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Cosa ci fa un matematico in una casa editrice? E perché i libri di matematica vendono così tanto? A queste e altre domande risponde Luigi Civalleri, laureato in matematica e docente al master in Comunicazione della Scienza presso la SISSA di Trieste. Ha lavorato in alcune importanti case editrici italiane; oggi è traduttore, editor e consulente freelance. Tra i libri da lui tradotti: Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond, L’universo elegante di Brian Greene, Il dilemma dell’onnivoro di Michael Pollan.

 

Per prima cosa, dove ti sei laureato e perché hai fatto matematica?

Mi sono laureato a Pisa. Ho fatto matematica perché a 19 anni non avevo la più pallida idea di cosa fare e ho deciso di scegliere quello che pensavo mi avrebbe dato il maggiore ordine mentale: la matematica. Ero bravo, mi piaceva e anzi al Liceo mi annoiavo moltissimo perché mi sembrava troppo semplice.

Ma sei di Pisa?

No, sono piemontese. A Pisa mi sono laureato in Matematica pura con indirizzo analitico. Ho fatto una tesi in statistica matematica, in teoria della misura diciamo, sotto la direzione di Pratelli e Letta. Poi me ne sono andato in America per un annetto. Ho avuto un’esperienza molto fortunata e divertente al JPL Caltech in California. Poi sono tornato perché ho capito che la ricerca mi angosciava, non ce la facevo, insomma, non ero portato per…

E a quel punto quanti anni avevi?

Era il 1993 e non avevo ancora compiuto i 26 anni. Sono tornato e ho scoperto che la Bollati Boringhieri cercavo un laureato in matematica o altre materie scientifiche per fare il redattore dei suoi libri. E io sono stato sempre appassionato dalla lettura. Leggevo e scrivevo da sempre. Ho provato, mi hanno preso subito e ho cominciato a lavorare nel’editoria. In seguito sono passato a Einaudi, poi Mondadori e adesso lavoro come freelance.

Ma per quali case editrici lavori di preferenza?

Beh, fondamentalmente per chi mi paga, ma insomma per quelle citate prima e ultimamente anche per Adelphi.

Adesso spiegami meglio. Quando sei entrato a Bollati Boringhieri, a cosa serviva il fatto che tu fossi un matematico?

Allora, loro fanno molti testi di matematica e all’inizio mi occupavo solo di quelli, essendo l’unico in grado di capire cosa c’era scritto dentro. In seguito hanno cominciato a darmi testi scientifici di altro tipo, divulgativi e anche non matematici e hanno visto che riuscivo. In una casa editrice relativamente piccola, come Bollati Boringhieri, se sei un minimo intraprendente finisci per imparare un sacco di cose. Mi toccava occuparmi di tutto, cercare i titoli, lavorare con l’ufficio stampa, ero in pratica la segreteria di me stesso. E ho imparato tantissime cose sull’editoria. Tanto è vero che poi all’Einaudi mi sono occupato anche di libri non scientifici. Facevo il capo redattore della parte “non-fiction” e avevo una funzione più di coordinamento, anche se ho sempre continuato ad occuparmi di scienza, almeno per una parte del mio lavoro.

E in questi anni come è mutato il tuo rapporto con la matematica? Riesci ancora a vederla allo stesso modo?

Diciamo che la vedo assolutamente dall’esterno. Quando esci dal mondo della ricerca ovviamente non riesci più a seguire tutti gli sviluppi. Ho ancora molti amici che fanno i matematici, ma io non posso dire più di vederla dall’interno. Quello che ho conservato però della matematica, banale dirlo, è la forma mentis. Quella non la cancelli mai.Una cosa che capisci solo se la provi. Un mix di estremo rigore, ma anche di grande libertà di pensiero. Quando dal terzo anno in poi cominci a occuparti di cose come gli spazi di dimensione infinita, esci da Rn e ti dici “che bello, qui succedono cose strane!” Insomma ti dà una elasticità di pensiero che è utilissima in ambiti professionali e non. Un’altra impronta della matematica è anche la voglia di superare gli ostacoli. Il matematico non si arrende mai di fronte a un problema.

Però forse il limite del matematico è di volerli semplificare troppo i problemi, per poterli risolvere.

Sì, vorrebbe far diventare tutti i problemi delle  sfere. Una montagna diventa un cono. Ovviamente il contatto con persone di provenienza diversa mi ha smussato parecchi angoli.

Adesso spiegami meglio il tuo ruolo nell’editoria scientifica. Ti senti un divulgatore?

Come saprai la parola divulgazione adesso è bandita (ride) e infatti a Trieste insegno nel Master in Comunicazione della Scienza della SISSA. Ma insomma, divulgazione o “comunicazione della scienza”, a me piacerebbe piuttosto essere un ponte tra varie sensibilità, varie culture, e anche varie lingue, in fondo il traduttore fa proprio questo. Ed è bello e complicato, e forse la cosa che mi dà più gratificazione è l’insegnamento al Master. Mi porta via un po’ di tempo, ma mi dà molta soddisfazione. Sono ragazzi molto motivati, bravi, ma anche molto ingenui, dal punto di vista della comunicazione. Sono quasi tutti con una formazione scientifica, per cui hanno bisogno di lavorare sugli aspetti che sono nuovi per loro. Poi certo, ci sono talenti individuali, per la scrittura o altro, ma fino a un certo punto è possibile insegnare i “trucchi” del mestiere, a comunicare e a scrivere in modo più efficace.

A questo proposito, come saprai, il nostro sito nasce per cercare di comunicare in modo più efficace la realtà della matematica applicata dei nostri giorni. Quale può essere secondo te il linguaggio più appropriato a questo scopo?

Direi che non lo sa nessuno. Premessa. In Italia, la matematica vende tantissimo. Tra i libri di divulgazione scientifica, quelli che vendono di più sono quelli di matematica. Spesso però questi libri sono molto brutti e per vari motivi. Alcuni, non tutti, direi la maggior parte. La matematica ha infatti un problema colossale perché non si presta, o meglio si presta meno di altre scienze, a quello che a noi comunicatori salva spesso la vita, ossia all’uso della metafora, la similitudine, l’esempio. Cosa che puoi fare in fisica o in biologia. La matematica, e soprattutto certa matematica, ha il problema filosofico di essere un linguaggio. È il linguaggio perfetto per parlare di fisica per esempio. Ma il problema diventa allora di come tradurre dal linguaggio che le altre scienze usano per parlare di sé stesse. È un problema interno alla matematica con cui ci si scontra sempre. È come parlare di un elefante senza mai usare la parola elefante. I maestri, a livello mondiale, sono quelli che partono dal problema e solo alla fine arrivano alla soluzione. E la soluzione è un po’ l’esposizione di quello che i matematici fanno. Come affrontano il problema, come lo risolvono, qual è il loro procedimento mentale, quali strumenti usano. Cercare di far capire che, contrariamente a quello che molti credono, i matematici fanno ricerca. Insomma, c’è un problema intrinseco di linguaggio che è compensato in parte dal fatto che l’interesse del pubblico è altissimo.

Ma a cosa è dovuto questo interesse?

Non lo so con certezza. Ho solo due spiegazioni ipotetiche. La prima è che la matematica non risente degli alti e bassi a cui sono soggette le altre discipline. Un tempo la fisica era trionfante, ma ora da molti anni non riesce ad andare avanti. Prima c’era la teoria delle stringhe che sembrava funzionare, ora chissà. Aspettano i risultati sperimentali del LHC, insomma hanno un impasse anche teorico. La biologia, uguale genetica,uguale problemi etici, cammina sempre sul filo del rasoio. La matematica è percepita invece come una scienza eterna, per cui va sempre bene. La seconda spiegazione è che tutti da giovani la odiavano. Per cui, raggiunta l’età della maturità, con un po’ di calma, la gente si dice: “vediamo se in realtà, con un libro che mi spiega bene, riesco a capirci anche io qualche cosa”.

Sarebbero i sensi di colpa ad operare allora.

Sì, forse anche i sensi di colpa. Ma insomma, alla fine, come tutto quello che accade nel mondo dell’editoria, ci si trova davanti a fenomeni che non si riescono a spiegare tanto bene. Insomma, abbiamo questo dato di fatto che i libri di matematica vendono.

Ma la gente li legge?

Questo è un altro paio di maniche. Penso di sì. Però è noto che un libro come Dal Big Bang ai buchi neri di Stephen Hawking, lo hanno comprato tutti, ma nessuno lo ha letto, anche perché era veramente incomprensibile. Ci sono tanti libri che la gente compra e tiene negli scaffali. La matematica, secondo me, invece la leggono.

E chi sono secondo te i modelli di comunicazione della matematica a livello mondiale?

Se ti dovessi dire un solo nome direi De Sautoy, che ha scritto dei bellissimi libri. Per esempio con L’enigma dei numeri primi ha fatto un ottimo lavoro, avendo davanti una materia scivolosa. Un altro che ha fatto delle cose belle è Ian Stewart, specie nei primi libri. Quello che sta succedendo nei paesi anglosassoni, e che ancora non è accaduto in Italia, è che gli scienziati si impegnano sempre meno e i libri di scienza li scrivono i cosiddetti Science Writers, che sono in media ex-scienziati, che molto presto hanno smesso di fare scienza, o non hanno nemmeno cominciato a farla, e si sono messi a scrivere di mestiere. Non so se sia un bene o un male. Ci sono però dei prodotti eccellenti di questa scuola, soprattutto in biologia o in fisica, in matematica meno. Però la tendenza è questa. In Italia il problema è che gli scienziati non hanno tempo o voglia di scrivere.

Ci sarebbe quindi spazio per giovani che volessero avviarsi in questa direzione.

Beh, sì, anche se il nostro mercato, anche per problemi linguistici, è molto ristretto. Però molti tra quelli che escono dal Master della SISSA sono poi riusciti a trovare una loro strada.

Che ne pensi del rapporto tra matematica e letteratura? Casi come i “Racconti matematici”, curati da Claudio Bartocci, o i libri di Toffalori, mi sembra che abbiano un buon successo.

Forse perché è un matrimonio apparentemente strano, che poi alla fine riesce bene, il fascino delle cose apparentemente distanti. Sai, nella letteratura italiana contemporanea, il primo forse è stato Italo Calvino, a occuparsi di letteratura e scienza, anche se non proprio di matematica. Poi ci sono stati questi romanzi, tipo “Il teorema del Pappagallo”, che hanno inaugurato il filone del racconto matematico. Insomma, sì, confermo che sia i racconti a contenuto matematico, sia i casi in cui si mette insieme matematica e letteratura, sono cose che interessano moltissimo. Può essere insomma una chiave per risvegliare l’interesse nei confronti della matematica.

Per finire, so che hai lavorato all’edizione italiana della Stella di Ratner di Don DeLillo, di cui abbiamo parlato diffusamente sul nostro sito, aiutando il traduttore Matteo Colombo a risolvere alcuni problemi legati alla traduzione delle parti scientifiche. Volevo sapere cosa ne pensavi e che impressione ti sei fatto. Forse come romanzo rimane difficile per il lettore medio.

Il lettore medio che ama DeLillo entra nell’atmosfera del libro anche se non capisce che cos’è uno zorg. Lui era attratto dal linguaggio della matematica ed era in un periodo di sperimentazione, negli anni ’70, per cui è anche un romanzo un po’ psichedelico. DeLillo aveva delle visioni e tra le sue visioni c’era anche la scienza. Poi lui, come dice nelle varie interviste, era sempre affascinato dagli ambienti scientifici, dai laboratori che gli sembravano quasi dei chiostri di clausura. Insomma, un’esperienza molto interessante.

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