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Come tutti i giocattoli, anche la Matematica ha i suoi ingranaggi nascosti. Da fuori non si vede, ma senza argomenti basati sul concetto di compattezza, molte automobiline matematiche non si muoverebbero proprio. Per questo, sono state elaborate forme diverse della stessa nozione : compattezza per successioni, per ricoprimenti, forte, debole, debole-* (leggasi “debole-star”) compensata e compagnia bella.

Il problema è tipico: risolvere equazioni. Insomma, cercare valori x tali che, per una certa funzione f, interessante per chissà quale motivo, valga la relazione f(x)=0. Qui, il matematico si identifica con un cavaliere d’altri mondi intento a restituire la libertà alla disgraziata variabile x, fagocitata dal drago f. Alcuni mostri si sconfiggono facilmente: se f è un polinomio di grado 1, a colpi di sottrazione e divisione, si recupera una bella espressione esplicita per x. Se f è un polinomio di grado 2, la vicenda rischia di divenire complessa (nel vero senso del termine) ma, in un modo o nell’altro, se ne esce vincitori. Nel cavaliere, però, si instilla il dubbio che una x che verifichi f(x)=0 possa alle volte non esserci proprio e che la lotta col drago rischi di essere un inutile spreco di tempo e di energie.

E’ un problema esistenziale: per essere trovata, la soluzione di un’equazione deve prima di tutto esserci. Come fare per stabilire (prima di imbarcarsi nella battaglia) che ci sia almeno una vittima da liberare? Nella propria cassetta degli attrezzi, occorre trovare una classe di problemi risolti, nel senso che, per questi, si abbia la certezza dell’esistenza di soluzione. Se si tratta di una collezione di pochi esempi sparuti, non si va lontano. Ma se la classe è duttile e modificabile come una chiave a pappagallo, si può essere ben più fiduciosi. Si approssima quindi il problema f(x)=0 da risolvere con un problema g(x)=0 tra quelli a disposizione, in modo da poter affermare che, quanto meno, una soluzione approssimata c’è.

L’approssimazione potrà forse accontentare gli ingegneri, non certo chi si fregia di essere la vestale del rigore assoluto. E, allora, si cerca, piuttosto, una sequenza f_n(x)=0 di approssimazioni del problema, in modo che, all’aumentare di n, l’errore diminuisca. Fino al limite dove, se tutto è fatto a regola d’arte, l’errore è nullo e la soluzione esatta. Il passaggio al limite, però, non è mai da prendere sotto gamba. Nessuno impedisce che, pur avendo determinato una successione di problemi che tende verso il problema limite, la successione delle soluzioni corrispondenti scappi all’infinito o scompaia in qualche recondito anfratto dello spazio in cui si sta lavorando.

La compattezza è la proprietà che garantisce l’impossibilità della fuga per le soluzioni approssimanti e la conseguente esistenza di una soluzione limite. Se lo spazio di lavoro è compatto, l’argomento di limite fornisce un metodo effettivo per garantire la presenza di una fanciulla x da salvare.

Come si riconosce la presenza o meno di compattezza? Qui emerge una differenza abissale tra il caso di dimensione finita e dimensione infinita. Se il problema ha come incognita un singolo numero reale o una collezione finita di numeri (insomma, un punto dello spazio n-dimensionale), giunge in soccorso il Teorema di Bolzano-Weierstrass: compattezza uguale prevenzione della fuga
all’infinito. Quindi, se il mio tavolo è grande un metro per due e tutte le soluzioni approssimanti sono sul tavolo, la soluzione limite c’è ed è sul tavolo (trovarla è un’altra storia, perché è piccola quanto un punto). Questa informazione corrisponde nel linguaggio delle formule ad una stima (uniforme) sulla grandezza delle soluzioni approssimanti.

Il caso infinito-dimensionale è più complicato. La compattezza è di nuovo garantita da stime di grandezza delle soluzioni approssimanti, ma la maniera con cui misurare tale grandezza dipende a seconda del tavolo di gioco. La situazione tipica è quella delle equazioni differenziali, dove le incognite sono funzioni. In quel caso, la proprietà di compattezza è verificata se si hanno stime uniformi non solo sulle funzioni stesse, ma anche sulle loro variazioni (cioè sulle derivate).
E dato che, non di rado, tutte queste stime non si hanno o non si sanno trovare, occorre modificare il concetto di compattezza e piegarlo alle esigenze del caso.

Tutto questo per stabilire fin dall’inizio che una variabile da salvare c’è davvero ed evitare di uccidere un mostro, scoprendo, solo alla fine della fiaba, che il poveretto non stava segregando proprio nessuno.

 

Corrado Mascia

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