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Pubblichiamo l’intervista a Grazia Speranza, Professoressa Ordinaria di Ricerca Operativa  presso l’Università degli Studi di Brescia, prorettrice vicaria dell’università di Brescia e presidente dell’associazione internazionale di ricerca operativa. L’intervista è stata raccolta per MaddMaths! da Chiara de Fabritiis, coordinatrice del comitato Pari Opportunità dell’Unione Matematica Italiana.

Una breve presentazione che si focalizzi sui momenti-chiave della tua vita potrebbe essere un buon punto di partenza.

Vengo da una famiglia dove la cultura umanistica è sempre stata vista come più importante di quella scientifica; nonostante questo già ai tempi del liceo classico sapevo che la mia passione erano la matematica e la fisica. Durante l’università ho scoperto di prediligere la matematica applicata: mi sono occupata di problemi di trasporto, economia, logistica. Quando durante la carriera accademica, che ha seguito percorsi abbastanza standard, sono arrivata alla facoltà di economia, ho visto che il maggior interesse era per le applicazioni finanziarie, così mi sono occupata anche di problemi di ottimizzazione in questo ambito.

Quali sono le maggiori difficoltà che hai dovuto affrontare durante la tua carriera?

All’inizio la maggiore difficoltà è stata il non essere riconosciuta come donna; c’è un vero e proprio tessuto di opinioni sociali che ostacolano un percorso di affermazione professionale: libri, immagini, televisione, sono tutti privi di modelli di donne realizzate sul lavoro e questo comporta un grande sforzo motivazionale per trovare modelli. Quando poi in varie circostanze ho raggiunto traguardi di livello più alto, dalla presidenza di facoltà a premi ricevuti o casi in cui mi trovavo a rappresentare un’istituzione, ho sentito in modo netto come lo sguardo delle persone su di me fosse diverso perché ero femmina; c’è un forte pregiudizio di genere che si traduce nel fatto che le donne vengono percepite come mancanti di autorevolezza, fanno quindi fatica a farsi ascoltare. Soprattutto se ne è presente una sola in un consesso totalmente maschile, è come se il “sesso debole” non raggiungesse la massa critica.

I tuoi genitori erano contrari al fatto che tu studiassi matematica, come sei riuscita a superare questo ostacolo?

Penso che all’inizio della carriera, la consapevolezza, l’autostima e la volontà debbano essere trovate all’interno perché né la famiglia né la società aiutano, quindi è necessario lavorare soprattutto su sé stesse. Quando si avanza c’è proprio un pregiudizio di genere, di cui non ci si rende conto subito: trent’anni fa pensavo che non ci fossero preclusioni nei confronti delle donne, che l’accademia fosse un po’ un mondo ideale; in realtà con il trascorrere del tempo mi sono accorta che non è proprio così, si vede a tanti livelli: alle conferenze vengono mandati più spesso i dottorandi maschi, gli uomini parlano fra di loro, le donne lo fanno più raramente e comunque sono sempre troppo poche per fare gruppo.

A tuo parere, esiste una specificità femminile nel nostro lavoro di ricercatori in matematica e più in generale di docenti universitari?

Guardando il mio lavoro di ricerca, penso che in generale gli uomini tendano a lavorare più per il successo individuale che per quello del gruppo di cui fanno parte, mentre nelle donne spesso si trova un maggior spirito di collaborazione e appartenenza.

Come prorettrice nella tua università rivesti una posizione di oggettivo potere (piuttosto raro fra le donne visto che su 82 rettori della CRUI solo 6 sono di sesso femminile), come vivi questa situazione?

Nei compiti accademici (preside di economia, prorettrice) e nelle associazioni di ricerca sia in ambito nazionale che internazionali, il primo aspetto è sempre stata la soddisfazione di avere una posizione di spicco come donna, che mi permetteva di essere un esempio e modello per le giovani in occasioni pubbliche, l’aver ottenuto qualcosa che i miei genitori pensavano fosse irrealizzabile, la voglia di affermarsi ascoltando tutti e scegliendo la strada migliore per me. Un secondo aspetto, anche questo molto importante, è quello del servizio a un interesse di tutta la comunità che cerco di rappresentare al meglio.

Uno dei motivi per cui ho pensato di intervistarti è una lettera  (qui) che hai mandato a Concita De Gregorio di Repubblica in cui racconti un evento importante della tua vita: il fatto che le tue figlie abbiano deciso di assumere anche il tuo cognome oltre a quello del loro padre, tuo marito Massimo… Lo hai definito un “dono” da parte loro.

Già alla loro nascita, negli anni ’90, c’era una disparità iniziale: una legge che stabilisce in via automatica che il cognome assunto dai figli sia quello del padre è intrinsecamente discriminatoria. Nella mia famiglia di origine, la trasmissione del nome era una cosa importante, per questo mio padre preferiva il figlio maschio; basta guardarsi in giro per rendersi conto che il potere nelle famiglie è di fatto riservato ai maschi anche a causa della nomenclatura patrilineare. Con le figlie, la mia scelta è stata quella di trasmettere loro un messaggio di serena consapevolezza e di libertà dai condizionamenti. La grande lavora da tempo, la seconda è ingegnere biomedico e per lungo tempo mi hanno visto come la mamma che ripete sempre la stessa cosa, poi si sono rese conto sulla loro pelle delle disuguaglianze che hanno visto in concreto nel mondo del lavoro; la loro scelta per me è stata importante perché ho visto riconosciuto il valore del mio desiderio.

Quali sono state le reazioni delle persone che conosci (familiari, amici, colleghi, conoscenti) alla tua richiesta? Sul web si è scatenato un notevole flame in risposta alla tua lettera, te lo aspettavi?

Nella maggioranza delle persone che conosco ho percepito una sostanziale indifferenza, in qualche caso c’è stato apprezzamento da parte di donne consapevoli dei simboli connessi a questa problematica, qualcuno infine mi ha chiesto perché mai trovassi la cosa così importante da voler affrontare un percorso tanto complicato. Sono rimasta molto sorpresa dalle reazioni degli sconosciuti sul web; dopo lo stupore e l’irritazione, mi è venuto da pensare che sia un tema caldo, infatti non ci sarebbe stata tanta furia se il tema fosse stato indifferente: da parte degli uomini ho visto soprattutto la difesa di un privilegio, mentre nelle donne la causa è forse dovuta al fatto che hanno difeso la loro scelta di non combattere per modificare un’oggettiva disparità.

In Italia si accusano i pochi servizi che lo Stato offre alle madri lavoratrici di essere la causa del basso tasso di occupazione femminile e della scarsa natalità. Non pensi che questo ragionamento abbia il difetto di considerare il contributo dei padri nella vita famigliare meno importante di quello delle madri? Se non sono indiscreta, qual è stato il contributo di tuo marito Massimo nella vita della vostra famiglia?

Sono assolutamente d’accordo, anzi ho una posizione ancora più forte: vedo come superato il tema dei servizi alle madri, perché l’accento dovrebbe essere sui servizi alle famiglie. In particolare nel settore privato, l’assenza di un congruo congedo di paternità obbligatorio e il fatto che la grande maggioranza dei doveri di cura ricadano sulle donne, ha un notevole effetto distorsivo nel reclutamento della forza lavoro. In famiglia, ho sempre avuto sostegno e incoraggiamento da parte di mio marito, anche quando non avevamo figli; penso che tutte le donne dovrebbero aspettarsi questa reciprocità di appoggio dal partner. Anche prima che entrasse a far parte di un ambiente di lavoro molto attento in questo campo (è amministratore delegato della branca italiana di una multinazionale) ha sempre avuto uguale considerazione del mio e del suo lavoro: siamo stati una vera “famiglia delle due carriere”, con tanta fatica, ma anche moltissime soddisfazioni da parte di entrambi. Un aneddoto penso che possa rendere l’idea di come sono cresciute le nostre figlie: da sempre in casa cucina mio marito; quando le bimbe erano piccole una volta la maggiore si rivolse alla sorella dicendo “Lo sai che a scuola ho scoperto che anche le mamme possono cucinare?”.

Intervista a cura di Chiara de Fabritiis

 

 

 

 

 

 

 

 

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