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Tre vecchi amici si ritrovano dopo molto tempo, e decidono di pranzare insieme. Si fermano in una modesta trattoria di campagna, gestita da un vecchio contadino e un giovanissimo cameriere. Il pranzo procede serenamente, i piatti non sono certo da ristoranti stellati ma più che passabili e soprattutto abbondanti; il rosso della casa è fresco al punto giusto, e quando alla fine il cameriere porta il conto – appena 30 euro in tutto – i tre pagano assai volentieri tirando fuori una banconota da dieci euro a testa. Mentre si avviano lentamente verso le macchine, il ristoratore chiama il cameriere. C’è stato un errore, gli spiega, 30 euro sono troppi, il conto giusto era di soli 25 euro. Mette in mano al ragazzo cinque euro e lo incarica di portarli di corsa ai tre clienti. Questi si stupiscono, per quanto lieti della riduzione della spesa: si intascano innanzitutto un euro a testa, poi si inteneriscono un po’ nel vedere il ragazzo che, oltre a servirli dignitosamente, si è pure fatto una corsa a perdifiato per portargli i soldi pagati in eccesso: basta un triplice sguardo d’intesa, e lasciano i due ultimi euro come mancia al sudato cameriere. Sono insomma tutti contenti: ristoratore, clienti e cameriere: solo quest’ultimo è appena un po’ corrucciato, perché non riesce a far tornare i conti: “i tre clienti hanno pagato, alla fin fine, nove euro a testa” pensa fra sé e sé, “io ne ho intascati due di mancia; 3×9 fa 27, e 27+2 fa 29: dove diavolo è andato a finire il trentesimo euro?”

A quanto ne sappiamo, questo indovinello fa parte proprio di una sorta di tradizione popolare, anche perché almeno uno degli autori di quest’articolo ha avuto l’infanzia e buona parte dell’adolescenza tormentate da questo problema che anche molti adulti giudicavano semplicemente “irrisolvibile”. Quei molti, in un certo senso, avevano ragione: la domanda finale che si fa il protagonista della storiella non ha soluzione, per il semplice fatto che la domanda (e il ragionamento che la genera) è del tutto inconsistente: pensateci un secondo, se non lo conoscete già, prima di aprire la risposta qui sotto.

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I due euro di mancia che il cameriere incassa fanno già parte dei 27 che i tre clienti hanno pagato; quindi, che senso ha sommarli nuovamente per raggiungere il misteriosissimo e fantasiosissimo totale di 29? Il povero cameriere finisce col farci la figura dell’ingenuo, ma lo sconosciuto autore del quesito è tutt’altro che ingenuo: è un ingannatore. L’inganno è molto frequente negli indovinelli, spesso anche in quelli che, a prima vista, sembrano semplici domande aritmetiche. Esistono migliaia di giochini basati su giochi di parole o ambivalenze di significato (“Su un ramo ci sono 17 uccelli: un cacciatore spara e ne uccide 5: quanti ne restano?” – “Beh… 12, no?” – “Ah, che scemo! Non ne resta nessuno, i sopravvissuti, volano via!”), e la prima regola del solutore dovrebbe essere sempre quella di chiedersi se si può prestar fede all’esposizione e a chi presenta il problema. Durante l’orazione funebre di Cesare, Marco Antonio ripete ossessivamente “Bruto è uomo d’onore” proprio per insinuare il dubbio che invece non lo sia affatto, e sollecita l’uditorio a dubitare di lui. Certo, a un certo punto occorre per forza concedere alle parole di qualcuno la propria fiducia, se si vuole risolvere il problema e continuare a giocare, ma una rapida e preliminare disamina del contesto prima di mettere al lavoro le meningi è cosa buona e giusta. E senza dimenticare che gli inganni possono avere diversi livelli: alla fin fine, non è affatto detto che Marco Antonio sia più degno di rispetto di quanto lo sia Bruto o lo stesso defunto Cesare.

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