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Traduttore, saggista e editor italiano, attivo in campo fumettistico per la Panini Comics, noto soprattutto per la sua consulenza per le opere di Leo Ortolani, Andrea Plazzi ha 48 anni ed è laureato in matematica, anche se lavora nel campo dei fumetti da quando aveva 15 anni. A cosa gli è servito studiare matematica? A imparare a concentrarsi.

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Come ti è venuto in mente di iscriverti alla facoltà di matematica?

Mi è sempre piaciuta, fin dalle elementari e al liceo era la materia preferita insieme a Francese e Filosofia. Inoltre, anche se grossi dubbi non li ho mai avuti, al momento di iscrivermi all’università a farmi decidere definitivamente è stata l’idea che non avevo alcuna voglia di perdere tempo a studiare esami interminabili a memoria (mi giungevano notizie terrificanti di spauracchi come Diritto Privato a Giurisprudenza, Anatomia a Medicina, etc.) e che solo la matematica mi avrebbe permesso di farlo: un’idea un po’ ingenua e semplificata dello studio ma sostanzialmente lo penso ancora.

Quale materia ti piaceva di più?

Decisamente Analisi e Analisi Numerica, insegnamento nel quale ho dato la tesi. Poi geometria differenziale e analisi complessa, che avrei voluto molto approfondire e mi sono poi servite nel lavoro.

Dopo la laurea hai avuto altre esperienze in campo strettamente matematico?

Ho avuto una borsa di studio al CINECA di Bologna, il centro interuniversitario di calcolo e servizi informatici. Era un progetto di ricostruzione di strutture biologiche a partire da dati empirici, nell’ambito di un programma più vasto di quello che forse oggi si chiamerebbe “imaging diagnostico”. Prima e dopo ho sviluppato il motore geometrico di un sistema italiano 3D orientato al CAM: è stato necessario tutto quello che sapevo (e molto ho dovuto imparare), anche perché dovevo fare tutto, dallo studio della funzionalità da implementare (che so, calcolo di proprietà locali di superfici parametriche, come le varie curvature) all’implementazione software. C’era anche da tenere il passo con un progetto di collaborazione che intanto si era avviato col politecnico di Budapest, dove tutti i colleghi erano di alto livello, persone davvero preparatissime. Là – questa è la parte leggendaria – mi hanno presentato Rubik. Proprio quello. Dopo qualche anno in giro, da bravo italiano sono tornato a casa, sviluppando software per applicazioni industriali (dove un po’ di matematica c’è sempre, in assetto variabile, diciamo; per esempio nel firmware di controllo di una pompa di ausilio alla funzione respiratoria nei soggetti non autosufficienti). In tutto, circa 7 anni prima di passare all’editoria a tempo pieno.

Come hai cominciato a occuparti di fumetti in modo professionale?

Negli anni Ottanta durante gli ultimi anni d’Università, tornarono a essere pubblicati in Italia i supereroi Marvel, di cui sono sempre stato un grande appassionato sin dai tempi della Corno. Mi chiesero di fare delle traduzioni, cosa che mi è sempre piaciuta. Dal punto di vista del normale traduttore letterario, il fumetto Marvel è un oggetto quasi esoterico, perché a parte le difficoltà specificamente linguistiche dipende in maniera cruciale da un numero abnorme di nomi, fatti e relazioni tra i personaggi (la “continuity Marvel”) che vanno conosciute e rispettate e in cui semplicemente non si entra da un giorno all’altro. Per esempio, tormentoni e frasi-chiave hanno spesso traduzioni anche infedeli ma ormai passate nell’uso e note ai lettori, da usare obbligatoriamente (“It’s clobberin’ time!” diventa “è tempo di distruzione!” e non “è tempo di botte da orbi!” e così via; gli esempi sono centinaia). Per questo motivo, da molti anni i curatori di questi fumetti ne sono stati prima semplici lettori.

Come hai conosciuto Leo Ortolani?

Circa 20 anni fa cominciò a pubblicare storielle graficamente impresentabili e narrativamente perfette: delle macchine comiche dall’umorismo micidiale, e divenne abbastanza noto quasi subito tra appassionati nel giro delle fanzine (allora esistevano ed erano cartacee)

Sei un grande fan di Leo, o ti paga bene per sembrarlo?

In editoria è impossibile farsi corrompere (nulla è pagato bene) e vige la più francescana buona fede (se qualcuno non lo è perché così ci si guadagna, mi contatti immediatamente): Leo mi piace moltissimo da sempre e seguirne l’evoluzione negli anni è uno dei miei grandi piaceri. E oggi è anche un ottimo, davvero ottimo disegnatore che realizza le sue brillanti ed efficacissime intuizioni grafiche (i “musi di scimmia”, gli “occhi pallati”, etc.) con una buona tecnica.

Secondo te Rat-Man è il miglior fumetto comico italiano di sempre? E Jacovitti?

Non amo né classifiche né dichiarazioni “assolute” e per me questi confronti non hanno senso. Sicuramente – è un’opinione personale – Leo è già entrato nella storia del fumetto italiano e questo mi sembra straordinario se pensiamo che – anagrafe alla mano e mano protesa in un istintivo gesto di scongiuro e di attaccamento alla vita – potrebbe non essere neppure a metà della sua carriera. Jacovitti è al di là di qualsiasi classificazione, una singolarità ineliminabile (restando in tema matematica…) nella storia del fumetto, senza precedenti o eredi, né paragoni. Un po’ come Magnus.

Come sta il fumetto italiano in generale? Quale sono le eccellenze degli ultimi anni?

Vanno cercate spigolando tra i tanti volumi che escono in libreria, spesso con tirature minime e quasi invisibili, unico fatto editorialmente nuovo e positivo degli ultimi anni (gli editori che ne vendono pochissime copie e che nonostante tutto insistono nel pubblicarli potrebbero non essere d’accordo). Non vedo grandi novità nel fumetto ufficiale, quello che ancora riesce ad arrivare al grande pubblico: Disney e Bonelli sono una certezza, e non credo che possiamo aspettarci scherzi o sorprese. Personalmente – ma i nomi sono tantissimi – mi piace molto Davide Pascutti, un giovane-non-più-ragazzino (o se volete un non-proprio-professionista-non-più-esordiente). E’ pieno di idee e il suo libro su Coppi per Becco Giallo è uno dei più ingiustamente sottovalutati e meno recensiti, rispetto al valore e all’interesse.

rm48_2Che effetto fa essere un famoso personaggio dei fumetti (L’ubiquo sovrintendente Plazzus, Mr. P, etc?

Io che c’entro? E’ Leo l’autore. Ed è così bravo che certi suoi personaggi come quelli che citi restano impressi nella memoria dei lettori anche se in realtà appaiono di rado (una manciata di volte in quasi 15 anni; vero che sembra di più? Magia di Leo).

Hai un blog abbastanza nutrito, in cui ti occupi di fumetti, ma anche di scienza. Cosa accomuna queste passioni?
Forse solo io. Ma in realtà c’è un legame che faccio sempre fatica a mettere a fuoco e a descrivere, quando mi viene chiesto, tra il modo in cui lavoravo e ragionavo quando mi occupavo di matematica (“facevo matematica” è davvero eccessivo; non è da tutti poterlo dire, nel senso più pieno e originale, almeno) e il mio modo di impostare un progetto editoriale, o di concentrarmi durante una traduzione.

Non saprei spiegarmi meglio: ha a che fare con la forma mentale con cui svolgevo e svolgo attività anche molto diverse ma che in me inducono stati mentali analoghi.

Rimpiangi di aver ‘perso tempo’ a studiare matematica? Quali sono i migliori fumetti in cui ci sono riferimenti alla matematica?

Ovviamente no, sono felice di avere studiato matematica, che è stata parte importante del mio lavoro per diversi anni e che mi ha lasciato gli strumenti per continuare a capirne una piccola parte e, volendo e trovando il tempo, di ampliare le mie conoscenze. I due “fumetti matematici” recenti (dicitura assolutamente impropria) più notevoli sono sicuramente GOTTINGA e LOGICOMIX: storie diversissime che, senza alcuna tentazione o cedimento didascalico, raccontano vicende, fatti e persone inserendo suggestioni logico-matematiche sofisticate ma riuscendo a restare leggibili a qualsiasi lettore (interessato).

Recentemente hai parlato nel tuo blog di David Foster Wallace. Come mai? Cosa ti colpisce di lui? Quali sono i tuoi scrittori preferiti?

Di DFW è nota la fascinazione per la matematica, la preparazione non comune e tutt’altro che ingenua in una persona di formazione filosofica (non riesco a immaginare niente del genere in Italia: credo che una simile figura da noi semplicemente non potrebbe esserci, o formarsi).La sua prosa è lucida e precisa restando appassionata e mai arida. Trovo che in lui il ragionamento e l’argomentazione logica non siano vezzi intellettuali ma strumenti al servizio di una tensione etica costante e sempre presente, una specie di “poetica della necessità di essere” (o dell’impossibilità di essere altrimenti) che, per esempio, il suo saggio QUESTA E’ L’ACQUA esprime al massimo grado. Leggerlo in originale è affascinante, perché DFW usa un inglese elegante ma non particolarmente difficile, riuscendo a essere estremamente espressivo. Per il resto, in prosa leggo quasi solo saggistica e (troppo) poca narrativa per avere dei veri e propri gusti, almeno nella fiction. Ultimamente ho riletto quasi tutto Primo Levi. E tra gli italiani, ripensandoci, mi piacciono Paolo Nori e Emidio Clementi, entrambi assai poco tipici.
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