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Lucia Di Vizio è Directeur de recherche del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique, equivalente francese del CNR italiano) a Parigi e da qualche tempo è anche l’editore capo della Newsletter della European Mathematical Society (che trovate qui). Ascoltiamo cosa ci racconta. Intervista a cura di Roberto Natalini.

Roberto: Dunque, cominciamo. Intanto esaminiamo il tuo status di giovane matematico. Quanti anni hai?

Lucia: 41 (risata malinconica) insomma, non so se posso essere considerata giovane.

R.: Beh, io sono il maggiorante mobile di riferimento, per cui fino a quando rimani più giovane di me, sei “giovane”. Sei un matematico? Se sì, da quanto tempo?

L.: Domanda difficile. Sì sono una matematica. E ho deciso di fare un dottorato già al primo anno di università. Per auto-definirmi matematico ce ne ho messo di tempo. Di solito quando mi chiedono che lavoro faccio, dico che lavoro al CNRS  e tutti pensano che faccia la segretaria…

R.: Ma come sei pessimista!

L.: Ma no, è un mestiere rispettabilissimo. E comunque indicativo della visione media, di quello che pensano gli altri.

R.: Ma insomma, qualche volta avrai pensato a te come un matematico?

L.: Sì, qualche volta mi scappa, piuttosto in francese: “Je suis matheuse”. Ma no, non c’è un momento. Forse quando ho avuto il posto qui al CNRS.

R.: E perché hai scelto di fare matematica?

L.: In realtà ci pensavo fin da piccola. Mio padre è insegnante di liceo di matematica. E quindi nel mio immaginario dalla matematica veniva fuori un giochino di carte in cui indovinavo la carta scelta da qualcuno, ed era una cosa un po’ algoritmica. Avevo tre o quattro anni e la matematica era quello che mi permetteva di fare bella figura in società. E quindi mi piaceva tantissimo. Per una serie di cose da piccola ho passato più tempo con mio padre, e mi faceva fare giochini del genere. E la cosa è rimasta, anche se fino a quando non sono andata all’Università proprio non mi vedevo come ricercatrice. Poi però, cominciando i corsi, ho capito che mi sarebbe piaciuto fare quel tipo di carriera.

R.: E dove hai fatto l’Università?

L.: A Padova.

R.: E come sei finita a Parigi?

L.: A Parigi ci sono venuta per fare il dottorato. E ci sono arrivata per un concorso di circostanze. Mentre mi stavo laureando feci tante domande all’estero perché avevo paura di non passare il concorso di ammissione al dottorato. Mi hanno presa a Parigi e questo concorso non l’ho mai fatto, alla fine. Sono arrivata qui per fare un DEA (Diplôme détudes approfondies) con una borsa dell’INdAM (Istituto Nazionale di Alta Matematica), ho incontrato quello che sarebbe diventato mio marito, ho avuto una borsa di dottorato e insomma … ho perso il controllo (ride).

R.: Capita…

L.: Comunque è stata una scelta sofferta. Tutto è successo un po’ troppo velocemente. Ho vinto la borsa, ho finito il dottorato, ho avuto un posto al CNRS, e non ho mai avuto un momento per rifletterci veramente. Adesso sono contenta, ma certo, se non avessi incontrato mio marito forse non sarei rimasta. E poi mio marito è abbastanza mediterraneo, è di origine algerina, per cui è un po’ francese, ma un po’ anche no. Ha un modo un po’ diverso di vedere i rapporti personali, anche familiari, che trovo più vicino al nostro, anche se è vissuto in Francia.

R.: Parliamo di matematica adesso. Apriamo ossia quella sezione in cui non si capisce nulla, io per primo, e in cui facciamo vedere che facciamo cose di livello elevato. Di cosa ti occupi? Mi sembra che tu sia un’algebrista, ma non lo so veramente.

L.: Beh, ti devo dire che ho dei seri problemi di identità. Ho fatto cose abbastanza diverse, per cui ho difficoltà a definirmi. Sono cresciuta in un gruppo di teoria dei numeri, di aritmetica. In realtà mi occupo di una cosa che si chiama “Teoria di Galois differenziale”, ossia la teoria di Galois per le equazioni differenziali lineari, che ha diverse implicazioni in teoria dei numeri.

R.: Per cui sei a metà tra l’analisi e l’algebra.

L.: No, no, non c’è molta analisi, sai le equazioni differenziali lineari sono oggetti molto algebrici. E faccio anche equazioni alle differenze, ma insomma, sono sempre problematiche molto aritmetiche, se vogliamo. Ci sono problemi aritmetici che uno studia meglio se sono legati alle soluzioni di equazioni funzionali.

2013-12-25 13.18.58R.: Capisco (non capisco, NdR). Ma come mai ti sei messa a studiare questa cosa?

L.: È stato un po’ così, un caso della vita. Quando mi sono laureata a Padova, il mio relatore collaborava con delle persone di Parigi, e loro si occupavano di argomenti abbastanza “vicini” alle teorie di Galois differenziale, per quanto non ci sia traccia di queste cose nella mia tesi di dottorato. Lì avevo lavorato alle equazioni differenziali aritmetiche e subito dopo è stato naturale occuparsi di teorie di Galois differenziali.

R.: Ma ne sei pentita?

L.: No, no, anzi mi piace molto.

R.: Questo argomento rispecchia qualcosa del tuo carattere?

L.: Mah, non so… Non credo che ci sia una gerarchia nei problemi. Penso che quando cominci a interessarti a un problema, a entrarci dentro, poi finisci anche per appassionartene. Non credo che ogni argomento sia equivalente, nel senso che abbiamo tutti delle inclinazioni, ma non è che abbia un a priori sui problemi. Tuttavia mi piace che la ricerca sia anche un luogo di incontro, per cui le cose sono andate avanti anche grazie ai rapporti personali. Ho incontrato delle persone con cui discutevo bene, avevo voglia di lavorare, e le cose si sono evolute di conseguenza. Cioè i rapporti personali hanno avuto un peso nel mio percorso di ricerca.

R.: Tuo marito è matematico?

L.: Sì, ma facciamo cose diversissime. Abbiamo proprio difficoltà di comunicazione. Lui è un geometra riemanniano, quindi, proprio non…

R.: Veramente dal mio punto di vista (di analista applicato) in realtà fate la stessa cosa, siete confinati in quella roba che chiamo “Algebra&Geometria”.

L.: (ride, forse solo per cortesia) In realtà abbiamo grande difficoltà a parlare di matematica. Cioè, lui segue un po’ di più la mia ricerca perché lo obbligo a correggermi tutte i rapporti di attività che scrivo in francese, domande di progetti etc…

R.: Insomma, riassumendo, per te la matematica è in primo luogo un modo di stare con le persone.

L.: Sicuramente l’aspetto umano è molto importante. Per esempio non riuscirei mai a scrivere un articolo con una persona con cui non mi sento a mio agio. Non è strettamente legato all’amicizia, ma piuttosto ad una certa sintonia. In fondo un articolo è sempre un modo di mostrarsi agli altri, per cui devi condividere una stessa sensibilità con coloro con cui lavori, altrimenti possono nascere delle tensioni difficili da gestire, perché nessuno accetta di mostrarsi diversamente da come ritiene sia giusto. Lavorando si condividono cose personali, le incertezze, le paure, l’ansia di non arrivare alla fine, la paura del giudizio esterno, che sono cose profonde per una persona. Insomma, la collaborazione matematica è una forma di amicizia, nel senso che si condividono cose importanti.

R.: Questa me la segno. Senti, poco tempo fa (in realtà due anni fa, NdR) sei stata promossa Directeur de Recherche del CNRS. Qual è secondo te il risultato più significativo che ha motivato questa promozione? Insomma, c’è un qualche cosa che ti caratterizza?

L.: Questa domanda mi mette in difficoltà. Intanto non me l’aspettavo ed è stata una bella sorpresa. Bisognerebbe chiederlo agli altri cosa apprezzano del mio lavoro. In generale credo che quello che piace a me, non è quello che gli altri apprezzano di più. A volte scrivi un articolo senza metterci tanto il cuore, e agli altri piace tantissimo.

R.: Hai mai pensato di lasciare il CNRS e andare all’Università?

L.: Sì e no. Poiché siamo in due, è più semplice spostarsi se uno dei due è al CNRS, anche considerando che mio marito lavora a Grenoble. Invece cambiare Università in Francia è molto difficile e l’idea di rimanere bloccata da qualche parte per altri 25 anni non mi piace molto. Insomma, la cosa che mi ha tenuto legata al CNRS non è stata tanto l’assenza di insegnamento obbligatorio, quanto la possibilità di potermi spostare facilmente.

(L’intervista si è interrotta per ragioni di tempo. Riprendiamo dopo molti giorni, ed è il motivo per cui sembra lunga come due interviste…)

R.: Ma di che abbiamo parlato? Non ricordo nulla…

L.: Abbiamo parlato un po’ della mia carriera.

R.: Ok, ma ancora non hai risposto alla mia domanda cruciale. Se dovessi spiegare in parole povere alla tua vecchia zia Ermelina di cosa ti occupi, cosa diresti?

L.: Di solito, quando sto in famiglia e mi fanno questa domanda, io scappo in cucina. Ma ho capito, ci provo. Mi occupo di problemi di aritmetica, di numeri. Per la maggior parte del tempo mi occupo in realtà di equazioni alle q-differenze. Sono delle equazioni che prendono in considerazione una trasformazione dello spazio che è una dilatazione, un’omotetia, si itera questa trasformazione molte volte, e si vedono le strutture invarianti di questa trasformazione.

R.: Ma c’entra veramente Galois in quello che fai? Se dovessi spiegare a Galois perché il suo nome è coinvolto nelle tue ricerche, pensi capirebbe?

L.: Sì, certo, un legame c’è ancora. Lo spirito è molto simile a quello della teoria di Galois classica, e anche gli enunciati. Solo che mentre nella teoria classica si ha a che fare con la radici di equazioni algebriche, qui si ha a che fare con le soluzioni di equazioni funzionali. E così, come nel caso classico hai le radici di un polinomio e consideri gruppi di trasformazione che preservano il polinomio, quando hai delle equazioni differenziali, hai uno spazio vettoriale di soluzioni, e quindi consideri delle trasformazioni che preservano questo spazio di soluzioni. Quindi è veramente la stesso tipo di filosofia. Al posto di avere un gruppo di permutazioni, hai un gruppo di matrici.

R.: Ok, non sono sicuro che zia Ermelina abbia capito. E ci sono motivazioni applicative dietro alle tue ricerche?

2013-12-26 14.03.23L.: (lunga pausa) Diciamo che alcune di queste cose hanno applicazioni allo studio dell’integrabilità dei sistemi dinamici hamiltoniani. Sono cose che io conosco, ma da lontano, non ci ho lavorato direttamente. Certo, forse i precursori all’inizio erano motivati proprio dallo studio di questi sistemi dinamici, e questa preoccupazione è persistente. Però tutti quelli che hanno lavorato in questo campo avevano una forte propensione per l’algebra.Tuttavia è una teoria che coinvolge anche persone con una formazione molto diversa. Proprio in questo periodo stiamo presentando un progetto insieme ad alcuni informatici che si occupano di cose un po’ combinatoriche. Per esempio quando vuoi contare delle cose, come delle configurazioni geometriche che ottieni in modo combinatorico aggiungendo degli elementi, e contandole ottieni un’infinità di numeri e le puoi considerare come una serie formale. E di solito queste cose soddisfano un’equazione funzionale, e il fatto di conoscere delle simmetrie dell’equazione, degli invarianti, ti dà delle informazioni sulla serie. Per questo interagisco anche con persone che hanno una formazione molto applicata.

R.: Ho capito (forse, NdR). Adesso cambiamo argomento. Riesci a pensare di tornare in Italia?

L.: In realtà no. Ormai dopo 17 anni in Francia mi accorgo di essere evoluta in modo diverso rispetto alle persone che sono rimaste in Italia. È proprio una questione di esperienza di vita, di esperienze. Il fatto di vivere in una cultura che è simile alla nostra, ma non identica, non è né un bene, né un male, ma questa cosa mi ha cambiata.

R.: Anche tenendo conto di questa diversa prospettiva, qual è il tuo punto di vista sui problemi che trovano le donne nel mondo della ricerca matematica?

L.: Intanto in Italia ci sono tante donne, almeno giovani, che fanno matematica. E l’onda avanza e si femminizzano anche i gradi più alti, anche se lentamente. A me non sembra che ci sia un vero problema della presenza femminile in Italia. In Francia invece è molto diverso. Ci sono veramente poche donne, non tanto a livello di dottorato, ma l’ottenimento del posto è veramente uno sbarramento. E il passaggio dal livello iniziale, che qui si chiama Maître de conférences, a quello di professore, è veramente difficile per le donne, soprattutto in matematica pura. E devo dire che qui l’ambiente lo trovo un po’ maschile, anche se non mi sento particolarmente vicina alle analisi del problema che ne fanno alcuni gruppi femministi locali. Ma è oggettivo che ad ogni tappa della carriera c’è una perdita netta della presenza femminile.

R.: E quali sono secondo te i motivi veri di questa disparità?

L.: Osservo che anche tra le coppie giovani si riscontra un’organizzazione abbastanza tradizionale della famiglia, per cui i figli probabilmente pesano più sulla donna che sull’uomo, proprio in termini di tempo. Ma questo è un livello superficiale. A livello più profondo c’è una cosa che ho riscontrato anche su me stessa, e che crea un senso di fatica con il passare degli anni, ed è che nei rapporti quotidiani sei un po’ un’outsider, anche se non si vede, e una parte del problema è che questo rimane sempre un po’ difficile da precisare. Sei un po’ un’outsider perché non sei inclusa in un sistema di solidarietà amichevole che si crea tra gli uomini. E alla lunga ti senti un po’ sola e ogni cosa pesa un po’ di più. E dopo tanti anni uno alla fine lascia perdere. Certo, nel mio caso conta anche il fatto di essere straniera, ma la mia impressione è che il fattore principale sia nell’essere donna. Insomma, un sistema maschile è regolato da un sistema di relazioni maschili, che non ti fa sentire a tuo agio. A volte sento che dovrei dire di più, ma poi la fatica di dire sempre le stesse cose prende il sopravvento. Non sono mai grandi episodi, nulla di eclatante o di particolarmente sessista, ma percepisci una differenza, come l’idea che non ti si possa proprio mandare in consiglio di amministrazione dell’Università, perché è meglio mandarci un uomo, che in queste cose politiche si sbroglia meglio. Insomma, è stancante dover sempre stare sul chi vive per non farsi isolare. Voglio dire che a una donna è richiesta una maggiore determinazione, che a volte si traduce in una maggiore aggressività, per ottenere certe responsabilità, e non tutte hanno voglia o se la sentono.

R.: Per provare a uscire da questa sensazione di fatica, passiamo alla serie finale delle domande più amene. Cosa fai quando non fai matematica?

L.: Intanto da due o tre anni a questa parte faccio abbastanza sport, cosa che potrebbe meravigliare (o far ridere) chi mi conosce un po’. E questo mi prende abbastanza tempo, perché con questa attività ho incontrato delle persone normali, non matematici per capirci (risate). Ed è stata una cosa difficile, perché sono arrivata con il dottorato, mio marito è matematico, e quasi tutti i nostri amici lo sono. Che è una cosa asfittica alla lunga. Invece con questa attività sportiva abbiamo conosciuto un sacco di persone nuove, cosa che ci assorbe anche nella vita sociale. E poi a me piace cucinare e faccio anche bricolage, butto giù i muri, sto sempre con il trapano in mano. A mio marito non piace molto fare questi lavori, invece io ho passato l’infanzia a passare i cacciaviti a mio padre e quindi qualche cosa so fare.

R.: E che sport fai?

L.: Faccio nuoto e yoga. Ed era dall’inizio dell’università che non facevo nulla. Mio marito invece era molto sportivo, ma da qualche anno si era fermato pure lui. E ad un certo punto mi ha detto che bisognava fare qualcosa, e anche se all’inizio mi ha trascinato un po’ a viva forza, poi mi è piaciuto subito ed è diventato il nostro momento sociale durante la settimana.

R.: E poi? Leggi? Vai al cinema?

L.: Vado molto al cinema, anche più volte a settimana. Mi piace leggere, ma di solito solo quando sono in vacanza. Mi piace immergermi completamente in un libro, iniziarlo e finirlo. La lettura di venti minuti in metropolitana non fa per me. Se no va a finire che arrivo in ufficio e chiudo a chiave la porta finché non l’ho finito… E non sono molto selettiva, leggo anche cose di dubbia qualità.

R.: E al cinema ti sei lasciata influenzare dal gusto francofono?

L.: Noooo! (ride). Vado a vedere tutti i film di supereroi, tipo Iron Man, di quelli non ne perdo nemmeno neanche uno. Invece quei film dove parlano tanto e non succede nulla, il dramma psicologico, finché è un bel film va anche bene, ma la maggior parte non sono bei film, sono solo noiosi. Per cui, io seleziono. Certo, quando ero più giovane mi piacevano quei film senza capo né coda in cui vedevi un attimo della vita di una persona che non aveva nessun senso. Una volta ho portato mia madre a vedere un film su una sceneggiatura di Pinter e mi ha detto: “Non verrò più al cinema con te!”. Adesso per fortuna sono invecchiata (ride) e passo le serate a guardare serie tv americane. Alcune di quelle che mi piacciono non sono nemmeno tra le migliori, tipo Fringe, in cui saltano da una dimensione all’altra come niente, o Flash Forward, o Lost, che alla fine era diventato inguardabile. Ecco perché non ho più il tempo per leggere!

R.: Senti, possiamo fermarci qui. Grazie ancora del tempo che ci hai concesso.

L.: Grazie a te!

Roberto Natalini [coordinatore del sito] Matematico applicato. Dirigo l’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del Cnr e faccio comunicazione con MaddMaths! e Comics&Science.

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