Il documento presentato all’VIII Convegno di Comunicazione della Scienza (Napoli, Città della Scienza, 4 dicembre 2009) di Roberto Natalini, Stefano Pisani, Chiara Valerio
Matematica attraverso la letteratura [1]
di R. Natalini, S. Pisani & C. Valerio
La divulgazione della Matematica è difficile anche perché vi sono molte persone di buona cultura che sono convinte di non essere in grado di capirla, nemmeno nelle sue linee più generali. Fra gli stessi matematici molti non hanno fiducia nella possibilità di comunicare ai non esperti problemi e risultati del loro lavoro, e ritengono anche che la stessa riflessione sul pensiero matematico nel suo complesso debba essere riservata a pochi specialisti, logici, epistemologi, eccetera. Penso che i matematici debbano reagire contro questa sfiducia. (E. de Giorgi, Riflessioni su Matematica e Sapienza).
La matematica è un’esperienza difficile da comunicare per molte ragioni. La più profonda sta nel fatto che l’oggetto della matematica è difficile, spesso lontano, anche se mai sconnesso, dalla nostra esperienza immediata. Un’altra difficoltà, forse meno intrinseca, è nel formalismo, che è senza dubbio il maggior elemento di dissuasione con cui gli studenti e i curiosi di saggistica matematico-scientifica devono confrontarsi. Questo formalismo è necessario per chi la matematica la fa, non è un vezzo o un gergo per oscurare la natura delle cose. È uno strumento di sintesi che permette di ragionare in modo preciso ed efficace con gli oggetti mentali di cui si occupa la matematica. Però , questo formalismo ineliminabile dalla pratica scientifica, possiamo cercare di superarlo, almeno in parte, nella pratica della diffusione scientifica, per cercare di costruire un contatto meno mediato con le idee vere e proprie. Se non sapessi leggere, potrei lo stesso gustarmi un romanzo se qualcuno me lo leggesse ad alta voce, decifrando e traducendo in suoni quei caratteri per me misteriosi. E se il testo fosse in una lingua straniera, con remoti riferimenti e magari in caratteri sconosciuti, questo qualcuno potrebbe anche tradurre per me, interpretando, riassumendo e traslando le parti di difficile traduzione. Ma qual è la differenza tra leggere un romanzo e capire un teorema? Tra letteratura e matematica? La matematica si trascina dietro il concetto di verità. Anzi, meno teleologicamente, il concetto di verifica. Il fardello della verifica. Alla matematica non si concede mai nessuna finzione narrativa. Alla matematica si chiedono esattezza, chiarezza e sintesi. La matematica è per gli specialisti, e la letteratura è universale.
Tuttavia la matematica è un linguaggio così universale che deve per forza essere una fonte inesauribile di esperienza narrativa. In fondo tutti cominciamo a contare con le mani e quando arriva il numero undici, e le dita non bastano, c’è un primo, impressionante, salto di astrazione che coincide quasi perfettamente con l’immaginazione. Se contare non è ancora un’esperienza narrativa, bisogna sempre chiedersi cosa si sono scambiate, dove confinano, e perché si rincorrono, la letteratura e la matematica. Perché raccontare come si conta, come si costruiscono i naturali a partire dalle dita è, in prima approssimazione, costruire i numeri naturali.
L’Obiettivo di questo studio è cercare di cominciare a costruire un modello di diffusione, di informazione e di contenuto riguardante gli sviluppi concomitanti della matematica e delle discipline a essa connesse, che sia basato sul raccontare, sul narrare le esperienze matematiche al di là della tecnica, ma al di qua della biografia e dell’aneddoto. Per fare questo dobbiamo ripartire dalle radici della comunicazione scientifica in campo matematico e cercare di esplorare meglio quella letteratura che ha divulgato la matematica a essa coeva, dalla fine dell’Ottocento a oggi, da quando cioè la distinzione tra i diversi settori della matematica e l’utilizzo di strumenti matematici altamente formalizzati sono diventati necessari ed evidenti.
Se non è dimostrabile, come pure scriveva Pessoa, che “Un poeta che sappia cosa sono le coordinate di Gauss ha più probabilità di scrivere un sonetto d’amore che un poeta che non lo sappia”, è vero che la letteratura, fino a un certo punto della storia culturale dell’uomo ha raccontato la matematica perché la matematica era una parte della realtà. Questo è vero anche adesso, forse anche più di prima, anche quando la matematica sembra astrazione per specialisti.
Ma trovare oggi il filo di questa narrazione è un’impresa non facile e forse non sempre possibile. Questi sono gli esempi presi in considerazione, in ordine cronologico:
1. Intorno al postulato delle parallele. Gioventù senza Dio. Bolyai, Beltrami, Dostoevskij.
2. La geometria a n-dimensioni. Quello che conta in natura. Riemann, von Helmholtz, Abbott Abbott.
3. Inferenza statistica e metodo deduttivo. What Watson knew. Ronald Fisher, Conan Doyle.
4. L’uso umano degli esseri umani. Stocastico! Wiener, Asimov.
Nei Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, l’esistenza di geometrie valide al pari della geometria euclidea è usata come argomentazione dal personaggio Ivan per giustificare il suo agnosticismo. Un argomento su cui il matematico Farkas Bolyai scelse di immolare la vita del figlio, Janos. In una delle sue formulazioni più note il postulato delle parallele recita Per un punto non giacente su una retta data né sul suo prolungamento, non è possibile tracciare più di una parallela alla retta data [2]. Il problema che ossessiona i matematici, da Euclide in poi, è se l’esistenza dell’unica parallela debba essere un assioma fondamentale, una verità, o debba essere piuttosto derivato, una deduzione. Per stabilirlo i matematici o i curiosi prima di Janos hanno percorso sostanzialmente due strade. Hanno provato a ottenere una dimostrazione del V postulato a partire dagli altri. Hanno tentato di semplificare l’enunciato euclideo originale fornendone una formulazione equivalente che si potesse però annoverare con evidenza tra i postulati.
Farkas Bolyai, il padre di Janos, è autore tra l’altro di un altro fortunato enunciato del V postulato. Nemmeno questo però evidentemente vero. Geometria è verità, verità è geometria. L’evidenza è qualcosa che prima di tutto, prima pure dell’astrazione, ha a che fare con gli occhi. E anche senza capire nulla di geometria si può concordare che il problema delle parallele è il problema dell’infinito. Nessun matematico può vedere cosa succede dopo il bordo del foglio sul quale le parallele che traccia non si incontrano. Il problema dell’infinito spazio, in un mondo kantiano, si porta dietro il problema dell’infinito tempo. Dunque dell’eternità, dunque di Dio.
Nei “Fratelli Karamazov” di Fiodor Dostoevskij, Ivan dice al fratello Alioscia : “E perciò ti dichiaro senz’altro che accetto, in tutte lettere, l’esistenza di Dio. Ma ecco, tuttavia, che cosa occorre rilevare: posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a conoscere soltanto uno spazio a tre dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono anche ora, geometri e filosofi, e anzi fra i piú grandi, i quali dubitano che tutta la natura, o piú ampiamente, tutto l’universo, sia stato creato secondo la geometria euclidea, e s’avventurano perfino a supporre che due linee parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla terra, potrebbero anche incontrarsi prima o dopo nell’infinito. E così, cuore mio, io ho tratta la conclusione che, se nemmeno questo mi riesce intelleggibile, come potrei mai innalzarmi al concetto di Dio? Umilmente riconosco che in me non c’è nessuna capacità di risolvere problemi simili: in me c’è una mente euclidea, terrestre, e come potrei pretendere di ragionare su ciò che non è di questo mondo?”
La dimostrazione che lo spazio può essere concepito indipendentemente dai sensi, ossia può essere assunto come una entità logica, è una certezza per Bernhard Riemann, che è un matematico, una scommessa per von Helmholtz, che è un fisiologo, ed è una metafora indimostrabile ma ineccepibile, per Edwin Abbott Abbott, scrittore, teologo e grammatico, autore del romanzo di fantamatematica “ Flatlandia”. Per tutti e tre, nel giro di trent’anni, questa dimostrazione si rivela pericolosa perché scardina l’esempio principale, fornito da Kant, di proposizione sintetica a priori.
Il protagonista di Flatlandia è un quadrato, matematico piuttosto raffinato, discreto osservatore del mondo, con una casa pentagonale e figli pentagonali, una moglie linea retta, servitori triangoli e nipoti esagonali. Uno dei nipoti è un esagono sveglio assai che lega la descrizione aritmetica del mondo alla descrizione geometrica. Come se i simboli avessero sempre un corrispondente nel mondo delle forme. E un significato. “Il piccolo esagono meditò un poco su questa affermazione e poi disse: “ma tu mi hai insegnato a innalzare i numeri alla terza potenza, anche 33 avrà un significato in geometria; qual è questo significato?”. “Nessun significato ,” risposi io “almeno, non in geometria, perché la geometria non ha che due dimensioni”(…) “Se tu dicessi cose meno insensate, ricorderesti di più quelle che hanno un senso” [3] Tuttavia, qualche anno prima, Gauss stesso scriveva a Bessel, “secondo la mia più profonda convinzione, la dottrina dello spazio occupa rispetto alla nostra conoscenza a priori un posto del tutto diverso da quello della teoria pura delle grandezze; infatti manca del tutto alla nostra conoscenza della prima quella completa convinzione della sua necessità (e quindi anche della sua assoluta verità), che è propria della seconda; dobbiamo umilmente riconoscere che mentre il numero è un puro prodotto del nostro spirito, lo spazio ha una realtà anche al di fuori del nostro spirito, e le sue leggi noi non le possiamo descrivere interamente a priori [4].
Il matematico Sir Ronald Fisher, nato in un mondo povero abbastanza e plausibile di derive criminose nel quale non c’erano individui ma solo uomini e donne tutti sostituibili l’uno all’altro, punti in un diagramma sociale molto più vasto, sintetizzò e sistematizzò la realtà fino a trarne distribuzioni generali per insiemi di punti. La sua matematica era vita prima di essere matematica ed era anche scienza sociale che fu resa narrativa da Conan Doyle, che imbecca Holmes con È l’uso scientifico dell’immaginazione, ma abbiamo sempre una base materiale sulla quale innestare una speculazione.
Infine quando il fisico Norbert Wiener si preoccupa di Cibernetica e Religione dopo aver scritto anni prima la sua Introduzione alla cibernetica, aver progettato e costruito sistemi di calcoli e segnali che sono alla base delle comunicazioni moderne, Isaac Asimov, contemporaneamente, scrive e risolve il problema metafisico legato alla religiosità espressa dalla predicibilità, nella Trilogia della fondazione, introducendo la psicostoriografia, sorprendentemente adombrata nel 1940 nel “Manifesto della matematica futurista” di Filippo Tommaso Marinetti.
Letteratura e divulgazione della matematica
La letteratura è un buon grimaldello per la diffusione della matematica perché racconta la necessità del formalismo, incuriosisce e non crea nella mente del lettore, studente o solo curioso, una inibizione dovuta ad un pensiero purtroppo assai diffuso: “Non capisco la matematica”. I romanzi non insegnano la matematica, come d’altronde non insegnano la vita. Ma creano esempi, generano eco, lasciano le pulci nelle orecchie e spingono lontano il male, la paura dell’inadeguatezza a capire e contribuire. In fondo quando Michal Crichton apre il suo Congo con “Solo un pregiudizio e una errata lettura della proiezione di Mercatore può illuderci sull’enorme vastità del continente africano”, sta dicendo che chi non conosce la matematica non può veramente meravigliarsi del mondo. Scrive P. R. Halmos: “La migliore notazione sarebbe di non avere notazioni; evitare quando è possibile di usare un complicato insieme di caratteri alfabetici. Un buon punto di partenza per prepararsi a esporre per iscritto un argomento matematico è di fare finta che sia parlato. Immagina di stare spiegando l’argomento ad un amico durante una passeggiata in un bosco, senza avere a disposizione fogli sui quali scrivere; usa il simbolismo solo quando è strettamente necessario. ”
L’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa e dell’opinione pubblica si fonda finora su una comunicazione scientifica e matematica spettacolarizzata e a volte eccessivamente aneddotica, senza una reale sensibilità contenutistica alla disciplina. La matematica mediatica è spesso solo un belletto o un ricamo. L’opportunità culturale della matematica applicata, che opera ricerche in settori altamente interdisciplinari e che si occupa della soluzione di problemi quotidiani, è quella di fornire, per naturale vocazione, le applicazioni concrete della disciplina che hanno la duplice funzione di suscitare attenzione e di essere uno strumento adeguato prima alla comprensione, e poi, con mezzi diversi dalla narrativa, all’apprendimento.
La letteratura contemporanea: David Foster Wallace, i frattali e la topologia.
Certo quando passiamo a parlare della matematica contemporanea e del suo rapporto con la letteratura la faccenda diventa decisamente più complessa. A partire dagli anni ’20, ma in modo deciso nel secondo dopoguerra, la matematica ha avuto un’esplosione esponenziale, favorita e in parte motivata dalla nascita del computer. Oltre a una smisurata potenza di calcolo, alcune “soluzioni” sarebbero state incalcolabili senza calcolatori, si è espansa proprio la capacità di “vedere” dei matematici. Si pensi ai frattali o alle dimostrazioni assistite dei topologi nel caso del teorema dei quattro colori. Sono stati dimostrati più teoremi negli ultimi 30 anni che in tutto il resto della storia dell’umanità. Sono caduti problemi prima inarrivabili come la congettura di Fermat o quella di Poincaré. Eppure la letteratura contemporanea, tranne alcune belle biografie, non riesce ancora a parlare di questi risultati.
Un caso a parte è costituito da David Foster Wallace. Nel 2003, Wallace pubblicò un saggio di 344 pp. sul concetto di infinito in Cantor dal titolo “ Everything&More” (trad. Italiana: “Tutto e di più”). Una cosa insolita per uno scrittore di romanzi, forse meno sorprendente considerando i suoi numerosi saggi spesso condotti con uno stile tecnico-scientifico e il fatto che aveva una laurea in filosofia con una tesi sulla logica modale. A Wallace sarebbe piaciuto passare per un geniaccio della matematica, e scriveva cose del tipo: “Quando lasciai il mio distretto squadrato in mezzo alla campagna dell’Illinois per andare a frequentare l’università dove si era laureato mio padre fra i vivaci rilievi delle Berkshires nel Massachusetts occidentale, sviluppai un’improvvisa fissazione per la matematica.” [5] Però questa fissazione andava al di là di una semplice esibizione di complessità linguistico-scientifica, e veniva intesa anche, e più profondamente, come linguaggio capace di elaborare e trasmettere idee belle e difficili, qualche cosa di solidamente “vero”, qualche cosa di utile a capire la realtà e il complesso mondo tecnologico che ci circonda: “Coloro che hanno avuto il previlegio (o l’obbligo) di studiarla, capiscono che la pratica della matematica superiore è, in effetti, un’arte e che dipende non meno di altre arti da ispirazione, coraggio, lavoro duro, etc…, ma con la caratteristica supplementare che le “verità” che l’arte della matematica prova a esprimere sono deduttive, necessarie, sono verità a priori”. [6]
Ma di fondo la matematica gli serviva anche come cornice strutturale del suo maggior romanzo “Infinite Jest” (1996). Quando lo si legge, la prima difficoltà che si incontra è di capire come sia organizzata la storia. Lo scorrere del tempo non è lineare, vi sono salti, cambiamenti di punti vista, di luogo, di linguaggio, alcune importanti omissioni. Il tutto sembra organizzato in modo non casuale, ma misterioso. Per cui è naturale chiedersi con che criterio queste cose siano state decise dall’autore. Certo, potrebbe averlo fatto a occhio, senza regole precise. Ma allora perché tutte queste simmetrie ed altre evidenti tracce di una struttura organizzata che emergono dappertutto?
A questo in parte risponde lo stesso Wallace in una famosa intervista del 1996. [7] L’intervistatore dice di aver osservato che il libro sembra strutturato come un frattale, ossia un oggetto matematico che presenta la stessa struttura su diverse scale. Un certo argomento appare in una prima forma, poi appaiono tanti altri argomenti e quindi il primo argomento ritorna in una seconda forma più grande che contiene la prima e così via. Wallace a questo punto, e in modo abbastanza sorprendente per qualsiasi lettore medio, risponde: “È proprio una delle cose su cui si basa il romanzo. È in effetti strutturato come una cosa che si chiama triangolo di Sierpinski, un tipo primitivo di frattale piramidale.” E questo frattale è popolato di infiniti cantoriani, curve algebriche, cicloidi, cardiodi, parabole, iperboli (sia nel senso geometrico che letterario), equazioni differenziali e trigonometria. E dovendo scegliere se meravigliarci di fronte a questa esplosione di matematica o goderci la narrazione altrettanto esplosiva dell’autore, sarà opportuno tenere a mente la storia del “ topologo Übermensch-delle-applicazioni-sulle-curve-chiuse di fama mondiale A.Y. (‘Campo-Vettoriale’) Rickey della Brandeis Univ., ora deceduto, che faceva sempre meravigliare Hal e Mario a Weston togliendosi il gilè senza togliersi la giacca, cosa che M. Pemulis anni dopo spiegò come un trucchetto da oratore-da-quattro-soldi basato su certe proprietà delle funzioni continue, rivelazione che dispiacque a Hal in quel modo segreto del tipo Babbo-Natale-non-esiste, e che Mario semplicemente ignorò, preferendo vedere la cosa del gilè come puramente magica.” [8]
Questa immagine sintetizza bene il senso del nostro discorso. Forse la letteratura è la chiave che ci permette di apprezzare la magia della matematica senza danneggiarla troppo. Se non a studiarla, almeno ad apprezzarla meglio nella vita di tutti i giorni.
[1] Questo studio nasce come progetto del gruppo per la Divulgazione della SIMAI, la Società Italiana di Matematica Applicata e Industriale, ed è parzialmente finanziato da un assegno di ricerca della Fondazione “Antonio Ruberti” nell’ambito del progetto “Metodi e modelli di comunicazione della Scienza”.
[2]La formulazione è di John Playfair, matematico e astronomo scozzese (1748 – 1819 )
[3]Abbott, E. A., Flatlandia, racconto fantastico a più dimensioni, [trad. M. D’Amico], Adelphi (1966), p. 107.
[4]Gauss, C. F., Lettera a Bessel del 9 aprile 1830.
[5] Tennis, Trigonometria, Tornado, p. 5.
[6] David F. Wallace, Rhetoric and the Math Melodrama, Science 22 December 2000: Vol. 290. no. 5500, pp. 2263 – 2267.
[7] Il cui testo integrale si trova qui: http://web.archive.org/web/20040606041906/www.andbutso.com/~mark/bookworm96/