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Chiara de Fabritiis, coordinatrice del comitato pari opportunità  dell’UMI, intervista il dottor  Roberto Ricci, statistico bolognese e presidente dell’INVALSI, che ci parla delle differenze di genere, soprattutto in ambito STEM. Di particolare interesse il fatto che le ragazze nelle prove INVALSI ottengono risultati peggiori, ma a scuola hanno voti migliori, una questione su cui vale la pena di interrogarsi.

Cosa ci dicono i dati INVALSI a proposito della differenza di genere, soprattutto in ambito STEM?

I dati confermano quanto emerge nella ricerca internazionale: le ragazze hanno risultati migliori dei ragazzi nella comprensione della lingua scritta e peggiori nelle materie scientifiche “dure”; il che desta sempre un po’ di stupore perché il tema della comprensione della lingua scritta dovrebbe essere strettamente legato a quello delle competenze scientifiche. Tuttavia, l’Italia è una non felice eccezione nell’ambito delle scienze naturali e della terra nelle quali, contrariamente a quanto accade in molti paesi, le ragazze ottengono risultati peggiori dei loro coetanei maschi.  Alla fine il fatto che molte ragazze non scelgano carriere universitarie scientifiche o tecnologiche si traduce in uno sperpero di risorse per la società perché è noto che hanno esiti scolastici migliori e quindi perdiamo una fetta di persone capaci che con le loro conoscenze potrebbero arricchire la collettività.

Vorrei sottolineare che le prove nazionali quali quelle INVALSI o internazionali come PISA o TIMMS valutano competenze di base in matematica che sono un prerequisito fondamentale della partecipazione attiva alla vita civile e sociale; è essenziale che tutti i cittadini e le cittadine abbiano uguale accesso a questo tipo di abilità perché sono quelle che permettono di esercitare pienamente il diritto di cittadinanza e godere delle opportunità che la nostra società offre. 

Mi sembra importante sottolineare che, seppure esistano molti stereotipi educativi, a proposito delle differenze di genere c’è un problema più profondo che senza prove standardizzate non emergerebbe; il fenomeno che le prove INVALSI portano alla luce resterebbe sommerso perché nelle valutazioni scolastiche non c’è riscontro alle peggiori performances delle ragazze in ambito matematico. Qui siamo in presenza di una misura esterna, condizionata (consideriamo cioè persone che hanno uguali esiti nelle prove standardizzate) e quello che accade è che i maschi hanno sistematicamente voti scolastici peggiori, il che è molto strano; vuol dire che il sistema scolastico non valuta queste differenze. 

Quali possono essere le cause di questo fenomeno?

Prima di tutto si tratta di un problema preoccupante perché è presente una grave distorsione: lo strumento “voto” è per così dire opaco rispetto a quello che vuole misurare e gli effetti distorsivi sono notevoli; in particolare questo provoca un notevole insuccesso nell’orientamento, sia nel passaggio da un ciclo all’altro, sia in quello dalla scuola all’università.

Ci sono varie possibili interpretazioni, alcune delle quali semplici, anche se non semplicistiche. Si sovrappongono infatti due tipologie di fenomeni; da un lato ci sono gli stereotipi di valutazione: se pensiamo che le ragazze non siano portate per una materia, le valutiamo meglio per risultati peggiori perché pensiamo che comunque abbiano fatto il massimo possibile per le loro capacità; dall’altro lato ci sono gli stereotipi di comportamento: vediamo le ragazze come “brave studentesse con gli appunti ordinati”, come allieve che si comportano bene e quindi si fa ricorso a una sorta di “premio” che è insito nel criterio di valutazione scolastico. 

Il primo evento sarebbe da evitare assolutamente perché totalmente negativo, mentre il secondo può non essere così deleterio, ma ne va resa esplicita la motivazione; bisogna quindi informare chiaramente tutta la classe che ci sono valori aggiuntivi che vanno al di là del mero contenuto cognitivo della materia, quali l’organizzazione del lavoro, il rispetto dei tempi stabiliti per le consegne, la collaborazione nel gruppo-classe e con il corpo docente. 

In che modo la pandemia ha influito sulla situazione?

La pandemia ha modificato tutti i risultati in peggio, ma su quelli delle ragazze ha avuto un effetto maggiore. Le restrizioni hanno pesato considerevolmente sulla scuola secondaria, anche in considerazione del fatto che nell’anno scolastico 2020-21 la didattica in presenza alla scuola primaria è stata ridotta in misura molto minore rispetto agli ordini di scuola successivi. Bisogna inoltre considerare il fatto che i contenuti della primaria sono accessibili a una quota ampia di genitori. Al contrario, via via che il grado di istruzione scolastica si innalza, l’insegnamento della matematica diviene appannaggio quasi soltanto della scuola, mentre per altri tipi di competenze, ad esempio l’utilizzo dell’italiano, una famiglia di buona cultura continua a sostenere, anche in via indiretta, la carriera scolastica della prole.

Inoltre, in Italia sono soprattutto le madri a occuparsi di assistere i figli e le figlie nei compiti a casa e questo perpetua da una generazione all’altra il gap fra le materie letterarie e quelle scientifiche, perché le madri sono meno scolarizzate nelle discipline STEM rispetto ai padri. Quello che notiamo è che purtroppo non c’è consapevolezza in merito nell’opinione pubblica.

Quando si guarda a chi consegue risultati di alto livello (Olimpiadi, accesso alle scuole di eccellenza) nelle materie scientifiche la differenza fra ragazzi e ragazze è molto evidente. 

Per prima cosa, ribadisco che non ci sono evidenze empiriche di maggiori capacità matematiche o più in generale scientifiche per i maschi. Tuttavia, se non diamo alle ragazze una spinta affinché partecipino maggiormente allo studio delle materie STEM, ne troveremo poche che si posizionano a livelli alti. Si tratta di una forma sottile di ingiustizia: negli studi sociali è noto che esponenti di categorie marginalizzate devono realizzare performances significativamente migliori degli altri per emergere. Il rischio è che la presenza femminile in questi ambiti si riduca a un aspetto sostanzialmente aneddotico, privando le future generazioni di modelli in cui rispecchiarsi. Questi sono aspetti problematici che si aggiungono ad altri ancor più gravi che coinvolgono strati più ampi o fasce più svantaggiate della popolazione scolastica 

Al netto delle differenze che emergono dalle rilevazioni, quali elementi è necessario indagare per interpretare le ragioni di queste differenze? 

A mio parere è necessario un momento di congiunzione fra ricerca quantitativa e qualitativa, a partire dalla scuola dell’infanzia per decostruire gli stereotipi educativi. Partendo dai grandi numeri che abbiamo, dobbiamo renderci conto che servono anche studi diffusi. Nel caso italiano, le scienze pedagogiche non sempre hanno dedicato tutta l’attenzione necessaria all’argomento. La mia più grande fonte di preoccupazione è la “coda”, cioè la parte della popolazione sotto la media: si tratta di persone che hanno difficoltà a maneggiare le percentuali o a fare confronti tra fenomeni probabilistici molto semplici; è facile capire che rischiano di trovarsi tagliate fuori da una cittadinanza pienamente agita, e per la maggior parte sono di sesso femminile.

Cosa possiamo fare a suo parere per passare all’azione in questo ambito?

Intanto stiamo parlando in modo approfondito del problema e questo è già molto. La CIIM (Commissione Italiana per l’Insegnamento della Matematica) lavora da tempo con gli insegnanti in maniera molto efficace, la cosa importante adesso è fare formazione anche con chi lavora con l’opinione pubblica, soprattutto giornalisti e opinion leaders. È necessario sensibilizzare l’opinione pubblica e ancor di più chi è in grado di influenzarla: ogni volta che qualcuno con visibilità mediatica si vanta del fatto che a scuola andava male in matematica, si rischia di perdere 10 possibili studenti di materie scientifiche all’università, e questo ha un impatto ancor più grave se accade con una donna.

Più in generale, quali azioni culturali e didattiche si possono intraprendere per permettere a chiunque di apprendere al massimo delle proprie potenzialità?

Dal mio osservatorio di questi 13 anni di lavoro in INVALSI, mi sono convinto che il mondo accademico può fare tantissimo, soprattutto bisogna riflettere sul contenuto dell’insegnamento delle materie scientifiche. Non è pensabile fare matematica destinata solo all’uso pratico, anzi dobbiamo cercare di farci carico (sia a scuola sia all’università) degli aspetti del pensiero scientifico che intervengono come atto culturale dell’interpretazione della realtà. Quello che è giusto chiedersi è se servano davvero tante ora di esercizi algebrici di routine che trasmettono agli studenti l’idea della matematica come un insieme di regole cui “sottomettersi” per essere “accettabili”.

È anche importante distinguere quello che vogliamo che sia patrimonio di tutti e tutte e quello che serve solo ad alcune persone; ci sono aspetti della matematica che non è una tragedia se non sono posseduti da tutti, mentre altri aspetti sono imprescindibili; questa riflessione comporta una rivisitazione di molte pratiche educative che deve interpellare tutto il mondo della cultura scientifica e tecnologica, della matematica in particolare. 

Intervista raccolta da Chiara de Fabritiis

Foto di copertina di woodleywonderworks Fonte: https://www.flickr.com/photos/wwworks/3597217248 License: “CC BY-NC 2.0

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