di Roberto Lucchetti, professore di Analisi al Politecnico di Milano
Sabato, in un tragico incidente d’auto, sono morti John F. Nash e sua moglie Alicia. Stavano tornando da Oslo, dove Nash aveva ricevuto il premio Abel, assieme a Louis Nirenberg, per i suoi eccezionali contributi all’analisi, in particolare allo studio delle equazioni alle derivate parziali. Premio che, sicuramente, lo ha reso felice, forse più del Nobel ricevuto nel 1994, che però gli aveva dato un’enorme notorietà, anche al di fuori del mondo dei matematici e degli economisti, grazie anche alla successiva biografia scritta da Sylvia Nasar (A beautiful mind, 1998), che ha poi liberamente ispirato il celebre film dallo stesso titolo (2001).
La sua vita è una storia molto complessa e sempre eccezionale. Carattere difficile, imperscrutabile per tutti, dopo scuole frequentate con animo solitario e senza particolari risultati, si iscrive alla Carnegie Mellon di Pittsburgh, a Ingegneria Chimica, probabilmente per compiacere il padre. Ben presto passa a studiare Chimica, ma ancora una volta si trova male, e passa a Matematica. E questo è un fatto che ricordo sempre a chi vive con troppa ansia le scelte dell’Università, nemmeno i geni quando cominciano hanno le idee chiare, del resto anche von Neumann aveva fatto esattamente la stessa cosa… Con Matematica, finalmente Nash ha trovato la sua strada.
Riceve varie proposte di prestigiose Università, che lo vogliono come studente di dottorato. Negli USA contano molto le recommendation letters, che sono tutt’altra cosa dalle lettere di raccomandazione come le intendiamo noi, e quella che accompagna Nash dice semplicemente “this man is a genius”. Ovvio quindi che abbia molte offerte…accetta, non senza esitazioni, quella di Princeton, anche per una questione di vicinanza a casa. E a Princeton si distingue subito per il suo carattere scontroso e asociale, per la sua apparente indifferenza per gli obblighi di studio, e per l’indecisione sul settore scientifico nel quale sviluppare la tesi. Sensibile alle opinioni altrui, fortemente desideroso di riconoscimenti (ancora anni dopo commentava con amarezza di non essere arrivato tra i primi cinque alla William Lowell Putnam Mathematical Competition, un’importante competizione matematica per giovani talenti), decide alla fine di dedicarsi alla teoria dei giochi, quasi sicuramente influenzato dall’enorme carisma che circondava John Von Neumann, a Princeton in quel periodo. Questo nonostante sia considerata come una matematica “minore”, essendo rivolta alle applicazioni. Avendo deciso di occuparsi di questa teoria, propone un modello alternativo a quello di von Neumann.
La sua tesi comincia infatti enunciando esattamente il proposito di proporre un modello non cooperativo per studiare i giochi, in contrapposizione al modello cooperativo sviluppato nel Theory of Games and Economic Behavior (1944). Nel frattempo pubblica anche un breve articolo sulla contrattazione tra due giocatori. Anche in questo campo è incredibilmente innovativo, dal momento che utilizza una tecnica che altri lavori fondamentali, in quegli anni, hanno portato indipendentemente avanti: il cosiddetto approccio assiomatico, che significa caratterizzare una “soluzione” di un qualche problema attraverso un numero ridotto di proprietà che l’oggetto in questione dovrebbe avere. Gli altri due protagonisti, inutile dirlo anche loro Premi Nobel, sono Kenneth Arrow, con il suo teorema detto di impossibilità, e Lloyd Shapley, con la caratterizzazione di quel che oggi si chiama valore Shapley, forse la più versatile soluzione in ambito cooperativo.
Tuttavia, appena conseguito il suo dottorato, i suoi interessi si rivolgono altrove. La teoria dei giochi non gli interessa più. Scrive ancora qualcosa sull’argomento, in quanto ha accettato un lavoro di consulenza alla RAND corporation, dove incontra Shapley, ma chiaramente ha altro in testa. In rapida sequenza, ottiene tre risultati strepitosi: uno in geometria algebrica reale (uno dei teoremi più importanti del lavoro afferma che ogni varietà differenziabile chiusa di dimensione n ha una rappresentazione algebrica in uno spazio euclideo di dimensione 2n+1), poi quel che oggi viene chiamato il Nash Embedding Theorem (ogni varietà riemanniana astratta può essere isometricamente immersa in uno spazio euclideo), ma soprattutto il risultato di regolarità per alcune equazioni alle derivate parziali, che dava risposta al diciannovesimo problema di Hilbert. È ben noto però che questo risultato, insieme alla fama, gli procura una grande delusione, quando viene a sapere che, sia pur con tecniche diverse e in un caso meno generale del suo, De Giorgi ha già dimostrato un teorema di regolarità: ancora una volta si lamenta pubblicamente della sfortuna per non essere stato né il solo né il primo a arrivare alla vetta.
Nel frattempo la sua vita privata è abbastanza complicata: da una donna di cui in seguito non si è mai occupato aveva avuto un figlio che però non ha mai voluto né riconoscere né mantenere (anche se gli ha procurato una particina nel film), e viene anche licenziato dalla RAND per un presunto episodio di omosessualità. Tuttavia la sua vita sembra avere una svolta molto positiva quando si sposa con Alicia de Lardé, sua studentessa, una delle quattro (!) in quel momento iscritte all’ M.I.T. Inoltre la sua reputazione è alle stelle, i suoi successi innegabili. Ma c’è in agguato un mostro che lo terrà prigioniero per i trenta anni successivi, la malattia. Molti matematici, si sa, o sono davvero stravaganti oppure cercano di mostrarsi tali. Per questo forse i primi sintomi sono stati sottovalutati da chi gli stava vicino. Dopo un po’ però tutti si rendono conto che Nash soffre di qualcosa di serio, e la diagnosi è terribile: si tratta di schizofrenia paranoide. È inutile qui ripercorrere quei trent’anni, in cui Nash alterna periodi accettabili, in cui riesce a lavorare un po’ (anche se ha perso il posto al M.I.T.), ad altri di completo delirio: viene ospedalizzato varie volte, sempre contro la sua volontà, e proprio questo, e la volontà di proteggere il figlio, spingono Alicia a chiedere il divorzio. Anche se di fatto non lo abbandonerà mai. All’inizio degli anni novanta Nash, che continua a frequentare Università e IAS a Princeton, spesso vagando da solo e in stato miserevole, tanto da essere chiamato il fantasma, comincia a frequentare qualche seminario e a fare qualche interessante osservazione. È Bombieri tra i primi ad accorgersene. La cosa viene risaputa, i miglioramenti continuano, si forma rapidamente un gruppo di persone, animato dal vecchio amico degli anni di dottorato, H. Kuhn, che cerca di sostenerlo in tanti modi, primo tra tutti quello di fargli ottenere il premio Nobel. Questo avrebbe un duplice effetto su Nash: da una parte un riconoscimento importante dal punto di vista scientifico-mediatico che lo gratifica molto, dall’altra anche l’aspetto economico del premio non è da trascurare, considerando che Nash è dalla fine degli anni ’50 che non prende uno stipendio.
Nash fa discutere sempre: l’assegnazione del premio, anche se queste cose dovrebbero essere riservate, è particolarmente contrastata, tanto che dopo di lui sono cambiate le procedure. Certo, le anomalie di questo conferimento sono parecchie. Non solo la paura, un po’ ipocrita, della sua malattia, se pur in remissione, ma anche e soprattutto perché nessuno più di lui ha dedicato così poca attenzione ai temi che l’hanno fatto candidare al premio. Se ne è occupato durante il dottorato, e mai più. Ma basta questo per renderlo un candidato poco credibile? Io credo veramente di no. Il suo lavoro, che tra l’altro, come dice lui stesso molto chiaramente, riprende e generalizza un’idea di Cournot, e mostra un teorema la cui dimostrazione è oggi richiesta in qualunque corso base di teoria dei giochi, ha avuto delle ricadute strepitose sugli studi degli anni a venire, e continua ad averne. L’idea di equilibrio di Nash-Cournot è basilare e imprescindibile in tutte la applicazione della teoria dei giochi. Poche idee seminali sono state così fruttuose come la sua formalizzazione di gioco non cooperativo in forma strategica, e la sua idea di equilibrio.
Ma torniamo a lui. Quando gli comunicano che ha vinto il Nobel, commenta subito che avrebbe preferito non condividere il premio in denaro con altre due persone, e credo abbia detto la stessa cosa anche stavolta, quando ha ricevuto il premio Abel, proprio martedì scorso. Così come gli è bruciato condividere con De Giorgi il merito della soluzione del problema di Hilbert… Sta di fatto però che il premio rappresenta per lui davvero una svolta, ancora più accentuata dal libro e soprattutto dal film, che hanno fatto diventare una stella mediatica questo grande scienziato che ha passato quasi tutta la parte produttiva della sua vita completamente bloccato dalla pazzia. Nash ricomincia a viaggiare, sempre in compagnia della moglie: si sono risposati nel 2001. Partecipa a eventi e conferenze, congressi e festival. Leggende fatte circolare a arte dicono che è ritornato al lavoro, che pensa di nuovo alla teoria dei giochi. Ho sentito chi vanta qualche forma di amicizia con lui affermare una volta che era interessato a vedere se si poteva integrare la teoria cooperativa all’interno di quella non cooperativa. Poi si è occupato nello specifico di certe soluzioni della teoria cooperativa, in particolare del nucleolo. Di questi suoi lavori c’è però poca traccia in letteratura.
Quel che personalmente mi ha colpito della sua guarigione, quel che ho creduto di capire leggendo quel che lui ha scritto per la cerimonia del Nobel (non gli è stata fatta tenere la Lectio magistralis) è che allontanarsi dai deliri della malattia è stato, almeno parzialmente, un atto di volontà che gli è costato parecchio. I suoi deliri gli davano la speranza di poter realizzare quel che da sempre era stata la sua ossessione: passare alla storia. E possibilmente da protagonista, non da comprimario. Nella sua presentazione a Stoccolma, scrive che Zarathustra, anche se per molti era solo un pazzo, avendo fondato una nuova setta religiosa, per questo avrebbe avuto per sempre proseliti e mai sarebbe stato dimenticato. Quel che forse non ha mai capito che un posto nella storia non glielo toglierà nessuno.
Vorrei concludere dicendo che certa leggenda sul personaggio Nash, anche se la trovo comprensibile, fa un torto alla grandezza e alla complessità del personaggio. Un film di successo non può non basarsi su forzature, anche evidenti, come il fatto che la sua teoria ha superato von Neumann perché ha fatto vedere che in un gioco ci possono guadagnare tutti… la sua non è certo una teoria che prevede scelte basate su cooperazioni sociali: può ammettere comportamenti virtuosi, ma solo se sono nell’interesse dei giocatori singoli, senza “concessioni” al bene comune. E poi Nash è stato un personaggio molto duro, in certi momenti asociale, si è comportato malissimo col primo figlio, ha messo spesso seriamente Alice in difficoltà, non è mai stato simpatetico. Ma è stato una grande mente, anzi una grandissima mente, che ha battagliato a volte contro il mondo, più spesso con se stesso, che ha vissuto, sofferto e che ha alla fine saputo conservare un rapporto per la vita, con una donna davvero eccezionale. Perché nella storia di questo personaggio non c’è una sola persona ad essere eccezionale. C’è una donna che gli è stato accanto sempre, nei momenti più belli e in quelli più difficili, una donna che si è sempre occupata di lui, anche tenendo nel cuore la pena incredibile di rivedere la malattia del suo uomo riflessa nella mente del figlio.
Questo articolo appare contemporaneamente su MatePristem, che ringraziamo per la collaborazione.