In occasione dell’Ada Lovelace Day, pubblichiamo “Una passione analitica”, tratto dal libro Storie che contano dei Rudi Mathematici. Un racconto che intreccia matematica e storia.
Rudi Mathematici, “Una passione analitica”
La frase sulla matematica più celebre, almeno tra quelle formulate in lingua italiana, fu pronunciata a Roma negli ultimi giorni del novembre 1879. La città era diventata capitale d’Italia da appena otto anni, Leone XIII era pontefice soltanto da uno, ma continuava a considerarsi una sorta di prigioniero politico del giovane Stato italiano, proprio come aveva fatto il suo predecessore Pio IX. Il Regno d’Italia aveva peraltro molti altri problemi oltre alla questione romana, e i suoi deputati si accaloravano principalmente per ragioni economiche. L’aula di Montecitorio risuonava delle voci concitate dei rappresentanti della Sinistra e della Destra storiche, che si confrontavano soprattutto sulla famigerata “tassa sul macinato”, una tassa che colpiva tutti, e di conseguenza pesava soprattutto sui più poveri, imponendo un balzello su ogni singolo chicco di grano che finiva sotto le ruote dei mulini. Del resto il Regno non era solo giovane, era anche molto povero, come capita spesso ai giovanotti di belle speranze: i governi della Destra già da tempo avevano imposto la tanto odiata tassa (con conseguenti rivolte, sommosse, repressioni e morti) per tentare di far quadrare il bilancio dello Stato. I governi della Sinistra che erano poi succeduti avevano cercato in un primo tempo di ridurla, ma fin da allora le crisi erano all’ordine del giorno, e risanare i conti dello Stato si dimostrava assai difficile. Fu così che quando prese la parola Bernardino Grimaldi – che era stato ministro delle Finanze del secondo governo Cairoli, appena caduto, ma non era nel novero dei ministri del terzo, appena formato –, in qualità di uomo di sinistra cercò di giustificare il mantenimento della famigerata tassa spiegando che tassare molto i ricchi (che erano pochi) non avrebbe risolto comunque i problemi di bilancio: servivano anche e soprattutto quei contributi dei poveri che, pur essendo tali, erano moltissimi. La sua retorica ottocentesca partorì pertanto la seguente complessa argomentazione: «Per me, tutte le opinioni sono rispettabili ma, ministro o deputato, ritengo che l’aritmetica non sia un’opinione». Frase che poi, passando di bocca in bocca e invecchiando di anno in anno, è mutata fino a cristallizzarsi nella proverbiale forma “La matematica non è un’opinione”.
Il parlamento aveva discusso e approvato per la prima volta la tassa sul macinato undici anni e mezzo prima, il 21 maggio 1868, quando la Camera dei Deputati si riuniva nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, seconda capitale d’Italia. Vittorio Emanuele II risiedeva a Palazzo Pitti, gli Uffizi ospitavano il Ministero degli Interni, mentre la Presidenza del Consiglio aveva sede nel Palazzo Medici-Ricciardi: ed è verosimilmente lì che il Consiglio dei Ministri deve aver vagliato l’opportunità di dare via libera al ministro delle Finanze Luigi Cambray-Digny che propose per la prima volta il famigerato balzello, su cui aveva già ottenuto il sostegno entusiasta di Quintino Sella. Il padrone di casa, ossia il presidente del Consiglio in carica, era il generale Luigi Federico Menabrea, al secondo dei suoi tre mandati come capo del governo.
Negli otto anni appena trascorsi dall’Unità si erano già succeduti undici governi, ma Luigi Federico non era certo un parvenu: già nel 1861, durante il primo governo di Bettino Ricasoli (colui che aveva dovuto raccogliere l’eredità del primo presidente del Consiglio italiano, Camillo Benso conte di Cavour), sedeva sulla poltrona del Ministero della Marina. Era pertanto uomo di potere già a Torino, prima capitale d’Italia, dove la facciata ondeggiante come una sinusoide di Palazzo Carignano sottolineava con flemma sabauda l’importanza dell’edificio che ospitava sia il primo Parlamento del Regno, sia l’ufficio del Primo Ministro. L’importanza, e la storia: tra quelle mura era nato il primo re della nuova nazione, e in quelle stanze aveva lavorato il parlamento del piccolo Stato piemontese che avrebbe riunito le terre della penisola dopo quasi due millenni di divisione; e per farlo avrebbe utilizzato ogni mezzo, ogni risorsa disponibile, dalla guerriglia di mille camicie rosse di un eroe repubblicano inviso alla monarchia, alle tecniche seduttive delle più belle tra le sue dame, oltre all’eroismo e al sacrificio dei giovani sognatori dell’Italia intera.
Luigi Federico Menabrea avrà seguito spesso, con lo sguardo e con il passo, l’alternarsi di vuoti e pieni di quella facciata di mattoni rossi, che si dice nascondesse nei suoi fregi anche omaggi ai pennuti copricapi dei pellerossa americani, contro i quali si batté un reggimento di Emanuele Filiberto. E percorrendo la splendida piccola piazza che fa da contraltare e da defilato intermezzo alle due vicine e magnifiche piazze Castello e San Carlo, è possibile che in quel 1861 il generale e ministro, già più che cinquantenne, si ritrovasse a guardare con un po’ di nostalgia il palazzo dell’Accademia delle Scienze, che chiude la piazza nel lato sud e al contempo dà principio alla via che dall’Accademia stessa prende il nome. Perché anche se si è abituati ai campi di battaglia, al sangue versato dai soldati e alle mille insidie della politica (spesso altrettanto pericolosa), non c’è uomo maturo che non riservi l’ultima tenerezza al ricordo di se stesso da giovane. Era in quel palazzo che, più di vent’anni prima, un promettente capitano dell’esercito piemontese aveva potuto mostrare la sua intelligenza e la prontezza – non solo militare o politica, ma anche e soprattutto matematica e scientifica – del suo ingegno. Lì era stato trattato come pari dai grandi intelletti del suo tempo, riuniti insieme per misurare le nuove conoscenze e renderle comuni. E, inutile negarlo, era lì che l’aveva vista per la prima volta.
«Luigi, Luigi! Vuoi venire qua, per la miseria? Non puoi attardarti troppo a parlare con chiunque, i convegni scientifici sono fatti soprattutto per conoscere facce e nomi, più che fatti e formule. Corri, che mi hanno detto che è arrivato anche l’inglese!» Nonostante i suoi quasi sessant’anni, Giovanni Plana sembrava scoppiare di energia ed entusiasmo, mentre sollecitava il giovane capitano del genio Menabrea a seguirlo nella sala grande dell’Accademia delle Scienze.
«Questo convegno sarà davvero un successo» continuò, mentre dispensava sorrisi a chiunque incrociasse, «e, con buona pace dei toscani, ai quali riconosco il merito di aver avuto per primi l’idea e il coraggio di metterla in pratica, non c’è dubbio che questa Seconda Riunione degli Scienziati di Torino dell’anno di grazia 1840 farà impallidire la prima di Pisa dello scorso anno.»
Impettito e rigido nella sua divisa da ufficiale tirata a lucido, Luigi seguiva a fatica i passi dell’astronomo che era stato suo professore di fisica matematica all’università. Gli astanti sembravano divertiti nel vedere la scena: un anziano borghese che con indaffarata alacrità sembrava trascinarsi dietro un giovanotto imbevuto di spirito marziale che, certo controvoglia, era costretto ad affrettare i passi per stargli dietro. «Professore» disse infine Luigi, continuando a cercare di mantenere l’aplomb che la divisa gli imponeva, «non credo che l’inglese possa sfuggirci, anche qualora rallentassimo il passo…»
Plana si voltò, rallentando appena: «Ti ho già detto di non chiamarmi professore, specialmente qui. Capisco che ti risulti difficile, visto che sei stato mio studente e hai la metà dei miei anni, ma ormai sei Dottore Collegiato da un lustro, professore all’Accademia Militare e, soprattutto, sei diventato un membro di quest’Accademia delle Scienze. E gli accademici devono mostrarsi fraterni, uniti nel nome del sapere, e non barbosamente legati alle convenzioni sociali. E mi raccomando, mostra sicurezza nelle tue conoscenze, e anche nelle tue opinioni…»
La sala piena di uomini dai capelli grigi o bianchi sembrò tutto a un tratto meno affollata, ma solo perché, poco più avanti, un capannello particolarmente fitto di persone si accalcava attorno all’ospite più atteso: il detentore della cattedra Lucasiana di Matematica a Cambridge e membro della Royal Society, ovvero il professor Carlo Babbage, che non aveva ancora avuto il tempo di togliersi il soprabito. Molte voci si sovrapponevano l’una all’altra, disegnando una strana e britannica perplessità sul volto del matematico ospite, certo abituato a dialoghi più compassati di quelli che gli presentava ora la dialettica mediterranea. Tre lingue, italiano francese e inglese, si sovrapponevano e mescolavano nel tentativo di rendersi più intellegibili, ottenendo inevitabilmente l’effetto contrario. Forse per questo, la fronte quasi calva di Babbage oscillava ripetutamente tra l’astante di turno che gli sollecitava un commento e la giovane donna sorridente e di bianco vestita che gli stava al fianco, appena un po’ arretrata, e che sembrava in grado di rendere comprensibile all’inglese le parole pronunciate in quegli astrusi linguaggi figli diretti del latino.
«Professor Babbage!» la voce squillante di Plana riuscì a farsi largo nel brusio generale, «che piacere, che immenso onore vederla qui a Torino! Lasci che le dia il benvenuto a nome di Sua Maestà il re Carlo Alberto, sotto i cui auspici e protezione questo convegno è stato istituito.»
Plana si affrettò a ripetere in francese la frase di benvenuto che aveva pronunciato in italiano, meritandosi così un sorriso ancora più esplicito dalla giovane accompagnatrice del professore. Questa mormorò la traduzione in inglese, e Babbage ringraziò del benvenuto, con un accenno di inchino e qualche frase di circostanza, in cui Plana riconobbe persino il nome della giovanissima regina d’Inghilterra, Vittoria. Seguirono rapidamente convenevoli e presentazioni dei più notabili tra i presenti, e anche se il presidente del convegno, il conte Alessandro di Saluzzo, avrebbe più tardi provveduto al messaggio formale di benvenuto durante l’inaugurazione del congresso, Babbage si ritrovò a stringere un nugolo di mani ben prima che la sua presenza fosse ufficializzata.
«Professor Babbage, questi è il cavalier professor Pietro Configliachi, vicepresidente della Sezione di Fisica, Chimica e Scienze Matematiche che mi onoro di presiedere» scandiva la voce acuta di Plana, mentre l’inglese continuava a dispensare strette di mano e sorrisi, «e questi, certo l’avrà riconosciuto, è il celebre professor Ottaviano Fabrizio Mossotti, vanto di questa nostra Accademia. Oh, ecco anche il professor Belli… Giuseppe, avvicinati, avvicinati!»
Il succedersi delle presentazioni, delle cordialità e dei complimenti disegnava nella grande stanza dell’Accademia un brulichio di immagini simili e ripetute, con i molti scienziati di mezza età, rigorosamente ed elegantemente nerovestiti, che sembravano danzare un artificioso minuetto davanti agli ospiti stranieri. A vedere la scena da fuori, c’erano solo due elementi che sembravano stonare, quasi fossero fuori posto: l’alta figura marziale e impettita di Luigi Federico, unico senza marsina, e il candore prepotente dell’abito e del volto dell’accompagnatrice di Babbage. Forse proprio perché erano i soli diversi tra gli altri uguali, o forse soltanto perché, oltre che diversi, erano anche i più giovani tra i presenti, si sorpresero più d’una volta a guardarsi l’un l’altra, ed ogni volta distoglievano rapidi lo sguardo. Solo dopo una lunga attesa zeppa di accademiche frasi di circostanza furono infine presentati.
«Professor Babbage» disse Plana dopo aver fatto cenno a Luigi di avanzare di qualche passo, «vorrei presentarle anche il più giovane dei membri della nostra Accademia delle Scienze, il capitano Luigi Federico Menabrea; nonostante la divisa, è più scienziato che militare, mi creda: è stato assegnato al comando di una delle fortezze più importanti del nostro piccolo Regno, quella di Bard, e nel farlo ha cercato di portare un po’ di ordine scientifico anche nelle arti della guerra.»
Luigi chinò velocemente la testa e senza volerlo batté i tacchi, mentre tendeva la mano a Babbage. Infastidito dall’involontario eccesso di marzialità, quasi arrossì, e si limitò a pronunciare un timido «Professore…» Babbage sorrise in risposta e sorrise anche la fanciulla, forse perché le era risparmiata la fatica di tradurre quell’unica parola. Colto da un dubbio improvviso, l’inglese spostò lo sguardo dal capitano alla donna, e poi di nuovo verso il capitano. Subito dopo cominciò a parlare fitto a Plana, in inglese; si accorse di non essere compreso e guardò confuso la sua accompagnatrice, che arrossì un po’, e quindi tradusse in francese: «Mi rendo conto solo adesso che non vi ho ancora presentato la mia preziosa compagna di avventura…» mormorò la fanciulla, in palese imbarazzo nel dover parlare di se stessa per bocca altrui, «e vorrei rimediare al più presto, visto che senza di lei sono sordo e muto. Signori, lasciate che vi introduca all’incantevole Augusta Ada Byron King, contessa di Lovelace».
Plana fu il primo a esibirsi in un impeccabile baciamano: «È davvero un onore per tutti noi, contessa! Queste riunioni scientifiche hanno l’imperdonabile difetto di sembrare sempre delle adunate di caserma, prive come sono della grazia femminile. La sua presenza qui è un vero dono del cielo, oltre che una gioia per gli occhi».
Seguì l’omaggio di Ottaviano Mossotti, che con sorpresa scoprì di essere già noto alla fanciulla: «Professore, il suo recente lavoro Sur les forces qui régissent la constitution intérieure des corps è stato molto apprezzato in Inghilterra: il professor Faraday ne è entusiasta e ne sollecita la lettura a colleghi e amici» osservò Ada, «e so che anche il professor Babbage lo ha letto con interesse. A questi apprezzamenti, se me lo consente, vorrei aggiungere il mio personale: l’ho trovato davvero brillante».
Un certo stupore si disegnò sul volto degli italiani e Babbage, prontamente, si lanciò in un accalorato discorso che la contessa pareva non voler tradurre. Un accademico che aveva vissuto a lungo a Londra provvide però a chiarirlo ai presenti: «Babbage dice di non fare l’errore di considerare la signora Lovelace come una mera traduttrice: assicura che ha il vero e proprio spirito del filosofo naturale fin dalla più tenera età, è molto preparata in tutte le scienze e gli è stata di grande aiuto assai spesso, con brillanti osservazioni. La considera la sua pupilla, una vera e propria donna di scienza».
Ada ascoltò in silenzio, senza alzare lo sguardo verso nessuno in particolare. I baciamani proseguirono, insieme a molte domande e risposte: sì, il suo nome completo era Augusta Ada, ma per brevità usava solamente il secondo nome; sì, era parente del grande Lord George Byron, il noto poeta: banalmente, ne era la figlia, ma non si può dire che lo ricordasse; era ancora in fasce quando suo padre la prese in braccio per l’ultima volta. No, non sentiva in sé lo spirito della poetessa; dal punto di vista delle passioni, aveva preso da mamma Annabella, che adorava la matematica…
Soltanto dopo che quasi tutte le curiosità sui gusti, sulla vita e soprattutto sul padre della contessa furono soddisfatte, poté concludersi la presentazione tra il capitano Menabrea, che era rimasto rigido di fonte a Babbage per tutto il tempo, e i due ospiti inglesi. Quando il matematico di Cambridge infine gli strinse la mano e Ada gli offrì la sua, Luigi Federico trovò la voce per chiedere: «Byron King, ha detto?»
«King, sì: è il mio cognome da sposata. Mio marito William, il conte di Lovelace, si chiama così» rispose Ada nel suo fluente francese.
«Mi sembra così giovane… non credevo fosse già coniugata» si sentì dire, con sua stessa sorpresa, il capitano Menabrea. Ada rise di una sincera risata di gola, inaspettata e liberatoria: «Lei dev’essere un vero galantuomo, capitano… sa fingere dei complimenti in modo che sembrino davvero sinceri. Non sono così giovane, ho già venticinque anni; sono sposata da cinque e sono madre di tre bambini.»
Luigi Federico, per quanto cercasse di rimanere imperturbabile, si sentì prima arrossire e poi impallidire, per quanto impercettibilmente. Era furioso con se stesso per essersi lasciato andare a indagare sulle questioni private di una signora, stupito dalle affermazioni di Ada, sinceramente sorpreso dalle risposte. Soprattutto, però, era irritato dal fatto che quella sua risata gli piacesse così tanto.
Forse perché aveva colto l’imbarazzo del suo protetto, forse solo per ricondurre la conversazione su binari più formali, Plana si rivolse a Babbage: «Sapete, Charles, che il capitano qui presente è un vostro grande ammiratore? Il suo intervento in programma per il 29 di questo mese è stato ispirato da un vostro progetto: intende esortare tutti i presenti a compilare un’opera che raccolga tutte le grandi costanti della natura…»
Menabrea chinò marzialmente il capo in segno di ossequio e conferma, e stava per prendere la parola, ma Plana continuò: «Proprio per questa sorta di affinità elettiva ho pensato che potrebbe essere lui a redigere una sorta di verbale delle relazioni sul vostro grande progetto della Macchina Analitica; sono certo che riuscirà a fare un ottimo lavoro, e a trasmettere perfettamente agli italiani e ai francofoni il contenuto di quanto vorrete illustrarci nei vostri interventi».
Le sopracciglia di Babbage si corrucciarono un po’, prima ancora che Ada terminasse la traduzione: «Professor Plana, eravamo d’accordo che tale memoria sarebbe stata curata da lei… non dubito della valentia del capitano, ma…» disse il matematico, prontamente tradotto dalla contessa.
L’espressione di sorpresa sul volto dell’inglese era nulla in confronto a quella che campeggiava sulla faccia di Luigi Federico. Si voltò di scatto verso Plana e solo l’assuefazione alla disciplina militare riuscì a soffocare il rigurgito di stupore e di protesta che gli saliva dal petto. Tuttavia, anche se rimase muto, la bocca aperta e gli occhi spalancati palesavano a tutti i presenti che il più sorpreso era lui. Prima che riuscisse a dire alcunché, l’astronomo continuò, rivolgendosi agli ospiti inglesi, ma lanciando in tralice fugaci occhiate di intesa verso Luigi: «Certo, professor Babbage, certo! Ricordo bene l’impegno preso e vi assicuro che è proprio per onorarlo al meglio che vorrei che a occuparsene fosse l’accademico Menabrea. Vi garantisco che il capitano è studioso brillante e ben più preparato di me sugli aspetti meccanici che tanta importanza hanno nella vostra creazione; e io non mancherò certo di dare la mia piena consulenza alla stesura finale del documento. Purtroppo il re in persona mi ha incaricato di alcuni uffici connessi a questo simposio che mi impedirebbero di seguire e annotare con la precisione necessaria le vostre relazioni, professore; ma credetemi: nel cambio ci avete guadagnato».
Mentre Ada stava ancora traducendo a beneficio di Babbage le parole di Plana, questi continuò, dopo aver scoccato un’occhiata significativa a Menabrea: «Anzi, proprio per garantire al meglio la perfetta riproduzione del progetto della vostra Macchina, suggerirei che la contessa e il capitano lavorassero di concerto, fianco a fianco, di modo che il prodotto finale risulti ineccepibile sia a occhi italiani, sia a quelli francesi e inglesi».
L’espressione di sorpresa di Menabrea non mutò, anzi si accentuò, e la poco marziale ombra di rossore fece nuovamente capolino sopra i folti baffi del capitano. Ada restò impassibile, fatta eccezione per il quasi impercettibile sollevarsi del labbro superiore: se era un sorriso, era un sorriso ben mascherato anche per gli standard inglesi.
Charles Babbage era rimasto con lo sguardo fisso su Plana, non particolarmente convinto della piega che stavano prendendo le cose. Ma con prontezza l’astronomo portò la conversazione verso lidi più tranquilli: «Oh, ecco che finalmente arrivano anche i membri della sottosezione di chimica! Venite, Charles, venite! Dovete assolutamente conoscere Amedeo Avogadro e Ascanio Sobrero…»
Nei giorni successivi, quando il congresso entrò nel vivo e gli interventi e le relazioni si susseguivano quasi senza soluzione di continuità, Ada e Luigi si ritrovarono spesso fianco a fianco, seduti a un tavolo non troppo distante dal podio dei relatori, prendendo appunti e confrontandosi regolarmente, alla fine di ogni relazione, sui contenuti e sulle forme più opportune per riportare i concetti nelle diverse lingue. Se Menabrea era ben lungi dal sentirsi adatto al compito di verbalizzatore e traduttore (e indubbiamente la cosa lo feriva anche nell’orgoglio di scienziato e di ufficiale), in breve dovette quantomeno riconoscere che anche ad Ada il ruolo di mera traduttrice andava assai stretto. Quando Babbage tenne la prima delle relazioni volte a illustrare il suo progetto di costruzione di una Macchina Analitica, Ada fu chiamata sul palco per tradurre in francese le parole del matematico, e Luigi rimase, come gran parte dei presenti, affascinato dall’idea rivoluzionaria di trasferire all’inerte materia non solo la facoltà di calcolo aritmetico, ma anche la sublime possibilità di effettuare valutazioni di analisi matematica. Tuttavia fu solo grazie alle integrazioni che Ada gli bisbigliò al tavolo nelle ore successive che riuscì ad averne una visione completa e grandiosa come il progetto meritava.
«Non c’è dubbio che anche questa Macchina sia stata concepita sull’onda del successo della rivoluzione meccanica che sta cambiando il volto della Gran Bretagna, capitano; ma ci vuol poco a capire che è anche qualcosa di più: io ritengo che sia il seme di una ulteriore – e più grande – rivoluzione della scienza tutta.»
La voce di Ada vibrava di emozione ed entusiasmo, mentre seduta compostamente al tavolo fingeva di ascoltare una relazione sui calori specifici tenuta da August De La Rive: «Charles lavora alla Macchina da più di vent’anni: era sconvolto dagli errori che trovava sempre nelle tavole astronomiche, e forse è stato proprio il vedere i nuovi telai meccanici che, oltre a velocizzare la tessitura, la rendevano quasi priva di difetti, a spingerlo all’idea di una grande macchina in grado di eseguire calcoli grandi e complessi».
Poi si voltò, incurante di mostrarsi poco attenta, con gli occhi pieni di entusiasmo: «Ma i calcoli sono solo una parte, e probabilmente non la più significativa, del progetto. All’inizio la chiamava “Macchina Differenziale”, perché in fondo era solo una grande calcolatrice; ma poi i telai Jacquard, con le loro schede in grado di pilotare di volta in volta gli arabeschi da tessere, lo hanno ispirato, e l’idea della Macchina Analitica nasce così: dall’idea di un grande meccanismo di calcolo che però possa ricordare, calcolare, ricevere istruzioni-guida di volta in volta diverse; e con sezioni di macchina ben distinte, ognuna deputata a un compito specifico. Ha un’architettura che ricorda un po’ quella degli esseri viventi, in questo senso, e forse per questo potrebbe davvero essere in grado di analizzare qualsiasi problema».
Luigi Federico la guardava, impressionato dall’ardore che la giovane metteva nell’erigersi a paladina di quella che restava, per quanto meravigliosa, nient’altro che un’idea matematica e meccanica, discipline che lui aveva sempre pensato essere del tutto inaccessibili alle menti femminili. Ada tornò a voltarsi verso il palco, dove stavano annunciando la lettura di una memoria del professor Peretti sui processi per ottenere sostanze amare non alcaloidee dai vegetali: «Ha progettato tutto, disegnato tutto, la Macchina esiste già, bisogna solo costruirla» mormorava quasi tra sé Ada, «solo questo manca. Ma Charles vi ha già speso tutti i suoi averi e risparmi, e il governo ha sospeso i finanziamenti, perché non riesce a capire l’importanza di uno strumento del genere. Ciechi che non sono altro…»
Luigi avrebbe voluto prenderle la mano, rassicurarla e cancellarle quella preoccupazione dagli occhi e dalla voce. Ma si limitò a dirle piano, in un filo di voce: «Faremo bene il nostro lavoro, lo faremo con cura. La Macchina Analitica sarà ben descritta, e la conosceranno in tutta Europa. E qualcuno darà al professor Babbage quanto gli serve per costruirla».
Non osò dire altro, e quasi temette di aver detto troppo. Ma lei lo ringraziò con un sorriso dolce e triste, annuendo appena con la testa, e Luigi si sentì il petto riempirsi di orgoglio, e di qualche altro sentimento sulla cui natura non aveva intenzione di indagare.
Settembre volgeva al termine, e la Seconda Riunione degli Scienziati pure. Il presidente Plana, sotto gli auspici di sua maestà Carlo Alberto, aveva ottenuto di poter invitare gli studiosi più eminenti a un rinfresco di saluto nella grande reggia di Venaria Reale, non troppo distante dalla capitale sabauda; non era dato per certo, ma si ventilava la possibilità che lo stesso sovrano sarebbe potuto intervenire per rivolgere un saluto ai protagonisti del convegno. In quell’ultimo pomeriggio, limpido e tiepido come solo certi pomeriggi torinesi sanno essere, le carrozze che formavano una lunga fila in Via dell’Accademia delle Scienze erano pronte a ingoiare matematici, chimici e fisici per condurli nella residenza reale.
Giovanni Plana e Ottaviano Mossotti gesticolavano in maniera assai poco britannica, ma avevano ormai vinto la timidezza ufficiale del primo giorno e stavano mettendo alla prova la loro conoscenza della lingua inglese parlando con Babbage che, pur mostrando una certa difficoltà nel comprendere quella che a giudizio degli italiani doveva essere la sua lingua madre, si era ormai liberato dalla tensione iniziale e riusciva a esibirsi persino in qualche sporadico accenno di risa. Quando giunse la carrozza a loro destinata, tutti e tre si fecero da parte per lasciar entrare per prima la contessa Lovelace, che si prevedeva dovesse accompagnare il professor Babbage nell’ultima sua fatica in terra sabauda. Ada però esitò, accennò un passo incerto, poi alzò il volto pallido verso i tre scienziati.
«Io…» cominciò, interrompendosi subito e cercando di fabbricare un sorriso forzato; poi riprese: «Io, se loro fossero così gentili da volermi perdonare, preferirei essere esonerata da questo prestigioso onore. Non so proprio come giustificarmi di fronte a un esplicito invito di Sua Maestà, ma avverto un fastidioso mal di testa e ho paura che il percorso in carrozza, seppur di poche miglia, potrebbe indispormi al punto di mettere a rischio il viaggio ben più lungo che mi aspetta domani, quando il professor Babbage e io ripartiremo alla volta dell’Inghilterra.»
Le voci dei tre gentiluomini si accavallarono nel tranquillizzarla, nel giustificarla e nel rassicurarla che nessuno, tanto meno il sovrano, avrebbe avuto alcunché da ridire, anzi. Seguirono poi almeno dieci minuti buoni di consigli e raccomandazioni su come avrebbe dovuto riguardarsi, riposarsi e soprattutto dormire bene per non avere fastidi l’indomani. Quando Mossotti infine cominciò a dare istruzioni al vetturino perché si mettesse a disposizione della contessa, accompagnandola all’albergo ove risiedeva, Ada protestò, assicurando che non era davvero necessario: l’albergo non era affatto distante e, comunque, riteneva che una breve passeggiata le avrebbe fatto certo molto bene.
«Torino è certo una delle città più sicure d’Europa» tuonò allora Giovanni Plana, «ma non sia mai detto che abbiamo lasciato una gentildonna muoversi per le strade senza accompagnamento». Si guardò un po’ intorno, e non gli ci volle molto a scorgere l’alta figura di Menabrea, poco distante, in apparente modesta attesa di una delle ultime carrozze. «Ah!» sorrise contento Plana, «ecco chi fa al caso nostro: contessa, sono certo che il capitano sarà ben felice di offrirle i suoi servigi di accompagnatore e guardia del corpo. Chi meglio di un soldato, per questi compiti?»
«Oh, non lo incomodi, professor Plana! Non è davvero necessario…» protestarono le labbra di Ada. Gli occhi, in compenso, sembravano divertiti e niente affatto contestatori.
«Ma anche questa è senz’altro una reggia» rise allegra Ada, «e a giudicare da quant’è bella, non credo possibile che la Venaria Reale possa esserle tanto superiore!»
«Beh, no, infatti…» confermò Luigi, «è davvero un bel castello. Ed è stato a tutti gli effetti una residenza reale, quando madama Cristina di Borbone, consorte di Vittorio Amedeo, la elesse a sua magione preferita. Adesso però ospita solo volgari militari come me: genieri, per la precisione.»
«Un castello così romantico che non ospita neppure una fanciulla? Ma è uno spreco…»
Passeggiando contro l’emicrania, i due avevano percorso via dell’Accademia e proseguito lungo la via detta Contrada dei Conciatori, dove Luigi aveva indicato ad Ada la casa natale del grande Lagrange. Avevano poi svoltato a sinistra, percorrendo il nuovo corso del Re che conduceva fino al Po, e di qui, lungo viale dei Tigli, erano giunti di fronte al Castello del Valentino.
Luigi avrebbe voluto rispondere spiritosamente alla battuta di Ada, ma sembrava non trovare il tono giusto, al punto che alla fine sbottò: «Non so ancora come parlare con… con Ada Lovelace. In italiano, francese e anche in piemontese è perlomeno ben chiara quale sia la forma familiare e quale quella di cortesia, nel rivolgersi a qualcuno; ma voi inglesi, come fate? Date sempre del “lei”, o date sempre del “tu”? Come bisognerebbe tradurre il vostro “you”?»
«You è you, non è a questo pronome che deputiamo la confidenza, caro Luigi Federico» rispose Ada liberando quella sua risata che ogni volta faceva stringere lo stomaco a Menabrea, «la confidenza sta nel tono, nella scelta delle parole… e soprattutto nella licenza di chiamare qualcuno con il nome di battesimo. Se ti è mai capitato di chiamarmi solo “Ada” – e so bene che lo hai fatto almeno qualche volta – anziché “contessa Lovelace”, significa che ti sei già preso sfacciatamente delle libertà nei miei confronti, capitano…»
Luigi sbiancò, ma solo per il breve istante che intercorse prima che Ada finisse la frase: «…come del resto ho appena fatto anch’io adesso. Diamoci del tu, una buona volta, e parla più spesso italiano con me, che mi piace il suono della lingua».
«Di certo non potrò parlarti decentemente in inglese» rispose Luigi, «visto che la tua lingua sembra davvero inaccessibile per me. Ci ho anche provato un po’, a impararla, ma le costruzioni anglosassoni mi sembrano davvero ostiche. È tutto un intreccio di shall, can, may, could, must… non riesco davvero a raccapezzarmici. Forse dovrei trasferirmi per un periodo in Inghilterra e abituarmi alla lingua viva, perché dai testi di grammatica non riesco davvero a capire nulla.»
Ada approfittò di una panchina libera e si sedette per godersi gli ultimi raggi del sole mediterraneo. Guardò a lungo il castello, la ghiaia chiara che contrastava con il verde scuro della vegetazione e degli alberi che accompagnavano la corsa del fiume: «Valentino, hai detto? Che c’entra Valentino con la regina Cristina, il re Vittorio Amedeo o con il Corpo dei Genieri? Perché si chiama così, questo posto? Da noi, in Inghilterra, di Valentino parlano solo gli innamorati».
Luigi le sedette accanto, stupito del cambio e dalla piega che stava prendendo il discorso, ma lieto di saper rispondere: «Beh, è lo stesso Valentino anche qui. Una reliquia del protettore degli innamorati è stata fatta venire a Torino da Terni, città natale del santo, e conservata in un’antica cappella che si trovava proprio qui. Adesso le reliquie sono state spostate nella chiesa di San Vito, sulla collina, e di quell’antica cappella non vi è più traccia, ma il nome è rimasto».
«Oh, lo dicevo io che doveva essere un posto romantico, nonostante il castello sia un ricettacolo di soldataglie!»
Ada rideva e Luigi cercava di fare altrettanto, ma con scarsi risultati. La donna allora lo guardò fisso negli occhi, agitò con fare severo da maestrina l’indice verso il capitano, e pronunciò autorevolmente: «Comunque, signor Menabrea, eccole una lezione di inglese gratuita e pensata apposta per lei, che si interessa di logica e meccanica, e che non sa capire l’inglese. Quando mi esercitavo a compilare le istruzioni che doveva seguire l’Analytical Engine…»
«Questo lo so… è il termine inglese per Macchina Analitica, vero?»
«Spero bene che tu capisca almeno questo, Luigi… dicevo, quando scrivevo queste istruzioni ho provato a immaginare come programmare la macchina per farle risolvere un problema di logica che in inglese suona quasi come uno scioglilingua. Sei pronto?»
«Pronto a far che?» chiese Luigi vagamente preoccupato.
«Ma a risolvere il quesito che ti porrò in inglese, no?»
Senza attendere risposta, Ada recitò: «If Sarah shouldn’t, then Wanda would. “Sarah should” and “Camille couldn’t” cannot be true at the same time. If Wanda would, then Sarah should and Camille could. Therefore, Camille could. Is the conclusion valid?»
Luigi Federico la guardò attonito. I baffi sembrarono spiovere un po’ più tristemente sul suo labbro superiore, gli occhi si trasformarono in globi un po’ più opachi e tristi. Ma lei rise, e la sua risata era davvero un balsamo.
«Traduco, dài, così magari impari qualcosa di inglese e potrai capire anche il valore della programmazione dei calcolatori meccanici. Dovrebbe suonarti più familiare così: “Se Sarah non dovesse, allora Wanda vorrebbe. ‘Sarah dovrebbe’ e ‘Camille non potrebbe’ non possono essere vere allo stesso tempo. Se Wanda volesse, allora Sarah dovrebbe e Camille potrebbe. Pertanto, Camille potrebbe. È corretto il ragionamento?”»
* * *
Luigi Federico faceva fatica a riconoscerlo anche a se stesso, ma la verità era che la lingua inglese, il quesito, la Macchina Analitica, la meccanica, la matematica e persino il verde del parco e l’azzurro del cielo gli interessavano pochissimo, mentre guardava gli interrogativi occhi color nocciola della fanciulla. Si sforzò di non darlo a vedere, chiamò a raccolta la disciplina marziale e la passione scientifica, senza troppo successo. Infine abbassò lo sguardo, cercando qualcosa da dire, ma non ne ebbe bisogno, perché fu Ada a riprendere la parola.
«Vedi, Luigi» disse con un tono tenero, addolcito dalla musicalità del francese, dall’accento inglese e dal paesaggio italiano, «la prima cosa da fare è cercare di tradurre i concetti umani in simboli matematici, o meglio meccanici. Se a te parole come could e couldn’t, should e shouldn’t, would e wouldn’t possono suonare incomprensibili, pensa come suoneranno strane a un ammasso di ferraglia. Ma possiamo fare prima un’opera di traduzione, no? In fondo è proprio la traduzione che ci ha fatto conoscere…»
Luigi annuì, incapace di commentare e anche di riprendere un’espressione più marziale e virile. La ascoltava, annuiva e non aveva la forza di fare altro.
«E comunque, ne sai abbastanza d’inglese per capire che tre termini sono la negazione degli altri tre. Alla fin fine, quella specie di scioglilingua che ti ho recitato chiama in causa solo tre espressioni, che possiamo indicare con S = Sarah should, W = Wanda would, C = Camille could, (e mi sarai grato di aver scelto dei nomi le cui iniziali ricordano i verbi) e le tre corrispondenti negazioni, che possiamo indicare semplicemente come S, W, e C. Non ti sembrano già più maneggevoli? E certo lo sembreranno ancora di più a un calcolatore meccanico. Ora dobbiamo capire come, e se, possano esistere queste condizioni prese tre a tre. Per esempio, la situazione ipotetica che a parole suona come “Sarah dovrebbe, Wanda vorrebbe, Camille non potrebbe”, possiamo limitarci a simboleggiarla con [S, W, C]; ed è davvero facile notare che tutte le combinazioni possibili, che vanno da [S, W, C] a [S, W, C] sono solo otto, come è evidente a chi abbia familiarità con il sistema binario. Hai mai avuto occasione di usarlo, tu?»
Luigi Federico la seguiva con attenzione, nonostante la confusione che aveva in testa e nel petto. Si limitò a scuotere la testa in segno di diniego.
«Oh, dovresti, Luigi, dovresti proprio… è facilissimo e utilissimo: si tratta solo di segnare tutti i numeri possibili usando due cifre invece di dieci. È persino divertente… ma soprattutto, è vitale per la logica delle macchine: immagina se ogni meccanismo dovesse avere dieci posizioni, che complicazione sarebbe! Invece, quasi per natura, ogni meccanismo mobile, meccanico, elettrico o idraulico ne ha sicuramente due: aperto/chiuso, alzato/abbassato, passante/bloccante… e il sistema binario si confà splendidamente a queste situazioni.»
Menabrea appariva adesso davvero interessato: oltre all’uomo, anche lo scienziato, e forse persino il militare, era affascinato da quella conversione in atto tra la logica umana e quella meccanica.
«E otto combinazioni sono poche» continuò Ada, «poche per gli uomini, pochissime per le macchine. Basterà allora elencarle tutte e vedere come si comportano rispetto alle regole stabilite dall’indovinello. Regole che poi, in fondo, sono solo tre, con la prima che asserisce che S deve coesistere con W, la seconda che vieta la possibilità di coesistenza tra S e C, e infine l’ultima che ci dice che W può coesistere solamente con S e C. Vogliamo elencarle?»
Luigi si trovò momentaneamente in imbarazzo, finché non decise di raccogliere un rametto da terra e liberare dalla ghiaia una piccola zona di terra battuta dove poter scrivere. In breve, tracciò su un viale del Valentino queste righe:
[S, W, C] = possibile
[S, W, C] = vietato dalle regole 2 e 3
[S, W, C] = possibile
[S, W, C] = vietato da regola 2
[S, W, C] = vietato da regola 3
[S, W, C] = vietato da regola 3
[S, W, C] = vietato da regola 1
[S, W, C] = vietato da regola 1
Si fermò a guardare il risultato, stupefatto: «La conclusione è corretta. Le due sole combinazioni che sopravvivono alle regole sono la prima e la terza, ed entrambe contengono il simbolo C: quindi sì, Camille could!»
Ada annuì: «Già. Non trovi che l’esercizio di tradurre nel linguaggio delle macchine sia utile anche per la logica umana? E poi, prova a immaginare… qui bisognava scrutare solo otto casi, e anche un essere umano poteva farlo in fretta, una volta che questi erano codificati, ma fossero stati ottanta, o mille, o un milione? Gli umani non riuscirebbero neppure a fare la banale spunta, o perlomeno ci metterebbero un tempo lunghissimo: la macchina lo farebbe in pochissimo tempo, senza rischio di stanchezza, senza reali possibilità di errore…»
Luigi assentì vigorosamente. Si alzò dalla panchina gesticolando entusiasta: «Dobbiamo farlo, Ada! Dobbiamo fare in modo che Charles possa davvero costruire la Macchina Analitica! Scriverò la relazione con la massima cura, la arricchirò di dettagli, farò in modo che sia pubblicata e letta… Ma anche tu, mi raccomando! Appena la memoria sarà pubblicata riprendila, traducila in inglese, e soprattutto arricchiscila con tutti i dettagli e le osservazioni che ti saranno venuti in mente nel frattempo. Quella macchina di Babbage è una incredibile scorciatoia verso il futuro!»
Anche Ada si alzò, e sul suo volto tornò a disegnarsi quell’espressione scherzosa e giocosa, ora che Menabrea era finalmente pieno di entusiasmo per il progetto. «Certo che lo farò, Luigi. Lo faremo insieme, anche se distanti: io a Londra, tu qui a Torino, l’importante è che l’Europa tutta capisca e si sforzi di dare vita e intelligenza alle macchine.»
Si diressero poi di nuovo verso viale dei Tigli, dove era più facile trovare carrozze. Il sole di settembre stava per cedere il passo alla sera, e alla malinconia del tramonto si aggiungeva possente la tristezza dell’addio. Menabrea agitò una mano per fermare un vetturino e, quando la carrozza accostò, aprì lo sportello e predispose il predellino, infine guardò Ada, che salì in vettura e si sedette, lasciando tuttavia lo sportello aperto.
«Io… io… posso restare qui, il Castello è la casa del Genio, ed è anche casa mia» riuscì solo a dire il capitano Menabrea.
«Io, invece, andrò a passare la mia ultima notte torinese in albergo» disse Ada, «preparandomi per il viaggio di domani. Dovrò fare i bagagli, raccogliere le cose, sistemare vestiti… le donne hanno sempre bisogno di un sacco di tempo per queste cose.»
«Sì» disse Luigi, senza aggiungere altro. Poi, incapace di trattenersi, prese la mano che Ada gli porgeva per il baciamano d’addio, e la baciò. Ma non come l’etichetta voleva, limitandosi ad avvicinare soltanto le labbra senza indulgere al contatto: la baciò davvero, tenendola con entrambe le mani, e passandola anche per un attimo sulla propria guancia.
Ada sorrise, e lo guardò con occhi ancora più dolci e vivi. «Del resto» disse infine, «non ho mai capito per quale motivo si perda così tanto tempo a fare i bagagli con cura: dopo un viaggio così lungo, il contenuto di valigie e bauli arriva a destinazione sempre in condizioni pietose. Forse… forse farei meglio a dedicare queste ultime ore a rivedere i miei appunti…»
Lasciò la frase in sospeso, e le parole sembravano restare a galleggiare nell’aria, come farfalle indecise: «…e forse potresti aiutarmi a metterli in una forma migliore, confrontandoli un’ultima volta con i tuoi…» disse. E poi sorrise, e infine rise di nuovo la sua risata.
E Luigi, che non osava ancora dar fiato alle sue emozioni, salì con un balzo sulla carrozza, e chiuse di slancio lo sportello.
* * *
Il congresso dei filosofi naturali, o meglio la “Riunione degli Scienziati” che si tenne a Torino nel settembre 1840 fu un evento davvero memorabile. L’organizzatore principale, sotto gli auspici della corona, fu Giovanni Antonio Amedeo Plana (Voghera, 6 novembre 1781 – Torino, 20 gennaio 1864), astronomo e matematico tra i più importanti d’Europa. Fu lui a chiamare a Torino tutti i maggiori scienziati italiani, molti dei quali si distinsero, qualche anno più tardi, anche come fattivi interpreti del Risorgimento nazionale. E fu lui in persona a invitare dalla lontana Inghilterra Charles Babbage (Londra, 26 dicembre 1791 – Londra, 18 ottobre 1871), geniale matematico di Cambridge, che per tutta la vita lavorò a quello che è indiscutibilmente riconosciuto come l’antesignano dei moderni computer, l’Analytical Engine.
Al congresso partecipò anche il giovane capitano del genio Luigi Federico Menabrea (Chambéry, 4 settembre 1809 – Chambéry, 24 maggio 1896) che dopo aver rimpiazzato come comandante del Forte di Bard Camillo Benso conte di Cavour, lo avrebbe rimpiazzato più avanti anche come presidente del consiglio del Regno d’Italia. È però del tutto improbabile che sia riuscito a passeggiare per i viali del Valentino con Augusta Ada Byron King, contessa di Lovelace (Londra, 10 dicembre 1815 – Londra, 27 novembre 1852), perché non risulta che la figlia di Lord Byron abbia partecipato al simposio torinese. Ma è certo che Ada affiancò fin da giovanissima Charles Babbage, a causa della sua passione totalizzante per la matematica (proprio come sua madre Annabella, che Byron chiamava “mia principessa dei parallelogrammi”). È invece non solo probabile, ma del tutto certo che Ada ricevette, tradusse e integrò la memoria che Menabrea scrisse sulla Macchina Analitica di Babbage, consentendo così una sua maggiore diffusione. Visto che Ada aiutava Babbage soprattutto nel compilare le schede di programmazione della Macchina Analitica, è celebrata come la prima “softwarista” della storia, e un linguaggio di programmazione è stato chiamato ADA in suo onore.
Questa storia è tratta dal volume Storie che contano dei Rudi Mathematici (Codice Edizioni, 2017). La pubblicazione su MaddMaths! per la rubrica omonima “Storie che contano” è stata autorizzata da Codice Edizioni in occasione dell’Ada Lovelace Day, 14 ottobre 2025. Ringraziamo l’editore per la disponibilità e per aver reso possibile questa condivisione.
Gli autori

I Rudi Mathematici (Rodolfo Clerico / Rudy d’Alembert, Piero Fabbri / Piotr Rezierovic Silverbrahms, Francesca Ortenzio / Alice Riddle) sono autori della omonima e-zine di matematica ricreativa, pubblicata in rete dal 1999.
Il racconto è scaricabile qui nei formati PDF, ePub e AZW3.
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Per maggiori informazioni, contattare Alice Raffaele, curatrice della raccolta.














