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Scena 1. Ho 7 anni. E’ un esercizio di sillabazione di parole che iniziano e finiscono con “stra”. Capisco il significato dell’esercizio e sillabo correttamente ma il modo in cui scrivo l’esercizio non è quello che vuole la maestra. Lei alza la voce. Io sostengo la mia posizione l’esercizio è giusto. Lei si altera e vuole che lo rifaccia da capo, io la insulto. Nella classe piomba il silenzio. Lei mi molla un ceffone. Io inizio a mettere i miei quaderni nella cartella e esco dalla classe. Mi ferma il bidello al portone d’ingresso. Nell’intervallo i miei fratelli più grandi mi vengono a chiedere se è vero che stavo scappando da scuola. Non ricordo cosa rispondo. Nei giorni successivi il caso monta e viene abilmente sgonfiato dalla paziente inerzia di mia madre. La reazione ferma all’ingiustizia. Ma anche il mio difficile rapporto con le regole e la tendenza all’insubordinazione. Allora, come ora, questioni non del tutto risolte in me. Oggi comprendo le ragioni della mia reazione e anche le ragione del ceffone. Ricordo, bene, tutto. Questo post fa parte della campagna #lascuolaconta.

Scena 2. Ho 12 anni. E’ la prima ora di scuola. Educazione Tecnica. Non mi sento per niente bene. Dal mio banco verso il fondo della classe faccio appena a tempo ad alzare la mano e prima ancora di arrivare alla porta vomito. Il Professor Tallarini mi accompagna al bagno. Mi tiene la testa mentre continuo a vomitare. Vomito e mi vergogno. Vomito e penso a cosa penseranno di me i miei compagni. Vomito e penso che sono un debole. Non a caso ad aiutarmi è un professore forte, muscoloso, ammirato da tutte le mie compagne. Vomito e piango. Prima di rientrare in classe il professore mi chiede conto di quelle lacrime. Gli confesso la mia vergogna. Mi dice poche parole sul rapporto tra forza e debolezza. E’ un professore di Tecnica, più a suo agio con l’assonometria cavaliera. Ma quello che dice è quello che mi serve. Entro in classe rosso come un peperone, lui liquida l’incidente con poche parole. Per tutto l’anno fatico a guardarlo negli occhi. Ma quello che ha detto resta dentro di me.

Scena 3. Ho 15 anni. Durante l’assemblea d’Istituto, in quanto rappresentante della mia classe, la seconda F, devo prendere la parola. Devo dire tre parole in croce, dire se la mia classe aderisce o no a una certa iniziativa. L’Aula Magna contiene almeno 200 persone. Apro bocca e l’aula diventa buia, la voce trema, le gambe si fanno di gelatina. E’ durissima dire quelle tre parole. Devo farmi una forza tremenda. Dopo tre anni sono rappresentante d’Istituto e in quella stessa aula, gremita all’inverosimile, conduco assemblee davanti a 4-500 persone.

Scena 4. Ho 18 anni. E’ l’anno della Maturità. La professoressa d’Italiano, tostissima, ci riempie di compiti, appunti, materiale aggiuntivo, letture. Stiamo studiando Leopardi. Ci legge “Le ricordanze”. E improvvisamente si mette a piangere. Legge con le lacrime che le rigano il volto. “E qual mortale ignaro di sventura esser può, se a lui già scorsa quella vaga stagion, se il suo buon tempo, se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?” e sta probabilmente ripensando alla sua giovinezza e a noi, che siam tutti giovani in procinto di diventare adulti sale un magone, diventeremo anche noi così? piangeremo anche noi questi anni? Capisco il potere di una poesia che scritta 200 anni prima parla in maniera tanto profonda a due persone così diverse come me e la mia professoressa d’italiano. Capisco di non essere solo a cercare scintille di vita nei libri.

Nicola Ciccoli

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