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La pace è come l’aria, ti accorgi che esiste quando comincia a mancare. In questo periodo segnato da una guerra in corso a noi molto vicina, è con piacere che pubblichiamo un articolo di Roberto Tortora sul tema del rapporto tra matematica e pace. Il testo è stato presentato a Napoli, presso il dipartimento di Matematica “Renato Caccioppoli”, il 14 marzo scorso nell’ambito della manifestazione “Pi come pace“.

Non è facile rispondere alla domanda del titolo, se si vogliono evitare risposte scontate o retoriche. Ci proverò, cercando di sfuggire a questi pericoli, proponendo tre diverse ragioni, diverse ma collegate, per le quali la matematica può essere utile alla pace. Tre ragioni che intendono far riflettere piuttosto che autocelebrarci. Nell’ordine, la prima è quella più ovvia, palese e condivisibile, ma anche quella che offre forse meno stimoli di riflessione e di azione, le altre due sono gradualmente più sottili e opinabili, ma sono anche quelle che, se condivise, possono servire a orientare efficacemente l’attività di ricercatori, insegnanti e studenti.

1. La prima ragione è che la matematica si esprime come poche altre discipline in un linguaggio universale. Certamente la matematica condivide questa caratteristica con la musica e parzialmente con le altre scienze e le altre arti. I luoghi dove si fa matematica alta sono tipicamente frequentati da donne e uomini di ogni nazionalità e credo, uniti insieme dal piacere di un’impresa comune; e non c’è niente che possa promuovere la pace come il riconoscere negli altri esseri umani le nostre stesse emozioni e interessi, sentendosi così davvero tutti fratelli. Ma anche nei luoghi più quotidiani e vicini alla nostra esperienza, come ad esempio la scuola di ogni ordine e grado, la matematica è una materia che non conosce differenze di lingue, di colore della pelle o di tradizioni, e consente per questo di affratellare ragazze e ragazzi come poche altre materie. Penso in particolare al ruolo che la matematica può avere nelle classi multietniche che sempre più di frequente incontriamo nelle nostre scuole. Con questo primo punto si vede dunque come fare matematica a tutti i livelli sia un’attività pacifica e pacificatrice come poche altre.

2. Passando ai due punti seguenti, si vuole affermare di più: non solo il lavoro interno alla matematica è un esempio di attività pacifica, ma il pensiero matematico può contribuire alla pace anche nel mondo esterno, fuori cioè dell’attività matematica. Vediamo. La seconda ragione riguarda l’attitudine della matematica al rigore. Mi riferisco in particolare al ruolo particolare delle definizioni. A che serve definire senza margini di ambiguità in matematica le nozioni di cui ci si occupa? Serve, come ben sappiamo, a far sì che ad esse si possano applicare ragionamenti rigorosi e pervenire così a formulare affermazioni della massima affidabilità, come sono i teoremi, quelli più elementari così come quelli più riposti. Tutto questo lo sappiamo bene. Ma forse non sempre siamo capaci di trarre da ciò i vantaggi educativi che invece se ne possono ricavare. Si dice costantemente, nel senso comune così come nei documenti ufficiali, che la matematica insegna a pensare, ed anzi si vuole che questa sia la funzione principale del suo insegnamento. Ma affinché questo non sia uno slogan logoro e senza frutti, occorre ripensare in profondità a come insegniamo la matematica. Io penso che nella scuola si può lavorare moltissimo in questa direzione. E mi spiego. In primo luogo le definizioni non si dovrebbero dare a priori per poi vederne scaturire tutte le conseguenze, ma dovrebbero essere il punto di arrivo di un percorso in cui un po’ alla volta si conquistano livelli più avanzati di rigore e di sicurezza. In altre parole la matematica dovrebbe quanto più possibile essere presentata come qualcosa da costruire e conquistare piuttosto che come un edificio perfetto già bello e fatto. S’intende che questa non è affatto un’idea nuova, se è vero, per fare un solo esempio, che Giovanni Prodi intitola “Matematica come scoperta” il suo libro di testo per la scuola. Ma poi, in secondo luogo, questo atteggiamento di ricerca della precisione dovrebbe essere trasferito in tutti i campi della conoscenza. E se resta vero che la matematica è fra tutti il settore dove più avanti ci si può spingere nella ricerca del rigore, è però importante far capire agli studenti quanto sia importante in ogni campo cercare di chiarire nozioni, concetti, parole, prima di fare affermazioni su di esse. Che c’entra la pace con questo? Beh, io penso che una componente significativa dei contrasti che a tutti i livelli dividono gli esseri umani sta nella reciproca incomprensione, nel fatto che diamo significati vaghi e diversi alle stesse parole. Basta sentire uno dei tanti talk show in televisione per rendercene conto. Io penso dunque che se si trasferisse almeno in parte l’attitudine della matematica alla ricerca della precisione ad altri ambiti dell’attività umana, anche quotidiani, forse si attenuerebbero a tutti i livelli i motivi di incomprensione e di contrasto.

3. E veniamo alla terza ragione per la quale la matematica può essere utile alla pace. Qui propongo una riflessione meno ovvia e di certo anche opinabile. Vorrei richiamare uno dei concetti più pervasivi della matematica, quello di funzione. Sono secoli che questa nozione è entrata nella matematica e ne ha conquistato forse la posizione più centrale. Nell’ambito della scienza e della tecnica abbiamo imparato da tempo a pensare in termini di dipendenza di una variabile da un’altra, e abbiamo capito che il modo migliore per descrivere l’esistente è appunto quello che ci è consentito dall’idea di funzione. Non penso qui alla funzione nel senso più astratto e moderno di insieme di coppie, ma a quella più di base e più familiare di “funzione reale di variabile reale”, specialmente se continua o quasi ovunque continua, insomma quella che tipicamente si visualizza con i grafici, come ce ne sono tanti. Bene, che cosa ha di speciale questa nozione? Secondo me, da un punto di vista cognitivo generale, pensare in termini di funzioni significa riconoscere che nel mondo non ci sono oggetti e qualità singoli e distaccati, ma piuttosto legami fra cose diverse che variano insieme. A ben rifletterci, si tratta di privilegiare il punto di vista di Eraclito (tutto cambia) rispetto a quello di Parmenide (la fissità dell’essere).

Bene, e allora? Ecco, quello che io voglio sostenere qui è che, se è vero che in ambito tecnico la nozione di funzione ci è familiare, nella nostra vita quotidiana ciò non è per nulla vero. Il problema non è affatto da poco ed ha anzi radici molto profonde. Noi siamo abituati nella nostra quotidianità ad esprimere in continuazione giudizi netti su fatti singoli, altro che mettere in relazione cose variabili. Diciamo per esempio che un vaccino è efficace oppure che non lo è, diciamo che una scelta politica è giusta oppure è sbagliata, e così via. Il fatto è che il nostro linguaggio si è costituito nella sua struttura di base in tempi molto lontani e si articola tipicamente in affermazioni singole, nelle quali compare un soggetto di cui si predica una certa qualità. Facciamo fatica con la nostra struttura linguistica a pensare in modo diverso. Sto dicendo che la nozione di funzione ha sì modificato il modo di pensare al mondo in ambito scientifico, ma non ha scalfito il nostro modo di esprimerci e dunque di pensare nei nostri discorsi quotidiani, anche ad alti livelli. Ci riesce così molto difficile pensare che non esistono “cose belle o brutte, buone o cattive, utili o inutili, eccetera”, ma piuttosto sempre delle continue graduazioni di ciascuna di queste qualità. E siccome invece abbiamo a disposizione nella nostra lingua strumenti per esprimere tipicamente giudizi secchi, siamo costretti a vedere e giudicare le cose in modo che poi inevitabilmente ci dividiamo su di esse. Sappiamo certo che i giudizi che esprimiamo sono relativi, ma relativi significa solo che qualcuno pensa che una cosa è buona e qualche altro che la stessa cosa è cattiva. Un’idea azzardata? Forse. Ma se non la si ritiene del tutto infondata, allora ci si rende conto che si può aprire nella scuola uno spazio enorme di intervento. Si potrebbe cercare infatti, dentro la matematica, di acquisire presto e bene l’idea di legame tra variabili che è contenuta nella nozione di funzione, ma poi, subito dopo, contrastando tenacemente la tentazione di chiudersi dentro la matematica, sforzarsi di trasferire all’esterno, in tutti i campi della nostra esperienza, questa visione dinamica del mondo.

4. Un’ultima osservazione. Mettendo insieme le considerazioni dei punti secondo e terzo, ne viene fuori un’idea della matematica credo assai poco comune, come quella disciplina che contiene al suo interno due istanze apparentemente contraddittorie ma in realtà complementari: da un lato l’esigenza del rigore e dall’altro la capacità di concepire come fondante la variazione e dunque il mutamento. Trasferire questa concezione della matematica nel mondo esterno, dovrebbe dunque servire da un lato ad abituarci al rigore nel dare significato alle parole, un rigore certo non definitivo ma in costante costruzione; dall’altro a considerare che le cose variano in continuazione e sono tutte interdipendenti, e spingerci così verso giudizi mai schematici e trancianti ma attenti appunto alle variazioni. Acquisendo questa idea forse potremmo contribuire sia ad attenuare i contrasti sia nello stesso tempo a sconfiggere o mitigare concezioni nette e rigide, giudizi e pregiudizi che dividono gli uomini gli uni dagli altri. Se a scuola si insegnasse davvero come la matematica può entrare nella vita di tutti i giorni e nel nostro modo di ragionare quotidiano, sarebbe molto più difficile per gli esseri umani arrivare a litigare e a scontrarsi.

Roberto Tortora

Immagine di copertina: Peace-wise. Immagine presa dal sito Mathplane.com

 

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