Riprendiamo la discussione sul cambiamento dell’insegnamento della matematica nella scuola proponendovi alcune riflessioni e tre proposte di Giovanni Righini, professore ordinario di Ricerca Operativa presso l’Università degli Studi di Milano, da sempre attivo anche nell’ambito della didattica della matematica.
Già lo scorso autunno il ministro prof. Valditara ha annunciato di voler “riformare l’insegnamento delle discipline STEM, che ci vede purtroppo oggi molto indietro rispetto ad altri paesi europei”. A commento delle parole del ministro ho apprezzato l’ottimo articolo dei colleghi Di Martino e Natalini qui su MaddMaths! e altri interventi autorevoli in materia. Dichiarazioni analoghe da parte del ministro Valditara sono state enunciate anche in occasioni più recenti, come il convegno organizzato lo scorso marzo dalla Fondazione “I Lincei per la Scuola” e quello organizzato lo scorso maggio dal Ministero dell’Istruzione e del Merito sul progetto “Problem Posing & Solving”.
Mi permetto qui di seguito di suggerire qualche ulteriore spunto e in particolare tre proposte di cambiamento, motivate da una certa esperienza in attività formative rivolte a insegnanti e studenti delle scuole secondarie superiori.
Proposta n.1: insegnare dal particolare al generale
La ricetta sintetizzata dal ministro è “partire dalla realtà per arrivare alle astrazioni”. Concordo pienamente con questo ribaltamento di prospettiva rispetto all’impostazione assiomatica che ancora caratterizza in larga misura l’insegnamento della matematica nel nostro sistema scolastico. Ritengo che l’impostazione assiomatica dell’insegnamento sia perfettamente appropriata nello studio universitario, rivolto a chi ha scelto di fare della matematica il fondamento della propria cultura, ma meno appropriata per l’insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado, dove la matematica deve essere insegnata in tutti i tipi di scuole (anche a indirizzo umanistico) in modo utile e interessante per tutti, pure per chi non è particolarmente versato per la materia né studierà discipline STEM all’università.
Il ministro ha affermato che “la nostra formazione, rispetto alla Svizzera o alla Germania, è ancora troppo astratta e poco concreta”, ma immagino che in quel passaggio si riferisse alla formazione professionale. Per quanto riguarda invece l’insegnamento della matematica nei licei, molte delle difficoltà di apprendimento mi sembra siano spesso causate, o per lo meno accentuate, non tanto da un eccessivo livello di astrazione (che dire allora dello studio della filosofia?), quanto piuttosto da una grave mancanza di motivazione. La domanda tipica di molti studenti di fronte alla matematica è “Perché devo studiare queste cose?”. Questo ostacolo si può affrontare presentando i concetti matematici come strumenti utili per risolvere problemi (rilevanti), che altrimenti non si saprebbe come affrontare se non “a occhio e croce” o “per tentativi”. Se è arduo (anche in un liceo scientifico) far appassionare gli studenti alle formule di prostaferesi, non è affatto difficile (anche in un liceo artistico o linguistico) far cogliere il valore del metodo scientifico applicato alla risoluzione di problemi decisionali. A qualcuno piacerebbe essere curato da un medico che procedesse “a occhio e croce” o “per tentativi”? O che il suo denaro venisse investito “a occhio e croce” o “per tentativi”?
In effetti, la matematica, anche nelle sue diramazioni più astratte, si è storicamente sviluppata a partire da necessità concrete, quasi sempre connesse a problemi decisionali, anche quando poi si è sviluppata verso generalizzazioni teoriche concettualmente interessanti di per sé (ma solo per alcuni che le sanno apprezzare, non per tutti) e slegate dalle applicazioni. Nell’azione didattica a livello scolastico, non universitario, assumere un punto di vista meno assiomatico e più aderente alla realtà storica non significherebbe insegnare meno concetti matematici: anzi, di più! Nemmeno significherebbe essere meno rigorosi e neppure sostituire le conoscenze con le abilità (confondendo la formazione culturale con la formazione professionale) né sostituire i “segmenti” coi “bastoncini” (secondo lo stile in voga in taluni paesi stranieri). Significherebbe invece fare leva su due forze importanti per l’apprendimento: una è la capacità di generalizzare e l’altra è – appunto – la motivazione a risolvere problemi rilevanti.
Proposta n.2: i modelli come concetto unificante
Una seconda tipica causa di difficoltà di apprendimento in matematica mi pare sia la frammentazione dei contenuti, figlia – è lecito supporre – della definizione dei diversi settori scientifico-disciplinari in cui si articola ancora l’area delle scienze matematiche. Anche nelle ultime linee-guida ministeriali, risalenti a circa dieci anni fa, resta la divisione dei contenuti matematici in “capitoli” distinti: “Aritmetica e algebra”, “Geometria”, “Relazioni e funzioni”, “Dati e previsioni” (vedasi qui, per esempio, le indicazioni per i licei). Noto en passant che la dicitura “Numeri e algoritmi”, proposta dall’UMI già anni prima della riforma, non compare. Ma ancora più grave della negligenza relativa agli algoritmi è la scarsa enfasi sui modelli. I modelli matematici sono l’elemento unificante di tutti i “silos” in cui viene frammentata la matematica e contemporaneamente sono l’anello di congiunzione tra la teoria e le applicazioni. Nel modello matematico di un sistema o di un problema entrano in gioco contemporaneamente numeri, insiemi, funzioni, sistemi di equazioni e disequazioni, relazioni logiche, enti geometrici, vettori e matrici, probabilità e distribuzioni, …
È pur vero che a livello di ricerca scientifica le diverse branche della matematica hanno raggiunto un livello di specializzazione altissimo e sempre crescente, per cui ormai ciascuna tende a “vivere di vita propria”. Tuttavia, nell’insegnamento la frammentazione della matematica porta con sé aspetti decisamente negativi. Adottare uno stile didattico modellistico significa presentare la matematica anche come un linguaggio (straordinariamente efficace) per descrivere sistemi e problemi. Come in un linguaggio non si studiano separatamente – se non all’inizio – i nomi, i verbi e gli avverbi, ma si studia piuttosto come utilizzarli tutti per formare frasi, testi e poesie, così dovrebbe accadere anche con la matematica.
Mi permetto di insistere sul fatto che i modelli matematici rappresentino sistemi e problemi, non sistemi soltanto. Il termine “modello matematico” ricorre già, anche se raramente, nelle linee-guida ministeriali per la matematica, ma sempre in relazione a modelli di sistemi fisici, naturali o artificiali. Scarseggia o talora manca del tutto il concetto di modello matematico dei problemi decisionali o di ottimizzazione. Persino i concetti di base di ottimizzazione matematica, soprattutto nel discreto, non sono nemmeno menzionati, così come non sono menzionati strumenti concettuali fondamentali come i grafi.
Ritengo invece molto importante e molto formativo che gli alunni siano esposti a tutti i tipi di modelli matematici: non solo quelli descrittivi, tipici della fisica e della statistica, ma anche quelli prescrittivi, con un obiettivo che si vuole ottimizzare, tipici della ricerca operativa; non solo quelli con grandezze continue, ma anche quelli con grandezze discrete (e in particolare variabili binarie); non solo quelli descritti da equazioni, ma anche da disequazioni; non solo quelli con una soluzione unica, ma anche quelli con molte (o infinite) soluzioni.
Proposta n.3: noi umani sappiamo fare modelli e algoritmi, i calcolatori sanno fare i calcoli
Una delle eredità culturali più importanti del XX secolo è stato lo sviluppo della matematica computazionale, che ha allargato molto i confini della matematica. Questo allargamento ha portato con sé nuovi concetti matematici come, per esempio, quello di complessità computazionale, e un cambio di paradigma che dovrebbe riflettersi oggi anche nell’insegnamento scolastico della matematica.
Aperta parentesi. Siccome si tratta di un allargamento, e non di una sostituzione, sarebbe bene questo fosse accompagnato da un aumento del monte-ore dedicato alla matematica, anche a scapito del livello di approfondimento di materie forse un po’ meno fondamentali nella formazione della cultura dei giovani del nostro secolo. Sui contenuti bisogna saper fare delle scelte e anche delle rinunce. Chiusa parentesi.
A mio modo di vedere, sarebbe interessante provare a sostituire tutto ciò che è meccanico, noioso, ripetitivo e procedurale nella didattica della matematica con lo studio del corrispondente algoritmo. Noi umani siamo bravi nell’inventare gli algoritmi, non nell’eseguirli; per eseguirli abbiamo inventato i calcolatori. Tra l’altro gli algoritmi sono indispensabili in molti casi, perché non tutti i problemi in matematica si risolvono applicando una formula e facendo qualche calcolo, come accade nella risoluzione degli esercizi scolastici. Presentare solo esercizi deliberatamente inventati per essere risolti in modo esatto con apposite formule significa adattare la realtà alla matematica. Sarebbe anche più onesto intellettualmente, oltre che più utile didatticamente, mostrare come la matematica è in grado di adattarsi alla realtà, includendo nell’insegnamento la trattazione di problemi che non si risolvono in forma chiusa o in modo esatto ma richiedono un algoritmo, eventualmente di approssimazione.
Non sarebbe una resa della matematica né uno scadimento: infatti, anche gli algoritmi sono concetti matematici con proprietà matematicamente dimostrabili. Oggi molti alunni (e forse non solo loro) hanno un’idea un po’ distorta dell’informatica: la vedono come information technology, dispensatrice di dispositivi elettronici con cui comunicare o fruire di contenuti multimediali, ma ben poco come computer science, cioè scienza del calcolo automatico. Non la concepiscono come una branca della matematica (e purtroppo sono in buona compagnia di numerosi accademici sia matematici che informatici), benché i padri fondatori dell’informatica, non a caso, fossero tutti matematici.
Lo sviluppo del “pensiero computazionale” o algoritmico è un compito formativo importante dell’insegnante di matematica e richiederebbe la costruzione (o ricostruzione) di un “ponte” interdisciplinare un po’ più forte tra matematica e informatica.
In conclusione
Può darsi che queste tre proposte suonino un po’ eretiche, però le vorrei condividere con voi lettori di MaddMaths! per il semplice fatto che le ho già sperimentate tutte e tre (anche se solo “in vitro” e su scala ridotta) soprattutto grazie ad attività di orientamento, da cui ho sempre ricevuto riscontri estremamente positivi. Peraltro, diversi altri colleghi in varie università italiane hanno attivato con successo iniziative analoghe, sia verso gli alunni che verso gli insegnanti. L’Associazione Italiana di Ricerca Operativa ha recentemente costituito al proprio interno un’apposita sezione tematica, OPSTeaM, che raccoglie, promuove e coordina esperienze didattiche con le caratteristiche di cui sopra, da Napoli a Verona, da Brescia a Roma, da Catania a Genova (due esempi recenti sono i progetti ROAR e OPS4Math).
Inoltre, il 9 giugno scorso presso l’Università di Milano si è svolta la prima Summer International Conference della Decision Science Alliance, un’organizzazione no profit promossa da manager, imprenditori, accademici e professionisti supportati da aziende, università, centri di ricerca e pubbliche amministrazioni, tutti interessati allo sviluppo della scienza delle decisioni in ambito anche economico, sociale e ambientale. Nel corso dell’evento è emerso chiaramente il tema della necessità di attivare – sia a livello scolastico sia universitario – percorsi di studio innovativi e interdisciplinari rispetto alle obsolete e discutibili tassonomie tuttora in vigore, per sviluppare una forma mentis modellistica prima ancora che computazionale. È la modellizzazione la competenza che ci consente di identificare e descrivere, ovvero di comprendere e rappresentare, in un linguaggio che un calcolatore è in grado di capire, le caratteristiche dei problemi che vogliamo affrontare e risolvere.
Infine, vale la pena notare anche che il tema sollevato dal ministro Valditara non riguarda solo programmi e linee-guida, ma coinvolge pesantemente la formazione dei docenti e quindi il sistema universitario. La stragrande maggioranza degli insegnanti di matematica neo-laureati, che ancora oggi esordiscono nelle aule delle scuole italiane senza sapere cosa sia la programmazione lineare o come si calcoli il flusso massimo su un grafo, proviene dai corsi di studio in matematica delle università italiane, dove forse c’è qualche passo avanti da compiere.
Giovanni Righini,
Università degli Studi di Milano
Aggiungo al mio precedente commento altre considerazioni anche se possono sembrare fuori tema.
Per esperienza so che ogni volta che qualcuno propone qualcosa di nuovo, sia sul piano metodologico sia su quello dei contenuti, la risposta della maggioranza dei docenti è sempre la stessa: non c’è tempo a causa delle sempre più numerose interruzioni (corsi PCTO che si tengono di mattina, viaggi di istruzione, convegni, uscite mattutine, per le quinte anche i “100 giorni” che talvolta durano 2 o 3 giorni, ecc.).
Per questo invito i colleghi a leggere queste poche righe tratte dall’articolo già citato di Bruno de Finetti
“… Ho anche sentito insegnanti (nei corsi di aggiornamento) lamentarsi del poco tempo a disposizione per «svolgere il programma» dato che se ne va quasi tutto per interrogazioni, ed un collega ispettore affannarsi (temo con poco successo, data l’apparente incredulità e perplessità dell’uditorio) a spiegare come si possa formarsi un giudizio con frequenti domande estemporanee rivolte qua e là nel corso delle lezioni, limitando al massimo il numero e la durata delle interrogazioni recitatorie. …”
Sorprende che siano state scritte nel 1965!
Io applico questa modalità di valutazione (aiutandomi con una chek list) ormai da anni. Mi permette di guadagnare molto tempo e, se da una parte “costringe” gli studenti ad essere sempre aggiornati sugli ultimi argomenti (ottima cosa dal punto di vista dell’insegnante), dall’altra riduce notevolmente lo “stress” da interrogazione (ottima cosa dal punto di vista dello studente).
Alla lunga sono loro stessi a capirne i vantaggi. I miei studenti sanno che se un giorno non sono stati particolarmente brillanti potranno rimediare i giorni successivi. La misura finale, che vale come valutazione orale che si aggiunge a quelle scritte, verrà dall’osservazione dello studente in un periodo più o meno lungo e non concentrata in 20 minuti.
Il tempo che si guadagna può essere usato per sperimentare nuovi metodi e nuovi argomenti, perché il lavoro dell’insegnante è continua ricerca.
Sono d’accordo su tutte e tre le proposte. Anche io ho cercato di metterle in pratica.
Ma sono sempre più convinta che sia necessario e urgente coinvolgere gli autori dei testi più diffusi in Italia in questo cambiamento dell’insegnamento della matematica. Articoli, convegni o altro vengono letti/frequentati da una piccola parte di docenti, spesso sempre gli stessi.
Mi sono sempre chiesta ad esempio come fu che, credo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, sparì dalla programmazione dei licei scientifici il “famigerato” metodo di Tartinville, famigerato perché da metodo si era trasformato in schema da applicare meccanicamente, chi ha fatto il liceo negli anni settanta come me se lo ricorda bene.
Già nel 1965 Bruno de Finetti aveva pubblicato l’articolo “Come liberare l’Italia dal morbo della Trinomite?” ma nonostante l’autorevolezza dell’autore ci volle più di un ventennio per vedere realizzato questo cambiamento. Credo, anche se non ne sono sicura, che gli insegnanti abbiano smesso di trattare l’argomento quando non lo hanno più trovato nei libri di testo.
Io da anni non tratto i fasci di rette e di parabole, almeno non come vengono trattati nei libri di testo, né disequazioni goniometriche fratte o sistemi di disequazioni goniometriche (tra l’altro mai presenti nelle prove di esame) così come evito esercizi algebrici troppo “calcolosi”. Ma so per certo che molti colleghi li trattano perché “sul libro ci sono!”.
Sono convinta che, se vogliamo il cambiamento auspicato dal ministro Valditara, dobbiamo fare “pressione” sugli autori e sugli editori dei testi più diffusi affinché facciano scelte più coraggiose per indirizzare in particolare gli insegnanti più giovani. Finora questi autori si sono limitati ad aggiungere ma non hanno mai o quasi mai avuto il coraggio di togliere. E’ venuta l’ora di alleggerire i testi.
Tutto da condividere, ma se poi all’esame di maturità bisogna risolvere quegli esercizi così “noiosi e ripetitivi”, allora anche qui il passo in avanti andrebbe fatto.