Intervista a Martina Iannella, ricercatrice presso l’Institute of Discrete Mathematics and Geometry della Technische Universität Wien. Di recente ha ricevuto il premio AILA-UMI «Franco Montagna» per la migliore tesi di dottorato in logica matematica e sue applicazioni tra quelle discusse nel triennio 2022–2024. La tesi, intitolata «From real-life to very strong axioms. Classification problems in Descriptive Set Theory & regularity properties in Generalized Descriptive Set Theory», è stata supervisionata da Alberto Marcone e co-supervisionata da Vincenzo Dimonte, entrambi professori dell’Università di Udine.
Grazie mille! Sono felicissima di questo riconoscimento e grata all’AILA, all’UMI, al mio supervisore Alberto Marcone, al co-supervisore Vincenzo Dimonte e ai miei collaboratori Luca Motto Ros, Philipp Lücke e Vadim Weinstein.
Devo ammettere che oggi, col senno di poi, quel titolo mi sembra un po’… sensazionalista! Ma aveva una motivazione precisa. Gran parte della mia tesi riguarda problemi di classificazione di oggetti matematici come nodi o 3-varietà. Sia il concetto di classificazione sia gli oggetti matematici presi in considerazione sono presenti nella quotidianità di ogni persona. Quindi sì, si parla di vita vera, ma vista attraverso le lenti della matematica.
Pensiamo alla parola “classificare”: lo facciamo ogni giorno, senza accorgercene. Cataloghiamo libri, organizziamo scaffali, dividiamo specie animali, archiviamo email. In matematica, questo processo di classificazione si formalizza tramite una coppia (X,E), dove X è l’insieme degli oggetti e E una relazione di equivalenza che definisce quando due oggetti possono essere considerati “uguali”. Risolvere un problema di classificazione significa trovare degli “invarianti”, cioè una sorta di etichette, e una funzione che assegni a ogni oggetto un invariante in maniera tale che due oggetti abbiano lo stesso invariante se e solo se sono equivalenti.
Idealmente, vogliamo che questi invarianti siano semplici e appartengano a insiemi familiari. Un esempio tipico è l’insieme dei numeri naturali. I numeri naturali sono i numeri che usiamo per contare: 0, 1, 2, 3, 4, 5, … Sono infiniti, ma molto facili da manipolare. Supponiamo ora di voler classificare tutte le stelle in teoria dei grafi. Immaginate un grafo con un nodo centrale connesso ad n nodi periferici, una figura simile a una stella. Due stelle si considerano equivalenti se hanno lo stesso numero di “punte”. In questo caso gli oggetti da classificare sono le stelle, la relazione di equivalenza è l’isomorfismo tra grafi e l’invariante è il numero naturale n di punte.
Ma le cose non sono sempre così semplici. Alcuni problemi di classificazione diventano molto complicati da “etichettare”. Come misuriamo, allora, la complessità di un problema di classificazione?
Qui entra in gioco la teoria descrittiva degli insiemi, una branca della logica che ci fornisce strumenti per ordinare i problemi in una gerarchia di complessità, usando un concetto chiamato Borel riducibilità. Quindi, è come se avessimo una mappa in cui i problemi più semplici stanno in basso e quelli più intricati più in alto.

Un punto chiave di questa gerarchia è l’isomorfismo tra ordini lineari numerabili. Per esempio, l’insieme dei numeri naturali ordinati come 0 < 1 < 2 < … e l’insieme dei dispari 1 < 3 < 5 < … sono ordini lineari numerabili e sono isomorfi perché possiamo trovare una corrispondenza uno a uno che preserva l’ordine (in questo caso, la funzione che a 0 associa 1, a 1 associa 3 e, più in generale, a n associa 2n+1).
Tale classificazione degli ordini lineari numerabili è molto complessa, eppure non la più difficile possibile! È un punto di riferimento per misurare altri problemi.
Arriviamo ora ai problemi di classificazione che ho studiato nella mia tesi. Uno riguarda i nodi. In matematica, possiamo pensare a un nodo come a una corda annodata le cui estremità vengono incollate tra loro, in modo che il nodo non possa essere disfatto. Esiste anche una variante chiamata arco proprio, dove gli estremi di una corda annodata sono fissati ai bordi di una sfera, in modo che di nuovo, la corda non si possa slegare. Le due nozioni, pur strettamente connesse tra loro, non sono equivalenti.
Nel mio lavoro ho studiato la classificazione degli archi propri rispetto a una relazione chiamata “mutual subarc relation”: due archi sono equivalenti se ognuno è “completamente contenuto” nell’altro. Per analizzarla, ho associato a ogni arco un ordine lineare numerabile, collegando così un oggetto topologico a uno discreto.
Ho dimostrato che la bi-immergibilità convessa tra ordini lineari, cioè la relazione secondo cui due ordini sono equivalenti se l’uno è immergibile come sottoinsieme convesso (un insieme continuo di punti) nell’altro, e che corrisponde alla mutual subarc relation tra archi, è almeno tanto complessa quanto l’isomorfismo tra ordini lineari. Inoltre, ho mostrato che la relazione tra archi propri è ancora più complessa.
Successivamente, ho esteso tutto ai nodi, associando ad essi ordini circolari (dove il concetto di inizio e fine sparisce, come in una ciambella). Anche in questo caso ho ottenuto risultati forti: la classificazione dei nodi è ancora più complessa dell’isomorfismo tra ordini circolari, che a sua volta è tanto complesso quanto quello tra ordini lineari.
Infine, mi sono occupata delle 3-varietà non compatte, spazi tridimensionali “infiniti”, mostrando che classificarle rispetto all’omeomorfismo (due spazi sono omeomorfi se si possono deformare l’uno nell’altro senza romperli) è esattamente difficile quanto classificare gli ordini lineari numerabili rispetto all’isomorfismo. Questo ha anche risolto un problema aperto dal 2014 sulla conjugacy tra insiemi di Cantor nello spazio.
L’ultimo capitolo della tesi si sposta verso assiomi “potenti”. Su quali aspetti si concentra?
Qui entriamo in un territorio più astratto. Gran parte della matematica moderna si basa su un sistema chiamato ZFC, che include l’assioma della scelta. Questo assioma, pur molto utile, porta anche a effetti paradossali: forse avrete sentito parlare del Paradosso di Banach–Tarski, secondo cui è possibile smontare una sfera e rimontarla in due copie identiche. Matematicamente corretto, ma… non molto intuitivo!
La teoria descrittiva degli insiemi consente però di studiare classi di insiemi, come quelli boreliani o analitici, che evitano questi “mostri”. Queste classi godono di proprietà di regolarità, come la proprietà dell’insieme perfetto o la proprietà di Baire.
Ma cosa succede se vogliamo estendere queste belle proprietà ad insiemi ancora più complessi ottenuti, ad esempio, con ripetute immagini continue e complemento degli insiemi analitici? Per farlo, dobbiamo potenziare i nostri strumenti assumendo assiomi molto forti, detti assiomi di grandi cardinali.
Uno di questi, chiamato I2, gioca un ruolo fondamentale nel mio lavoro: ho studiato che impatto ha sulle versioni generalizzate della proprietà dell’insieme perfetto e la proprietà di Baire in spazi topologici molto più grandi del solito, oggetto di studio della cosiddetta teoria descrittiva degli insiemi generalizzata.
Grazie mille per questa panoramica. Abbiamo visto quanto la logica sia ampia. Cosa ti ha portato a scegliere proprio questo ambito e come è nata la tua passione per questa materia?
Tutto è iniziato alla triennale, grazie a un corso di teoria dei modelli tenuto dalla prof.ssa Paola D’Aquino a Napoli. Poi, a Torino, ho seguito un corso del prof. Luca Motto Ros sulla teoria descrittiva degli insiemi, che è stato davvero decisivo. Da lì è partito tutto: dottorato a Udine, e ora il postdoc a Vienna.
Veniamo al presente: Su cosa ti stai concentrando ora nella ricerca?
Continuo ad approfondire la teoria descrittiva degli insiemi, in particolare la complessità delle relazioni di equivalenza, anche usando strumenti di teoria descrittiva effettiva. Inoltre, studio oggetti matematici le cui proprietà dipendono proprio dall’esistenza di grandi cardinali.
Concludiamo con una riflessione più ampia. È noto che nelle discipline STEM – e in particolare nella matematica teorica – le disparità di genere restano marcate. Quali ostacoli hai incontrato personalmente lungo il tuo percorso? Nella tua esperienza intravedi segnali di cambiamento positivo oppure ritieni che ci sia ancora molta strada da fare? Infine, quale consiglio ti sentiresti di dare a chi, appartenendo a una minoranza, decide di intraprendere la carriera accademica?
Si stanno facendo passi avanti, ma il cammino è ancora lungo. Il gender gap nel mondo STEM è molto forte, ma nelle comunità più piccole, come la nostra, il conoscersi tuttə aiuta a mantenere un certo livello di attenzione e rispetto.
Tuttavia, essere l’unica donna in un corso, in un gruppo, o, per un periodo, l’unica postdoc in Europa nel mio settore, è una condizione che ti carica di una responsabilità implicita. Diventi rappresentante di qualcosa più grande di te. Ciò comporta un peso psicologico costante, che non ho mai visto come un vero e proprio ostacolo nel mio percorso, ma certamente una fatica.
Episodi di sessismo ne ho vissuti, e non è sorprendente dato che la nostra comunità accademica riflette i meccanismi e i problemi della società, e sono di certo problematici. Purtroppo conosco anche casi più gravi, rientranti nella sfera della violenza di genere. Anche quando non ti toccano direttamente, ti pongono di fronte alla responsabilità di capire come reagire, come affrontarli, come essere solidali. E tutto questo ha un impatto anche sul piano personale e professionale: richiede tempo, energia, concentrazione, risorse che vengono inevitabilmente sottratte alla ricerca. Ciò non succede a molti dei colleghi uomini, che spesso non si sentono coinvolti proprio perché non direttamente toccati dal problema.
Posso parlare solo in riferimento alla minoranza a cui appartengo, che è quella di genere. Il mio consiglio, per chi appartiene a una tale minoranza è quello di cercare ambienti dove ci si sente rispettatə, circondarsi di persone che siano di supporto e, se qualcosa non va, non aver paura di parlarne con loro per agire e far sì che le cose cambino.
Ma credo anche che non debba essere solo chi vive certe difficoltà a doversi fare carico del cambiamento. È fondamentale riconoscere che non si tratta solo di “dare spazio alle donne”, ma di interrogarci su chi viene inclusə, chi viene ascoltatə, chi viene messə davvero nella condizione di restare. Troppe persone, troppe donne che iniziano un percorso nella ricerca, entusiaste e preparate, si trovano a operare in ambienti dove non si sentono davvero accolte o sostenute, e finiscono per andarsene. Questo non è un problema individuale, ma sistemico. La responsabilità di costruire ambienti più giusti non può quindi ricadere esclusivamente su chi subisce le disuguaglianze. È un compito collettivo, e in particolare spetta a chi gode di posizioni privilegiate. È essenziale che chi ricopre posizioni di potere e rappresentanza, che ad oggi sono ancora quasi esclusivamente uomini, assuma una posizione chiara su queste questioni e si impegni attivamente per costruire ambienti più equi e inclusivi.


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