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Alberto Saracco riflette su come il fatto di provvedere una linea narrativa efficace sia un’esigenza utile non solo nella divulgazione, ma anche nella didattica e nella ricerca stessa.

[Originariamente pubblicato il 9 maggio 2020]

Harry Potter

Non so se avete mai letto la saga di Harry Potter. Se non l’avete fatto, fatelo. Io sono un lettore accanito da quando ero bambino e porto tantissimi libri nel cuore, classici, gialli, fantascienza, fantasy, per ragazzi, a fumetti, saggi. Quando si ha letto veramente tanto è difficile dire qual è il proprio libro preferito, e la risposta varia nel tempo. Tuttavia, più ci rifletto, più penso che se fossi obbligato a scegliere, direi Harry Potter. Sette libri per un totale di oltre 3000 pagine, scritti benissimo, con una storia (o sette storie) avvincente che ti tiene incollato e un tema indubbiamente intrigante. Ma il vero punto di forza per me è un altro. I primi sei libri sono costellati di innumerevoli particolari riempitivi e apparentemente inutili. Apparentemente perché alla fine della saga, nel settimo libro, ogni singolo particolare rivela la sua vera ragione: i tasselli si incastrano perfettamente l’uno con l’altro e il lettore ha quella magica sensazione di perfezione, che molto di rado si ha nella lettura di un romanzo, e ancor meno se di un romanzo di tale lunghezza.

Algebra lineare

Dal 2015 tengo il corso di Geometria ad Ingegneria Informatica, Elettronica e delle Telecomunicazioni a Parma. Qualche giorno fa un mio studente (uno dei pochi che mi scrive per avere delucidazioni su dispense e videolezioni) mi ha scritto:

Sto studiando la diagonalizzazione delle matrici, ed è fantastico vedere come tutti i concetti studiati all’inizio del corso, che magari potevano sembrare un po’ “superflui”, qui emergono tutti e sono in pratica fondamentali!
La mia soddisfazione è stata massima: l’effetto Harry Potter in un corso di matematica. Ci tengo a precisare che il merito non è mio, dato che lo studente è andato per conto suo più avanti nel corso, seguendo le dispense del mio collega Leonardo Biliotti. Ma, andandoci in fondo, il merito non è neppure (o meglio non solo) di Leonardo: questo effetto Harry Potter (tutti i pezzi che magicamente vanno al loro posto) è merito non di un singolo, ma di una comunità matematica che ha duramente lavorato nel corso dei decenni e dei secoli.
Dalla ricerca alla didattica
La ricerca in matematica è ben lontana dall’essere rappresentata da quel percorso lineare dato dall’immagine della scala: un gradino dopo l’altro si sale verso una maggiore complessità. Un’immagine più realistica di come la ricerca procede è forse data da questa bella vignetta di Abstruse Goose:
Traduzione del fumetto:
1) – Penso che dovremmo svoltare a sinistra qui.
– No, dobbiamo girare a destra.
2) – Altre idee geniali?
3) – Ehi, perché stai girando? Dovremmo andare dritto.
4) – Ok. Forse avevi ragione.
5) – Ora dovremmo voltare a sinistra.
– Ne sei certo?
6) – Bel lavoro, Einstein!
7) Anni dopo. – Guarda! È lì! Ce l’abbiamo fatta!
8) – Presto! Scrivi le indicazioni, prima che ce ne scordiamo!
9) Da A, gira a sinistra su Ricci Str., gira a destra su Hamilton Ave., B è sulla sinistra.
Così è come la maggior parte delle dimostrazioni matematiche sono scritte.
Oppure da questa citazione di Andrew Wiles:
Posso meglio descrivere la mia esperienza nel fare matematica come un viaggio in un appartamento buio e inesplorato. Entri nella prima stanza ed è completamente buio. Inciampi, andando a sbattere nei mobili e molto lentamente inizi a capire dove stanno. Infine, dopo 6 mesi, trovi l’interruttore e accendi la luce e improvvisamente è tutto illuminato. Puoi vedere esattamente dove sei. Allora passi alla stanza successiva e passi altri sei mesi nel buio. Ognuno di questi progressi, che a volte avviene nel giro di un giorno o due, è il culmine di – e non potrebbe esistere senza – i molti mesi di inciampi nel buio e segue da essi.
Andrew Wiles, traduzione di Nicola Ciccoli
La ricerca matematica procede per tentativi ed errori, guidata sì dall’esperienza, da analogie e da conoscenze pregresse, ma anche con una buona dose di tentativi quasi casuali per esplorare nuove vie non conosciute. Trasformare poi questo lavoro di ricerca in un articolo è una cosa, trasformarlo in un libro monografico un’altra (richiede una maggiore comprensione dei collegamenti tra i teoremi e gli oggetti matematici di studio, e spesso implica un notevole consumo di tempo e dedizione) e trasformarlo in un percorso didattico un’altra ancora.
Quando si vogliono mettere insieme vari risultati e teoremi per trarne un percorso didattico coerente e significativo, la fatica è massima: bisogna semplificare al massimo le dimostrazioni e al contempo trovare un percorso coerente che concili lo sviluppo di una teoria armonica con l’utilizzo di strumenti più semplici possibili, trovando una via per raccontare le cose in modo da avere infine l’effetto Harry Potter. Lo studente deve avere l’impressione che tutto vada a posto e che la storia raccontata non possa che essere così.
Ovviamente tutto ciò ha anche una controindicazione: affinando tutto troppo bene si rischia di perdere il feeling di come funziona la ricerca in matematica; di confondere cioè il prodotto finito (bello, semplice e razionale) con il processo (lungo, problematico e contorto) che ha portato a quei risultati.
Dalla didattica alla ricerca
Il lavoro di messa a punto di un corso universitario di matematica, con le definizioni giuste, i teoremi e le proposizioni che si susseguono in un certo ordine e un chiaro delinearsi di un quadro generale, è una faccenda complicata, che richiede decenni o secoli di messa a punto, tentativo dopo tentativo.
Alcune aree di base della matematica sono ormai ben assodate e per esse alcuni percorsi didattici sono stati sviluppati, appresi e modificati man mano nel passaggio generazionale, da maestro ad allievo.
Ritengo che il lavoro che ognuno di noi deve mettere per capire come organizzare il proprio corso sia di fondamentale importanza anche nella ricerca. Si dice spesso che non si impara mai così bene come quando si è poi obbligati a sostenere un esame. Sono in parte d’accordo, ma si impara ancora meglio quando si deve sostenere l’esame più difficile di tutti: farsi capire dai propri studenti e farsi trovare abbastanza pronto per rispondere alle loro domande.
Non ho timori nel dire che l’algebra lineare, nella sua grande profondità, l’ho davvero imparata in questi ultimi cinque anni.
E tutto quello che impariamo ce lo portiamo dietro, anche quando facciamo ricerca. Avere chiari in testa alcuni aspetti base della matematica (o anche più avanzati, nel caso dei corsi della laurea magistrale e del dottorato) è fondamentale per vedere le cose nella giusta prospettiva e riuscire a porsi le domande giuste o avere a disposizione gli strumenti adatti per rispondere a queste domande.
E la divulgazione?
In questa interazione tra ricerca e didattica, dove si inserisce la divulgazione? La divulgazione è, secondo me, ancora più difficile della didattica: si ha a che fare con un pubblico tecnicamente meno preparato e che si aspetta –almeno in parte– di divertirsi e rilassarsi, non di fare fatica. Pertanto è necessario trovare degli espedienti narrativi che tengano attento il pubblico e rendano chiaro il filo del discorso, possibilmente eliminando o limitando al massimo l’utilizzo di formule o altri tecniciscmi, ma senza banalizzare o dire cose false o fuorvianti.
Ogni formula in un libro dimezza il numero dei potenziali lettori
Steven Hawking
Un compito indubbiamente difficile, che mette a dura prova, ma che al contempo aiuta ancora di più della didattica a trovare chiare chiavi di lettura e a gettare luce su parti poco digerie della teoria.
Non hai veramente capito qualcosa fino a quando non sei in grado di spiegarlo a tua nonna
Albert Einstein
Le abilità comunicative che si acquisiscono con la divulgazione, ovvero col rendere accessibile al grande pubblico certi aspetti della matematica, tornano utili quando si è in aula a fare lezione, ma anche quando si discute con un collega di un lemma che ancora non si è capito bene.
Per fare ricerca, per fare didattica, per fare divulgazione, è necessario leggere e ascoltare quello che fanno altri matematici. Ma fissandoci su uno solo di questi tre aspetti, rischiamo di richiuderci su noi stessi e non darci sufficienti opportunità per imparare qualcosa di nuovo. E tutto ciò che impariamo, prima o poi ci tornerà utile.
Ritengo che queste tre anime del matematico (ricercatore, docente, divulgatore) siano intrinsecamente legate tra di loro e che l’impegno in uno di questi ambiti non possa prescindere dall’impegno negli altri due. E i frutti, ovvero una più profonda comprensione anche solo di una parte della matematica, arriveranno.

Alberto Saracco

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