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Un eccitante prequel della Matematica del colore, attraverso la storia degli scienziati che nel diciottesimo e diciannovesimo secolo hanno dato una struttura rigorosa alla sensazione del colore. Ci regalano questo viaggio, Edoardo Provenzi, Professore all’ Université de Bordeaux e Valentina Roberti, assegnista di ricerca presso l’Università di Padova. Questo è il primo episodio. Tutti gli episodi usciti li trovate in questa pagina.

Come abbiamo visto nel secondo episodio de “La matematica del colore”, disponibile  qui, la teoria di Newton della luce e dei colori rappresenta una significativa svolta nell’interpretazione e dunque nella modellizzazione dei fenomeni ottici. Insieme alla teoria di Young, la teoria di Newton inaugura di fatto il moderno atteggiamento nei confronti del colore, aprendo la strada ai lavori ottocenteschi di Maxwell, Grassmann e von Helmholtz.

Va detto innanzitutto che la teoria di Newton subisce nei suoi quarant’anni di sviluppo cambiamenti significativi. Questo lungo periodo di gestazione, che ha inizio nel 1664, anno in cui Newton compie i suoi primi esperimenti di ottica, si conclude con la prima pubblicazione del libro Opticks or a treatise of the reflections, refractions and colours of light nel 1704. Tra i motivi di questo lungo periodo di revisione vi è l’intenzione originale di Newton di dedicare al tema dell’ottica solamente una sezione nell’ambito della meccanica dei punti materiali nel suo capolavoro Philosopiae Naturalis Principia mathematica. Tuttavia, rendendosi conto della vastità e complessità della gamma di fenomeni che riuscì a esaminare e modellizzare matematicamente, Newton decise di dedicare all’ottica un’intera opera.

Come curiosità, segnaliamo qualcosa di sorprendente, soprattutto conoscendo il carattere rude e sicuro di Newton: a conclusione di Opticks, egli propose al lettore delle domande (alcune delle quali retoriche) e delle congetture, che denomina Queries, e che arrivano addirittura ad essere 31 nell’edizione del 1717.

Nel corso del Seicento, intellettuali della caratura di Descartes, Boyle e Hooke descrissero il colore come una qualità derivata dalla modificazione della luce bianca in interazione con la materia. Newton invece interpretò i colori come componenti eterne della luce, che mantengono una propria individualità, un’interpretazione derivata dall’esperimento del doppio prisma, noto come experimentum crucis rappresentato nella stampa ottocentesca che possiamo vedere qui sotto.

Non è ozioso ricordare i dettagli di questo storico esperimento e lo faremo citando il biologo ungherese Albert Szent-Györgyi (noto per aver scoperto la vitamina C) che affermò: “le scoperte consistono in vedere ciò che tutti hanno visto, ma interpretarlo come nessuno l’ha interpretato”.

È noto dall’esperienza quotidiana che, se un fascio di luce bianca attraversa un frammento di vetro, si produce alla sua uscita un bellissimo effetto arcobaleno. Newton non si limitò ad osservare questo arcobaleno, ma interpose un secondo frammento di vetro (per lui, un prisma) per dimostrare che ogni raggio di luce con un colore preciso manteneva la propria individualità venendo semplicemente deflesso senza scomporsi ulteriormente.

Più di un secolo dopo, Joseph Fourier, nel 1822 propose una versione matematica del prisma di Newton, affermando che ogni quantità fisica misurabile potesse essere scomposta in una sorta di “somma pesata” di onde elementari, che, nel caso di Newton, coincidono con i raggi luminosi che caratterizzano i vari colori dell’arcobaleno.

Particolarmente importante è l’interpretazione che Newton diede della luce bianca: egli pensava che questa fosse composta da un numero molto grande, se non infinito, di “raggi” colorati dotati di angoli di rifrazione diversi, che, tuttavia, potevano essere raggruppati in solo sette classi, corrispondenti ai “colori primari”, ossia viola, indaco, azzurro, verde, giallo, arancione, rosso.

A partire da questi colori, Newton sostenne che fosse possibile ricavare qualunque altro colore con una “regola abbastanza rigorosa per la pratica, sebbene non matematicamente rigorosa”, basata sul calcolo del baricentro. Per capire come effettuare questo calcolo, rifacciamoci alla figura sottostante, il “disco dei colori di Newton”.

Probabilmente ispirato dalla rappresentazione circolare della partizione dell’ottava che René Descartes propose nel suo trattato Compendium musicae del 1650, nella quale un’ottava è suddivisa in setti toni, Newton suddivise il suo cerchio in sette settori e dispose i colori primari lungo la sua circonferenza. Si noti che esistono tre aperture angolari differenti per questi settori, ancora una volta in analogia con la musica. Le sette porzioni in cui è suddivisa la circonferenza sono infatti proporzionali agli intervalli musicali contenuti in un’ottava (cioè proporzionale ai numeri 1/9, 1/16, 1/10, 1/9, 1/16, 1 /16, 1/9). Newton utilizzò l’analogia con la musica anche per descrivere altri fenomeni, come ad esempio per definire lo spessore di film sottili, sebbene la partizione da lui adottata fosse diversa per ogni oggetto di studio.

Newton immaginò che una certa quantità di raggi luminosi con colori primari passasse attraverso una fenditura, rappresentandone la quantità attraverso l’area dei cerchietti disegnati nel punto medio di ogni arco di circonferenza (nella figura sopra, la quantità di raggi rossi, indicata con la lettera p a fianco del cerchietto, è ben più elevata della quantità di raggi violetti, indicata con la lettera x). Newton indicò poi con la lettera Z il centro di gravità (calcolato geometricamente) di tutti questi cerchi, e sostenne che quello fosse il colore risultante dalla mescolanza di questi raggi. Il colore spettrale che corrisponde a Z, e che individua la sua tinta, si può individuare tracciando una linea retta che va dal centro del cerchio O, passa per il punto Z e raggiunge la circonferenza nel punto Y. Invece, la distanza euclidea del punto Z dal centro della circonferenza determina, sempre secondo Newton, la saturazione di Z. Nell’esempio riportato da Newton, Z corrisponde ad un arancione insaturo risultante da una miscela di tutte e sette i colori primari in cui predominano giallo, arancione e rosso. Se osserviamo infatti l’area dei cerchietti in Fig. 2, questa è maggiore in corrispondenza proprio dei colori primari giallo, arancione e rosso. Questo metodo per il calcolo della tinta e della saturazione è tutt’oggi utilizzato dalla CIE (Commission Internationale de l’Éclairage).

Ma che cosa sono i colori, o i raggi colorati che compongono la luce bianca? La teoria della luce e del colore che Newton propose alla fine del lungo processo di revisione di cui abbiamo parlato è molto più complessa della semplice teoria corpuscolare che tradizionalmente gli viene attribuita, in contrasto a quella ondulatoria che Christiaan Huygens (1629-1695) propose negli stessi anni.

Si deve infatti a Newton, e non a Huygens, l’idea che i vari colori emergano da diverse sensazioni stimolate da lunghezze d’onda variabili dei raggi: i flussi di particelle di diversi colori sarebbero modulati da perturbazioni periodiche che lui denominò “fits”, termine mutuato dalla medicina per indicare febbri intermittenti. Questo potrebbe essere considerato un primo esempio di dualismo onda-corpuscolo con cui si confronteranno i fisici nei secoli a venire.

#fine primo episodio

Edoardo Provenzi e Valentina Roberti

Curato da: Barbara Nelli

Questo è il gatto della copertina: si chiama Panko e non è stato maltrattato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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