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Secondo il matematico Antonio DeSimone, sarà presto possibile produrre speciali superfici idrorepellenti, con un alto grado di  rugosità microscopica, che permetteranno lo scorrimento senza attrito di liquidi posti al di sopra di esse, risultando così difficilmente contaminabili da agenti esterni. Inoltre, una goccia d’acqua posta su un piano con queste caratteristiche, formerebbe uan sfera quasi perfetta, con un angolo di contatto praticamente piatto.

E volete che non mi ricordi come ci si rotolava su quelle superfici rugose? – disse il vecchio Qwfwq, – e questo molto prima che gli scienziati, e tanto meno i matematici, ci mettessero il becco. In realtà era cominciata per un puro caso. A quell’epoca eravamo ancora in molti ad essere goccioline d’acqua. Durò poco, appena qualche milione di anni, ma fu un periodo veramente scatenato, e sì, lasciatemelo dire, bellissimo. Si rotolava quasi sempre, ora di qua, ora di là, e sempre con lo stesso entusiasmo. E poi, chi volete che ci fermasse? Ma attenzione, quando dico rotolare, non intendo quella cosa insipida che si fa oggigiorno. Sì, va bene, lo so, anche io come tutti la mattina mi lascio rotolare sulle ruote di gomma della mia Clio 16v Club per spostarmi da Grottaferrata a Roma, salgo sulla metropolitana ad Anagnina e rotolo di nuovo su ruote, questa volta metalliche, verso il mio ufficio dalle parti di S. Giovanni. Ma non confondiamo le cose, vi prego. Quel rotolare era completamente diverso, e questo di adesso mi è sempre sembrato al confronto un po’ goffo e macchinoso. Certo all’inizio mica era facile, e non tutti ci riuscivano. Per esempio c’erano superficii pietrose, scabre e piene di fessure e anfratti e gole nascoste, che se non facevi attenzione ti capitava anche di finirci dentro e magari di farti assorbire in un qualche faglia acquifera. C’erano terreni incolti e interi deserti in cui capitava di imbattersi, e magari ci mettevi qualche decina di anni prima di ritrovarti a rotolare su delle superfici decenti. Ma quando poi arrivavi su qualche bella foresta pluviale, allora sì che cominciava il divertimento! E che divertimento! E non pensate sempre a quella cosa tipo andare al Luna Park, come io e la signorina Luisa la domenica scorsa, a lasciarsi scivolare un po’ sulle montagne russe. Sì, magari la signorina Luisa farà pure finta di aver paura e io certo, la stringerò forte per confortarla, ma no, non ci si avvicinerà nemmeno un po’ all’ebbrezza di quelle incredibili rotolate. Insomma, ti capitava di cadere da 1000 o 2000 metri in picchiata, per poi andare a urtare su una foglia d’agave o di banano, o quelle strane felci gigantesche che ti sembrava di colpo di essere moltiplicato per mille, per rimbalzare poi a tutta velocità in una qualsiasi direzione, una qualsiasi, e chi riusciva mai ad indovinarla?, e ricominciare a rotolare da tutte le parti. Che poi per noi le direzioni erano proprio tutte uguali e nessuno si interessava mai a dove si andava a finire e se poi era puntuale, o se riusciva a tornare a casa non troppo tardi perché poi l’indomani si sarebbe dovuto svegliare presto per andare a lavorare. Eh no, non eravamo mica di quei tipi lì, che dopo un paio di giri in ottovolante, li vedi con la faccia grigia, ma grigia come la polvere seccata, che sembrano che stiano in piedi per miracolo; un po’ come quell’antipatico del ragionier Cècere dell’ufficio acquisti, che sono ore che ci segue e proprio non ne vuol sapere di tornare a casa.

Poi un giorno, una di noi era passata per caso su una foglia di tipo mai visto, scoprimmo poi che si trattava di una foglia di loto, e subito gli era preso una specie di pizzicorino giù, nelle parti basse. Dico basse, ma è solo per farmi capire, che in tutto quel rotolare nessuno sapeva mai se la testa era in alto o in basso. Per semplicità si dicevano basse le parti a contatto con qualche cosa, quindi magari anche in alto o di lato, e alte quelle più lontane. Che se ti giri e rigiri su una superficie, in fondo cosa ti importa dove sia il basso o l’alto? Ti importa sapere dove sei poggiato, no? Insomma, mi sembra si trattasse di mia cugina Ph(i)Nk, quella che poi a un certo punto si sarebbe fatta includere in un cristallo di rocca per evitare di avere altri contatti con gente a suo dire troppo maleducata. Questa cugina veniva sempre con noi ed era anche simpatica, anche se poi non riusciva mai a tacere davanti agli adulti, spifferando a destra e a manca prodezze che avremmo desiderato fossero solo dimenticate, come quella storia dell’atterraggio sullo sterco di vacca, che se vogliamo dirla tutta era anche colpa sua. E insomma, questa cugina cominciò a strillare che lì ci pizzicava e c’era qualche cosa di strano, una sensazione curiosa, non sgradevole, ma che dai andassimo a vedere e non la lasciassimo lì, che ci sbrigassimo insomma che le faceva anche un po’ paura. Ci radunammo rapidamente e osservammo che era capitata su una strana foglia, con una superficie cosparsa ovunque di minuscoli bitorzoli puntuti, che solo a guardarli ti veniva la paura di farti male, ché avevi paura che potessero addirittura aprirsi dei varchi nel nostro strato esterno. Perché sì, d’accordo, quando sei una gocciolina, può sembrare che non ci sia una grossa differenza tra il dentro e il fuori, ma, per noi, quel dentro era tutto, e solo quel dentro conteneva le nostre emozioni e i ricordi e gli odori, i sapori e anche quella certa piccola differenza che ti permetteva di riconoscerci tra di noi e faceva sì che nessuno mi scambiasse mai per il ragionier Cècere. E insomma, quando si apriva un varco sulla superficie che divideva il dentro dal fuori, tutta quella roba dentro cominciava ad andare fuori, e ti sentivi di colpo un po’più debole e quasi depresso e meno contento di continuare a rotolare su e giù come se niente fosse.

Però, quella volta, ci accorgemmo subito che la nostra paura era infondata. Non so se avete mai provato a correre sulla testa della gente in mezzo a una folla. Oppure a mettere dei trampoli o a saltare da una roccia all’altra come uno stambecco. Improvvisamente, al posto di rotolare normalmente, come avevamo sempre fatto, cominciammo tutti a prendere una spaventosa velocità. Beh, adesso magari ci scriveranno anche dei pesanti saggi scientifici o delle noiosissime tesi di Laurea, e poi come al solito faranno diventare tutto molto difficile, ma per noi la cosa era semplicissima. Prima eravamo abituati a preferire le superfici lisce, senza nessuna asperità. Ma a volte, quando ne trovavamo, succedeva che tutto il nostro bel corpaccione sferico cominciava ad aderire e a strisciare e strusciare con forza, tanto che si formava un attrito così intenso che finivamo per scaldarci tutte e andavamo giù frenate come se si fosse in prima. Se i bitorzoli erano invece troppo distanti, rischiavamo di incagliarci tra uno e l’altro come tanti tonni spiaggiati nella sabbia bassa. Però, se i bitorzoli, queste strane protuberanze che sembravano come dei piedini, o meglio dei piccoli piedistalli che uscissero dalla base della foglia, si trovavanoabbastanza ravvicinati, allora sì che filavi a tutta velocità. Era come agganciarsi a uno skilift, entrare in un’autostrada a 4 corsie, prendere il TGV per andare da Parigi a Lione. Fiuuuum! Da quel momento ci sembrò che non esistesse altro che la foglia di loto e non si capiva come avessimo potuto fare senza fino a quel momento. Con i miei amici cominciammo ad aggirarci in gruppi organizzati, facendo a gara a chi andava più veloce, spaventando coloro che avevano paura di gettarsi a capofitto in quella pista così straordinaria, che se solo ti fermavi a guardarla ti venivano le vertigini. Facevamo i bulli, d’accordo, a volte eravamo proprio scatenati, ma eravamo giovani, e ci divertivamo a cadere giù a valanga spazzando via tutti i frammenti di polvere che si trovavano sul nostro cammino e trascinando nella nostra caduta anche qualche malcapitata gocciolina che per caso si fosse trovata a passare. Le foglie erano sempre pulitissime, grazie a noi, e ci divertivamo un mondo a disegnare figure improbabili, slalom acrobatici, ghirigori fantastici, su quelle superfici verdastre e bitorzolute, trascinati da una gioia ostinata e a volte, anzi quasi sempre, frenetica. E poi un giorno arrivò lei. La chiamavamo la signorina Ghn/U, anche se non abbiamo mai saputo come si chiamasse veramente. Nessuno osava rivolgerle la parola. Perché dal primo momento in cui la vedemmo ci apparve subito semplicemente troppo perfetta. Il suo angolo di incidenza sulla superficie era praticamente piatto, e rotolava deliziosamente e senza sforzo sotto i nostri sguardi stupiti. Certo, come al solito qualche idiota, come il ragionier Cècere, cercava di mettersi in mostra ballonzolandole davanti sperando di impressionarla. Ma com’era patetico, e come ci pareva ridicolo ora anche il nostro di rotolare, quell’incedere panciuto del nostro bordo a contatto con la foglia, quei profili tozzi e appiattiti verso il basso. Come potevamo sperare di impressionare lei, lei che scendeva tranquilla nella sua quasi assoluta sfericità? E badate bene, non che fosse altezzosa o arrogante, macché, mica era nel suo carattere. Era solo che, ecco, per farla breve, era che lei, a noi, non ci vedeva nemmeno. Sentivamo come un sibilo che annunciava il suo arrivo e poi, zaaaam!, vedevamo sfilarci davanti la sua perfetta rotondità, con un incedere così bello e maestoso, che pur nella sua rapidità ce la faceva sembrare praticamente ferma.

Alzi la mano chi di noi non si innamorò di lei a prima vista. Un amore totale, per quella perfezione inarrivabile, che ci fece sentire di nuovo uniti e complici di questa adorazione. Eravamo tutti con lei e la seguivamo dappertutto, e non ci saziavamo mai di tenerle gli occhi addosso. E poi, però, si sa come andò a finire. Si era partiti un giorno tutti in gita a Castelpusterlengo e stavamo passando per l’appunto su di una strana superficie, e io l’avevo detto subito che erano dei nanotubi di carbonio e che bisognava fare attenzione, ma poi il solito Cècere si era messo a fare lo sbruffone e aveva cominciato a fare capriole davanti a tutti per attirare la sua attenzione. E fu proprio in quel momento che d’un tratto la signorina Ghn/U, con una specie di schiocco secco, quasi irreale, assunse di colpo una forma perfettamente sferica. Cioè, noi tutti pensavamo che la sua, di forma, fosse già perfetta com’era, ma proprio in quel momento, grazie a quella straordinaria trasformazione, potemmo apprezzare la differenza tra la vera perfezione e una sua pur notevole imitazione. In un attimo la signorina Ghn/U cominciò ad accelerare notevolmente la sua andatura e, come d’altronde era suo costume, senza dire nulla, si limitò a sparire in pochi secondi alla nostra vista, lasciandoci lì immobili, annichiliti e disperati, attoniti come tante goccioline ghiacciate.

Per quanto mi riguarda, non era ancora del tutto scomparsa che già ne sentivo la totale mancanza, quasi come un vuoto geometrico, una cavità interna che si aprisse in me, una mancanza di materia liquida mai provata prima, insomma una perdita assoluta e irrimediabile di quella perfezione. Sentivo che oramai era finita, ma finita per sempre, che non avrei più osservato una così perfetta rotondità, e che questa assenza, la sua assenza, mi avrebbe segnato per sempre e mi avrebbe inseguito ovunque fossi andato. Da allora, cominciai a vagare senza meta, rotolando senza pensare, un po’ di qua e un po’ di là, ma mai con la stessa gioia di prima. Anzi, quella spensieratezza che aveva caratterizzato le mie scorribande giovanili, si era ora trasformata in una cupa e disperata ansia di ricerca. Un giorno mi sembrò di intravvederla sul bancone del bar di una stazione di servizio di Cologno monzese. Fu un attimo e immediatamente dopo era scomparsa. Un’altra volta mi sembrò di scorgerla mentre scivolava lentamente sulla vetrina di un negozio di abbigliamento sulla passeggiata di Viareggio in una piovosa giornata di settembre. Ma anche quella volta mi ingannavo. Sì, forse quelle gocce somigliavano alla mia Ghn/U, ma no, non erano lei, non avevano la sua intrinseca e incredibile sfericità che anche su di una normale vetrina sarebbe risaltata.

E fu qui che incominciò l’incubo. Mi ero quasi rassegnato a non vederla mai più e anzi, per dirla tutta, mi avviavo per andare a ritrovare la signorina Luisa, dopo il nostro piacevole week-end passato al Luna Park, avendo tra l’altro evitato la seccante presenza del ragionier Cècere, quando ad un tratto, mentre attraversavo la strada, la vidi scivolare, sì proprio lei, la signorina Ghn/U, sul parabrezza di una Jaguar fiammante che procedeva peraltro a velocità abbastanza sostenuta. Nello stupore del momento ci mancò poco che la macchina mi investisse, ma con un salto mi tirai via dalla sua traiettoria e mi misi al sicuro sul marciapiede. Eh sì, era lei! Ne ero totalmente sicuro, e poi, d’altra parte, chi altri poteva assumere quella perfetta forma sferica che avevo appena intravisto, ma che già si apriva un varco nel mio animo, oscurando con pacata fermezza tutti i miei precedenti propositi nei confronti della pur amabile e desiderabile signorina Luisa? Mi girai per riprendere a camminare ed ecco che te la vedo scorrere, tranquilla e maestosa come ai vecchi tempi, sulla lente destra degli occhiali da sole di un distinto signore che già affrettava il passo allontanandosi da me. Ma che succedeva? Stavo forse impazzendo? Ma perché questo amore quasi dimenticato, questa traccia ancestrale di epoche lontane, tornava ora ad ossessionarmi così, senza motivo?

Ci misi qualche giorno a capire, e poi una breve ricerca su Internet mi confermò quello che oramai mi appariva come un colossale imbroglio. Un’industria chimica tedesca aveva infatti commercializzato una vernice che permetteva a tutte le superfici di avere un profilo microscopico simile a quello della foresta di nanotubi di carbonio dove avevamo visto per l’ultima volta scorrere le perfette rotondità della signorina Ghn/U. Questo rendeva tutte le gocce che entravano a contatto con queste superfici, perfettamente sferiche, tonde, senza escrescenze di qualsiasi natura. Queste gocce erano tutte uguali, perfettamente tonde e forse belle, almeno così dicevano tutti. Ma, ai miei occhi, che avevano visto la vera signorina Ghn/U, queste gocce sembravano finte, troppo uguali tra di loro e troppo perfette per essere vere. Perché la signorina Ghn/U era veramente perfetta, ma anche in qualche modo unica e quindi forse imperfetta in questa sua perfezione sferica; e queste pallide imitatrici, queste gocce coltivate in laboratorio, gonfiate artificialmente per assumere un’ingannevole forma sferica, non potevano certo sostituirla, ma solo farmi sentire ancora più amaramente il peso della sua mancanza. Indossai l’impermeabile, guardai ancora una volta per qualche secondo il cristallo di rocca poggiato sulla mia scrivania, e uscii di casa. Traversai un paio di strade quasi senza guardare e finii per suonare al campanello della signorina Luisa. Il portone si aprì e incominciai a montare su per le scale.

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