Con la rubrica “Strane storie matematiche” nella rivista Archimede vogliamo innanzitutto parlare dei fenomeni matematici reali che avvengono ai vari livelli educativi: dalla scuola dell’infanzia al post-laurea; consapevoli che al di là delle differenze di età degli allievi, di formazione degli insegnanti, e di contenuti, molti fenomeni siano tra loro collegati, e con la convinzione che vedere e interessarsi dei fenomeni che avvengono ad altri livelli educativi (anteriori o posteriori) sia fondamentale per ogni insegnante, e per pensare davvero in verticale nell’educazione matematica dei nostri studenti. Una rubrica di Anna Baccaglini-Frank e Pietro Di Martino.
In questa rubrica presentiamo alcuni episodi paradigmatici tratti dalla letteratura nazionale ed internazionale in didattica della matematica, da sperimentazioni di insegnanti che collaborano con noi, o da altre fonti (articoli su giornale, social networks). E, se vorrete (noi lo speriamo tanto!), di episodi raccontati direttamente da voi.
Riportiamo qui una delle prime strane storie, uscita nel numero 2/2016 di Archimede, e di cui i commenti sono usciti in un numero successivo (Archimede 4/2016).
È vero, ma non me lo spiego (scuola secondaria di secondo grado)
Spunti di riflessione per il lettore:
Quanto significativo reputi tale episodio? Perché?
Se fossi l’insegnante di Tommaso, come giudicheresti la sua prestazione su questo quesito?
Come spieghi la sua risposta alla domanda “Perché?”?
Commento a “È vero ma non ne lo spiego”
L’episodio in questione è tratto da una tesi di laurea triennale in matematica (Marcheschi, 2014) focalizzata sulle difficoltà argomentative degli studenti italiani quindicenni.
Luca ci scrive che ritiene l’episodio molto significativo, da una parte è ricorrente nella sua esperienza come docente, dall’altra è legato, a suo avviso, all’importanza della dimostrazione per poter generalizzare in matematica.
Luca ritiene che Tommaso, come fanno anche molti studenti universitari, si sia convinto della verità dell’affermazione sulla base di alcuni esempi, e che il suo “ma effettivamente non me la spiego” potrebbe anche essere valutato positivamente, laddove nasconda la consapevolezza di non aver trovato una vera dimostrazione.
L’analisi dei molti protocolli raccolti per la tesi sopra citata, dà forza all’interpretazione di Luca mostrando come molti studenti rispondano al “perché?” portando esempi numerici.
È molto interessante però la scelta degli esempi: c’è chi sceglie i primi numeri pari maggiori di due, chi sceglie numeri pari sparpagliati (in alcuni casi si riconosce un criterio per la scelta di tali numeri “esemplificativi”, ad esempio diversi scelgono le prime potenze di 2).
D’altra parte anche la gestione degli esempi è significativa: in alcuni casi lo studente scrive tutti i numeri pari scelti, come la somma del precedente più 1. Appare evidente come tali esempi possano essere considerati il germe di una dimostrazione per induzione: può anche essere che chi li produce non abbia gli strumenti (algebrici e di conoscenza dell’induzione) per trasformare questa intuizione in una dimostrazione formale.
Il rapporto tra esempi-controesempi e dimostrazioni è sicuramente un tema rilevante nell’insegnamento della matematica: un contributo importante in Italia alla ricerca relativamente a questa tematica è stato dato da Samuele Antonini (vedi ad esempio, tra i materiali disponibili online in italiano Antonini, 2013).
Altro aspetto interessante è la forza affettiva che l’esempio ha per molti studenti: ci sono diversi protocolli che riportano una dimostrazione del fatto che un numero pari maggiore di 2 è somma di due dispari diversi (la maggior parte appunto scrivendo il numero pari n come n-1 più 1, e sottolineando che essendo n pari maggiore di 2, allora n-1 è dispari diverso da 1), e successivamente – quasi a voler convincere ancora di più – una serie di esempi numerici.
Per concludere tornando a Tommaso e alla valutazione dell’episodio che ne fa Luca, quanto scrive Tommaso sembra evidenziare la consapevolezza che la spiegazione “l’ho provata su un bel po’ di numeri” non viene accettata come giustificazione in matematica. Si tratta di capire se sia una consapevolezza basata sulla conoscenza di cosa sia una dimostrazione in matematica, o sulle pretese dell’insegnante (è possibile che Tommaso abbia sentito molte volte dire che “in matematica così non va bene, perché potrebbe esserci un controesempio”, e che si sia semplicemente adeguato).
Sembra venir fuori un costrutto storico della ricerca in didattica della matematica, il contratto didattico, che Brosseau (1986) ha definito ormai 30 anni fa1: “In una situazione d’insegnamento, preparata e realizzata da un insegnante, l’allievo ha generalmente come compito di risolvere un problema che gli è presentato, ma l’accesso a questo compito si fa attraverso un’interpretazione delle domande poste, delle informazioni fornite, degli obblighi imposti che sono costanti del modo di insegnare del maestro. Queste abitudini del maestro attese dall’allievo ed i comportamenti dell’allievo attesi dal docente costituiscono il contratto didattico”.
Inoltre, nel numero 4/2016 della rivista Archimede è stata pubblicata la strana storia seguente, di cui i commenti usciranno nel prossimo numero della rivista.
Il problema dei camion (5a primaria)
Sara risponde 6,2; Luigi, compagno di classe di Sara, risponde 6.
Per leggere i commenti rimandiamo all’uscita 1/2017 della rivista.
Pubblichiamo qui, infine, la strana storia sempre del numero 1/2017 della rivista, e invitiamo i lettori a mandarci i propri commenti.
Le sequenze da completare
Quella delle sequenze numeriche, geometriche o di qualsiasi natura da completare è una richiesta molto presente in diversi ambiti: è usata in test di ammissione e valutazione, così come è diventata di moda sui social network (con discutibili e improbabili titoli del tipo: “solo i geni ci riescono”). Tipicamente (e giustamente) i matematici criticano queste richieste in quanto, matematicamente, una sequenza finita può essere completata correttamente in infiniti modi: insomma, non esiste la risposta giusta.
D’altra parte diversi progetti didattici – di avviamento al pensiero algebrico, e comunque collegati allo sviluppo di competenze linguistiche e argomentative in matematica – sono sviluppati attraverso la richiesta di congetture su sequenze di cui conosciamo solo i primi termini. Tali attività sono state sviluppate sia livello nazionale ed internazionale, con interessantissimi risultati sia teorici (Ferrari, 2000; Radford, 2006) che in termini di sviluppo di percorsi educativi in continuità2.
Ovviamente nelle attività proposte in classe non spaventa, anzi, il fatto che possano venir fuori più risposte3: quello che interessa è la coerenza interna delle congetture e la capacità di comunicarle e argomentarle.
In questa ottica, in una classe terza di scuola secondaria di primo grado, in una lezione di due ore, è stato assegnato ai ragazzi – organizzati in gruppi di 4 – il seguente quesito, chiedendo di rispondere e di prepararsi a spiegare il ragionamento in una discussione collettiva.
Spunti di riflessione per il lettore
Pensi che un’attività del genere sia proponibile al tuo livello scolare? Perché?
Quali pensi sarebbero le risposte (soprattutto le parti riguardanti la giustificazione) e le difficoltà degli allievi?
Organizzeresti l’attività con le modalità sopra descritte o faresti variazioni? Perché?
Anna Baccaglini-Frank e Pietro Di Martino
Note
1 Traduzione da D’Amore (2007). Bruno D’Amore ha scritto diversi contributi relativi al costrutto di contratto didattico.
2 in questo senso, sottolineiamo per completezza e profondità, il progetto ARAL – percorsi nell’aritmetica per sviluppare il pensiero pre-algebrico – diretto da Nicolina Malara: http://www.progettoaral.it
3 In realtà tipicamente questo non accade, e l’attenzione delle attività si sposta sull’aspetto di congettura, generalizzazione e comunicativo: d’altra parte niente vieta all’insegnante di mostrare risposte diverse da quella che dovesse essere data in modo univoco dai ragazzi.