Tra ricostruzioni e coperture, una recensione di “Chi dice e chi tace”, l’ultimo libro di Chiara Valerio, che rivela alcune strutture matematiche tra le righe attraverso riferimenti a geometria integrale, ricerca operativa, enumerazione e teoria della complessità, con un pizzico di etimologia. A cura di Alice Raffaele.
Sarà che Chiara Valerio ha una formazione matematica; sarà che, parafrasando e stravolgendo un po’ un celebre aforisma, la ricerca sta nella mente di noi persone di scienza che leggiamo, però non ho dubbi che “Chi dice e chi tace”, l’ultimo libro della scrittrice edito da Sellerio, sia un romanzo matematico.
“Tutti facevamo sempre le stesse cose. Tutti sapevamo tutto di tutti. Tutti ci accontentavamo di ciò che avevamo davanti agli occhi. Tutti attribuivamo un certo valore alla forma.” – Pag. 43
Siamo a Scauri, una frazione di Minturno, a sud di Formia, di poco più di settemila abitanti. Uno di quei paesi dove, se in una via si sposta anche solo un sassolino, in un’altra lo stanno già mettendo a verbale, perché “la memoria del paese è diffusa” e “ha mille nodi” e tantissimi archi, come un grafo molto denso. Uno di quei paesi dove i giorni sono scanditi dalle tradizioni, dalle abitudini e dalle attese; dove all’apparenza non succede nulla e invece potremmo considerarli dei microcosmi; istanze più piccole di dove, ciò che noi cresciuti in periferia, abbiamo sempre ipotizzato ci sia la vita, ovvero le grandi città. Ed è proprio da una grande città, Roma, che l’elegante, misteriosa ma certamente facoltosa Vittoria sceglie di trasferirsi a Scauri, insieme a un’altra donna molto più giovane di lei. Se il suo arrivo suscita curiosità e parecchie domande, la sua dipartita vent’anni dopo, improvvisa e in parte inspiegabile, ne provoca ancora di più.
La storia si svolge negli anni Novanta, quando Vittoria viene appunto trovata morta nella sua vasca da bagno, lei che era una nuotatrice provetta. Ironia della sorte o c’è sotto qualcosa di più? Lea Russo, l’avvocata protagonista e conoscente e amica di Vittoria, non sa cosa pensare. E i suoi interrogativi, essendo il racconto in prima persona, diventano anche i nostri, in questo romanzo che Chiara Valerio stessa definisce come “realista” e non tanto come giallo, sebbene contenga e offra più di un’indagine. Le indagini in effetti partono dal vero, da quei pochi elementi che si hanno a disposizione, a cui si cerca di trovare una disposizione, una combinazione più spiegabile di altre, una teoria più aderente a quanto effettivamente successo. La morte di Vittoria in sé è facile da descrivere. Ma cosa dire invece della sua vita e di tutto ciò che l’ha condotta a quell’istante conclusivo?
“Di Vittoria, insomma, nonostante l’allegria, nonostante la confidenza che tutti sentivamo con lei, sapevamo ciò che vedevamo. Era distante ma curiosa, accogliente ma riservata, esatta ma evasiva. C’era nel suo parlare un certo fatalismo che lasciava sgomenti. O affascinati. Io ero tra gli affascinati. Era arrivata un giorno con la sua risata che cominciava bassa e finiva acuta, aveva comprato una casa nella quale tutti potevano entrare e uscire, non aveva mai litigato con nessuno, non aveva mai cambiato taglio di capelli ed era morta in una vasca da bagno che tutti conoscevamo molto bene, senza mai esserci entrati, solo perché era in fondo al corridoio, all’esatto opposto della porta di ingresso. Un incidente, avvocato, un brutto incidente. La sfortuna.” – Pag. 37
Gli elementi che Lea può mettere insieme non sono nient’altro che impressioni diverse delle persone che conoscevano Vittoria. Proiezioni con direzioni precise che offrono punti di vista trasversali e fanno luce, come dei raggi, su alcuni lati di Vittoria. Se fosse una matematica e si muovesse nel continuo, Lea proverebbe ad applicare una sorta di trasformata di Radon, un’operazione ampiamente usata in tomografia (alla base, per esempio, del funzionamento della TAC) per ottenere tutti i tómos, gli strati, di Vittoria. Se invece lavorasse nel discreto, allora potremmo pensare che stia cercando di risolvere un problema di copertura, magari in termini di ottimalità: se ogni impressione raccolta offre, copre, un sottoinsieme delle caratteristiche di Vittoria, quante e quali impressioni servono, al minimo, per riuscire a coprirla, a capirla?
Ci sono delle assunzioni semplicistiche in entrambi i casi: che i nostri raggi riescano a illuminare le zone d’ombra di una persona, o che l’insieme delle caratteristiche di una persona sia finito, sia nello spazio sia nel tempo, tanto per esplicitarne due. Tuttavia noi, come Lea, non ci arrendiamo. Sia nella finzione sia soprattutto nella vita reale, vogliamo risolvere il puzzle che abbiamo davanti e ricomporre la persona oggetto del nostro studio. O forse faremmo meglio a usare, anche qui, il plurale, e includere persino noi stessi all’interno della nostra investigazione.
Spesso non ci facciamo caso, eppure tra il dire e il tacere c’è di mezzo l’imparare: ogni volta che proviamo a ricostruire quella che altro non è – e non può che essere – un’istantanea di una persona, non stiamo solo accumulando informazioni su di lei ma stiamo allo stesso tempo assemblando pezzetti di noi. In fondo, ricostruire e istruire condividono nelle loro radici il verbo struere, da cui deriva pure “struttura”. Qual è quella di Vittoria? Qual è quella di Lea? E qual è la nostra?
“C’è qualcosa in questa vicenda che non capisco.
E perché vorrebbe capire, avvocato Russo, è ancora troppo giovane per accettare che certe cose sono impossibili da capire?
È che so, avvocato Pontecorvo, di essere passata accanto a Vittoria negli ultimi venti anni e non aver visto quasi niente di lei, sento di aver perso un’occasione.” – Pag. 125
Lea apprende qualcosa su di sé, o forse “apprendere” non è etimologicamente il verbo più appropriato, perché Lea non sta ricevendo o prendendo a sé nulla. Attraverso il suo rapporto con Vittoria, Lea si educa su sé stessa, conducendo ciò che era ignoto fuori di sé. Mentre cerca di ricoprire, in realtà scopre: scopre spigoli inaspettati che rivelano nuove inesplorate facce, di sé e di Vittoria. E nonostante sia stato dimostrato che enumerare tutti i vertici di un poliedro sia un problema difficile, Lea persevera, e noi con lei. Anzi, portiamo all’eccesso quella che è una virtù e ci intestardiamo nel voler risolvere un problema che è chiaramente impossibile nella realtà: inquadrarci, descriverci, rappresentarci.
“Non mi riconoscevo più e volevo qualcuno che mi dicesse chi ero.” – Pag. 106
Perché non siamo esseri statici e deterministici: siamo caratterizzati da incertezza e dinamismo; siamo sistemi complessi che interagiscono tra di loro, spesso in maniera casuale, e seguono dinamiche che non riusciremo mai a modellare. Le intersezioni dei nostri vincoli, intra- e interpersonali, si modificano nel tempo e non ci consentono mai di listare esattamente, neanche uno per uno, i nostri poligoni. Però continuiamo a provare a ottenere approssimazioni, sia di noi stessi sia delle altre persone, semplicemente perché, come Lea, non ci piace “sentirci stupidi”, e usiamo la cultura e i suoi tomi come “strumento con cui andare da un’altra parte” (cit. Chiara Valerio).
Di nuovo struere e tómos: è tutta una questione di strati. Almeno qui, siamo in grado di chiudere il cerchio. O, come soleva dire Rossella Panarese, tout se tient.
Chi dice e chi tace
Chiara Valerio
Editore: Sellerio
Anno edizione: 2024
Pagine: 288 p.