurarlo, lettori esigenti che chiedono informazioni puntuali, etc. Il più delle volte, il giornalista cerca sinceramente di fare dello scienziato un proprio alleato che lo aiuti a scrivere un buon articolo o a realizzare una trasmissione di buona qualità; dobbiamo aiutarli a far fronte a tutte queste complicate condizioni al contorno.
Una volta superati i problemi della velocità e della fedeltà nella trasmissione, c’è un terzo scoglio più insidioso che potrebbe essere definito come la “sindrome dell’esperto”: se siete specializzati in qualcosa agli occhi di molti risultate meno credibili quando parlate di un argomento che è fuori dalla vostra area di competenza rispetto a qualcuno che non è per niente specializzato. (A essere onesto, devo aggiungere che per un altro segmento di pubblico è vero il contrario.) Spesso per preparare degli articoli su argomenti che non padroneggio a priori (per citare alcuni esempi: demografia cinese, crisi finanziaria, reti di distribuzione di energia, etc.) mi sono imposto di identificare e interrogare a lungo degli specialisti, ho fatto loro rileggere il mio articolo, insomma ho fatto tutto il possibile per ottenere un risultato inattaccabile, ma non ho comunque evitato il commento ricorrente «non è nel suo campo di competenza». Naturalmente, questa critica non è ammissibile: la maggior parte delle persone che ascoltiamo, leggiamo o vediamo esprimersi nei mezzi di comunicazione su ogni argomento immaginabile non sono nemmeno loro nella loro area di competenza, e tuttavia è importante che gli scienziati si esprimano sulla scena pubblica e sarebbe disastroso far passare il messaggio secondo cui uno scienziato non si occupa che di un solo campo d’interesse fortemente limitato in cui è in grado di pubblicare articoli di ricerca.
Si tratta del resto di una delle maggiori attrattive della divulgazione: fare un passo indietro, lavorare alla storia di un soggetto, indagare seguendo tracce diverse, riformulare delle teorie avanzate nel linguaggio di tutti i giorni, ripensare alla storia e al luogo di tale tema di ricerca nel panorama globale della scienza, analizzare il vostro comportamento e le vostre emozioni di ricercatore; queste attività permettono un grande arricchimento sul piano personale. Parlare della professione di ricercatore a coloro che non la conoscono è un ottimo modo per trovare in se stessi maggiore significato e motivi di orgoglio; quanto all’investimento di tempo (veramente notevole) necessario per la preparazione di un articolo divulgativo, di una conferenza pubblica o di un intervento in una trasmissione televisiva, di solito viene ampiamente ricompensato dal piacere del lavoro di sintesi e dall’accoglienza spesso entusiastica che si riceve da parte del grande pubblico.
E questa è la buona notizia con cui possiamo concludere questa riflessione: il nostro potenziale di popolarità come scienziati è veramente notevole, molto superiore a quello che abbiamo in mente (almeno, di quello che io avevo in mente). Qualche persona scontrosa impreca contro i matematici accusandoli di aver causato la crisi finanziaria, ma la maggioranza degli altri è sinceramente contenta di scoprire il nostro mondo della ricerca, delle pagine scarabocchiate, delle lavagne, delle equazioni, etc. La mostra presso la Fondazione Cartier a Parigi ha attirato 80.000 visitatori nonostante una scarsissima visibilità nelle sezioni culturali dei principali mezzi di comunicazione. Quasi ogni giorno incontro degli sconosciuti che mi dicono di essere felici di sentir parlare di scienza nei mezzi di comunicazione, di ascoltare i miei interventi a France Info o leggere i miei pezzi su Le Monde. Lo stesso per le conferenze pubbliche: in diverse occasioni mi hanno fatto parlare in sale con circa un migliaio di persone letteralmente bramose di sentire discutere di scienza. Esperienze senza precedenti per un oratore che mostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che i benefici della mediatizzazione (ancora molto relativa) della nostra disciplina superano di gran lunga gli svantaggi.
Cédric Villani, matematico, medaglia Fields nel 2010, è direttore dell’Istituto Herni Poincaré.
Tradotto dal francese da Elena Toscano. Si ringraziano il sito “Images des Mathématiques” e la rivista “La gazette des mathématiciens” della Société mathématique de France per averci gentilmente concesso di ripubblicare questo testo nella versione italiana. (link articolo originale: http://images.math.cnrs.fr/De-la-Mathemediatique.html). Prima apparizione italiana in “Comics & Science”, ed. CNR, ottobre 2013.