Giuseppe Mingione (Rosario per gli amici) è un matematico di origini accademiche napoletane nato nel 1972. Da oltre 15 anni abita e lavora a Parma ed è professore ordinario dal 2005. Vincitore di un European Research Council award nel 2007, nella sua carriera ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui la “Stampacchia Medal” nel 2006 e, nel 2011, il prestigioso “Premio Caccioppoli”.
Ma certo, proprio quella, sei ancora un giovane, no?
Va bene, non ti preoccupare, non stiamo a sottilizzare. Ho visto che sei uno degli autori più citati in Italia, più di 1200 citazioni nella tua carriera. Complimenti, sono davvero tante, soprattutto perché ottenute esclusivamente su riviste di matematica. E sopratutto considerando che, va bene, non sei giovane, ma insomma hai sempre meno di 40 anni…
Va bene, vale quel che vale, ma allora possiamo anche dire che tra i matematici sotto i 40 anni a livello mondiale conosco solo Terence Tao e Cedric Villani (entrambi Fields Medalist) che hanno più citazioni di me…
Direi che è proprio notevole, soprattutto perché sono anche molte le diverse persone che ti citano, oltre 300, non sono sempre i soliti amici degli amici.
Mi fa piacere, visto che mi occupo di un settore un po’esoterico come la regolarità
Senti, partiamo dal principio. Per quale motivo hai deciso di fare matematica?
Perché mi piaceva, sono “molle”, non sono capace di fare cose che non mi piacciono.
Questa è vecchia…È una storia contorta, perché a me, quando ero piccolino, piaceva programmare il PC. Quando avevo quindici o sedici anni sapevo programmare in parecchi linguaggi diversi. E così mi appassionai a questa storia dell’informatica… Poi approfondendo mi resi conto che tanto valeva fare matematica. Nella programmazione non c’è nulla di particolarmente eccitante, se non l’algoritmo, che è un fatto matematico. Per cui cominciai a leggere qualche libro di matematica e decisi di laurearmi in questa materia all’università. Mi iscrissi a Napoli, dove incontrai Nicola Fusco (ndr.: di cui su Maddmaths! abbiamo pubblicato il test di Proust), matematico di fama mondiale, che sia umanamente che scientificamente è una persona eccellente, ed è stato lui ad avviarmi alla ricerca.
Va bene, ma insomma adesso sei un matematico professionista, hai tante citazioni e tanti riconoscimenti. Insomma, puoi dirlo che sei bravo, o no?
Beh, distinguiamo. Queste sono piuttosto metriche sociali. La matematica secondo me esiste anche senza il contesto sociale. Uno ci si avvicina, fa delle cose. Ma insomma, essere un matematico professionista ha a che fare più con la società che con la matematica. Naturalmente, non tutti possono fare matematica. Ma il professionismo è quello che ti consente di dare un metodo alle cose che fai. Però la bravura è una cosa soggettiva. Cioè, se penso a De Giorgi, io mica sono bravo, anzi….. In realtà non ha senso dire se sei bravo o meno. Io sono uno che ogni tanto riflette, fa qualcosa e quello che viene viene.
Ma insomma, quando hai capito che quello che facevi aveva un senso. Che riuscivi a fare delle cose che per gli altri erano difficili e a te riuscivano?
Diciamo che a un certo punto, lavorando, ti accorgi che le cose si raccordano tra loro. Che, al di là di quello che ti aspettavi, prendono un aspetto più armonioso, e allora capisci che hai fatto qualcosa che non è un puro gesto narcisistico. Certo il fatto che gli altri ti citino o usino quello che hai fatto, ti dà una misura, ma insomma, alla fine in primo luogo devi esserne convinto tu.
Le idee che seguiamo si rifanno a filoni di ricerca impostati vari anni fa e riappaiono in forme abbastanza diverse e spesso irriconoscibili per il non esperto. Ma chi fa regolarità le riconosce anche sotto mentite spoglie. E sono tecniche di iterazione, in cui si vanno ad osservare proprietà elementari delle funzioni, anche in contesti molto astratti.
Parliamo sempre nel mio piccolo… Uno riguarda le soluzioni di problemi vettoriali, che sono intrinsecamente singolari. Quando guardi ai minimi di un funzionale, o alle soluzioni di sistemi, trovi allora che sono irregolari, ma sono ancora regolari quando le consideri al di fuori di un insieme di misura nulla, chiamato appunto insieme singolare. Si tratta di un insieme su cui la soluzione ha un comportamento cattivo, per esempio, è discontinua o esplode. Il problema naturale è allora quello di capire se la dimensione di Hausdorff dell’insieme singolare sia minore di quella dello spazio, in altre parole, se l’insieme sia piccolo al di là del fatto di essere di misura nulla. Questo problema è rimasto essenzialmente aperto nel caso generale sin dagli anni Settanta e le prime risposte positive, per sistemi, sono state ottenute nel 2002 in un paio di miei lavori. Successivamente, con Jan Kristensen, nel 2004 siamo anche riusciti a trattare il caso più spinoso dei funzionali. Questo è un primo filone, che ha anche avuto abbastanza successo, perché mi ha fruttato l’European Research Council Award nel 2007. Un’ altra serie di risultati l’ho ottenuta recentemente: prima in un caso particolare da solo e poi in collaborazione con un giovane e brillante matematico finlandese di nome Tuomo Kuusi nel caso generale, abbiamo dimostrato che certe disuguaglianze, che tradizionalmente valgono per soluzioni di problemi lineari, e che alla linearità sembrano essere indissolubilmente legate, valgono in realtà anche nel caso non lineare. Siamo effettivamente stati assai sorpresi da questo fatto, che vari esperti credevano essere addirittura falso.
Lo scorso anno hai vinto uno dei premi italiani più prestigiosi, il premio Caccioppoli (qui il sito dell’UMI dedicato al premio). Te lo aspettavi? Ti ha fatto piacere?
Sicuramente mi ha fatto piacere, è un premio molto noto anche all’estero. Mi piace perché è un premio tradizionale e poi in fondo io mi sono laureato a Napoli.
E vedi un legame scientifico con Caccioppoli? Ne senti in qualche modo l’eredità?
Ovviamente non l’ho mai conosciuto, ma mia madre, non matematica, lo conosceva di vista, perché conosceva alcune delle sue studentesse. Sicuramente io sono allievo di discendenti accademici di Caccioppoli e vengo dal quel tipo si scuola. Le tematiche culturali si sono evolute, ma rimanendo ben identificabili. Poi in pratica, io sono allievo di Fusco che è stato allievo di Sbordone, entrambi matematici napoletani e loro, per ragioni appunto legate alle tematiche culturali trattate, ma anche per la risonanza internazionale delle loro ricerche, possiamo considerarli i veri eredi della scuola napoletana di Renato Caccioppoli.
Non lo so. Non credo che la matematica si possa progettare. Tu cominci a studiare delle cose, e poi vedi dove ti portano le tue idee o anche gli incontri che fai. Per esempio, il risultato sulle soluzioni dei problemi non lineari di cui parlavo prima è nato dal fatto che tre anni fa mi trovavo in Finlandia quando mi sono imbattuto in un certo articolo scritto da un collega del posto. Ho proposto a varie persone di lavorare su certe congetture, ma molti pensavano fossero false, come accennavo prima. Poi si sono dovute ricredere…Un po’ per caso, quindi.
Sì, ho sempre un programma di ricerca… Però credo che uno nei problemi ci si debba anche imbattere. Se ti poni un problema specifico, magari non hai le conoscenze per risolverlo. Invece, approfondendo le riflessioni sulle cose che sai fare, puoi scoprire di saper risolvere alcuni problemi che all’inizio non avevi proprio considerato. Insomma, ho un programma aperto, non un’agenda fissa.
Qui ci sarebbe un lungo discorso. Ci sono alcune cose che nascono per essere applicate e poi non lo sono. E viceversa. Io personalmente mi lascio sempre guidare solamente dal senso estetico. È l’unica guida che ho. Per esempio, non mi piacciono i teoremi il cui enunciato prende una pagina. Ma insomma, è chiaro che la matematica che faccio non è particolarmente applicata. Però, per esempio, mi sono occupato di equazioni con dati misura. E di solito, con questi dati, per le equazioni non lineari si faceva vedere che il gradiente della soluzione è integrabile in un certo spazio massimale. Io invece ho fatto vedere che il gradiente è “quasi” differenziabile come se l’equazione fosse lineare. Questo può aiutare a migliorare le stime dell’ordine di convergenza degli schemi numerici approssimanti per il calcolo delle soluzioni. Insomma, confido che si possano applicare, ma non è la prima cosa che mi passa per la testa. In realtà quello che penso è che tra il matematico e il problema veramente applicato ci debba essere un tramite, qualcuno che formuli il problema già in termini matematici, che parli due lingue.
Secondo te, cosa bisognerebbe fare per migliorare il rapporto delle persone comuni con la matematica?
In Italia la situazione è molto diversa, e in peggio, rispetto ad altri paesi. Da noi conta molto la chiacchiera, l’opinione individuale etc… Invece la matematica è proprio il contrario di questo. E paga la sua precisione essendo sostanzialmente non divulgabile: certe cose o le studi o niente. Se prendi i vari libri che raccontano di successi recenti in matematica, come quello su Perelman e la congettura di Poincaré o quell’altro sul Teorema di Fermat, per il 90 per cento si fermano agli aneddoti, perché certe cose non si capiscono se appunto non si studiano.
Quello che si può fare per avvicinarla alla gente è in primo luogo quello di farla studiare meglio a scuola e poi far vedere che la matematica in realtà si applica. Perché il problema di fondo è che uno può far vedere qualche bella immagine o filmato, ma poi alla fine, per capire bene i concetti matematici profondi si è costretti a dover capire le formule. Insomma, la comprensione della matematica in Italia è rimasta così indietro proprio perché abbiamo lasciato degenerare il sistema dell’istruzione. E questo non è solo colpa di politici o sindacati, ma in primo luogo dell’impresa, che nell’istruzione scientifica come motore primario dell’innovazione non ci ha mai voluto credere, come invece è accaduto in molti altri paesi.
Faccio una vita normale, insomma, più o meno normale. Se fai il matematico, non hai bisogno di molti hobby. Ascolto musica classica, vado al cinema, leggo libri. E viaggio molto, prendo l’aereo una ventina di volte l’anno almeno. Ma per lavoro…
Questo è uno scherzo nato con un mio collaboratore di qualche anno fa. Come si diceva prima, il settore della regolarità è considerato piuttosto esoterico e in qualche modo anche molto rischioso. Di solito, o arrivi in fondo e ottieni il risultato che speri di ottenere, oppure tutto il lavoro che hai fatto è da buttare, non ci sono risultati intermedi e pubblicabili. Per questo molta gente evita di occuparsene e allora, con il collega, ci dicevamo che noi eravamo il “lato oscuro dell’analisi” (ndr.: per gli amici il nome di Giuseppe è Rosario). Ho anche scritto un articolo di rassegna che si intitola: “Regularity of minima: an invitation to the dark side of the Calculus of Variations” (Regolarità dei minimi: un invito al lato oscuro del calcolo delle variazioni), che ha avuto anche molto successo, forse principalmente grazie al suo titolo“invitante”.
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