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Qualche giorno fa abbiamo pubblicato un articolo di Daniele Gouthier contenente alcune riflessioni sulla comunicazione della matematica e il suo rapporto con la società. A questo sono seguiti gli interventi di Nicola Ciccoli, Domingo Paola e Marco Menale. Adesso interviene nel dibattito Simone Ramello, dottorando all’ultimo anno presso l’Università di Münster, che fornisce la “prospettiva dall’estero”.

Mi permetto di inserirmi in questo dibattito, che già ha avuto molti interventi stimolanti ed interessanti, portando la prospettiva dell’attività di comunicatore-ricercatore all’estero. Va fatta la debita premessa: l’estero non è un’unica nazione, dunque mi preme specificare che la mia esperienza è limitata al mondo accademico tedesco.

Non credo sia un mistero che la Germania abbia un approccio decisamente diverso al supporto e finanziamento della ricerca scientifica rispetto all’Italia. Questo si manifesta in tanti modi e sotto tanti punti di vista (uno su tutti, il riconoscimento sociale per il titolo di PhD, per quanto spesso si trabocchi nella venerazione e nel classismo), ma soprattutto sotto il punto di vista forse più importante: i soldi. E questo si propaga oltre l’attività di ricerca pura e semplice, fino alle attività “parascientifiche” come quella della comunicazione e della divulgazione.

Ho vissuto l’esperienza di un dipartimento, quello dell’Università di Münster, che ha ricevuto dal governo federale un finanziamento piuttosto ingente in quanto “Cluster of Excellence”. Questo si è tradotto in soldi per posizioni, per viaggiare, per organizzare conferenze, in generale in un ambiente molto dinamico e stimolante — ma anche in soldi per assumere figure professionali parascientifiche di vario genere, dal supporto per dottorande e dottorandi alle attività di comunicazione scientifica. Per esempio, mi è stata data l’opportunità di avere una posizione part-time per produrre un podcast di interviste a ricercatrici e ricercatori del dipartimento, un’attività che altrove sarebbe stata puro volontariato. La tesi è che per favorire la produzione di ricerca eccellente valga la pena finanziare tutto un sistema di supporto e collegamento che sia a sua volta eccellente. Inclusa la comunicazione scientifica, che viene vista come un’attività professionale da remunerare e non come un hobby da fare pro bono.

Io credo, e dubito che sia un pensiero controverso, che un dipartimento di matematica debba essere non solo la casa per la ricerca e per la didattica, ma un centro culturale tout-court. Questo significa che deve, e mi preme sottolineare come questo sia un dovere, mantenere allacciati i rapporti con il tessuto culturale e sociale in cui si inserisce, costruendo ponti e offrendo occasioni per distribuire la conoscenza che vi viene prodotta. Per fare questo, sono necessarie figure professionali adatte: un fatto che, nell’esperienza limitata dei dipartimenti di matematica tedeschi che ho avuto, è stato recepito, ma che in Italia mi sembra sia ancora lungi dall’essere messo in pratica. (Foss’anche per la differenza abissale nei finanziamenti pubblici ai dipartimenti nelle due nazioni — in altre parole, forse questo è un sintomo di un problema che va ben oltre la comunicazione scientifica).

Come sottolineato da Marco Menale, spesso l’attività di comunicazione è vista come una “perdita di tempo”: il fine ultimo (o forse, lo spirito di sopravvivenza) è fare carriera, e seppure un po’ di esperienza nella comunicazione possa aiutare il curriculum, non è di certo dirimente nelle commissioni d’assunzione. Questo è inevitabile anche perché mancano, nella pratica, posizioni che permettano di coniugare le attività di ricerca e di comunicazione senza che quest’ultima sia trattata alla stregua di un hobby da portare avanti fra le lezioni e i paper.

Credo sia importante evitare la solita trappola di trattare le questioni di soldi come venali, cafone, tabù; si può discutere per ore sui cambiamenti sociali e culturali necessari per valorizzare le attività di comunicazione, sulla formazione, e via dicendo. Ma senza soldi, finanziamenti e strutture di supporto non si va da nessuna parte. Una lezione che, nel settore culturale in generale, mi sembra che l’Italia non abbia ancora imparato.

 

Simone Ramello

 

 

Marco Menale

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