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Gigliola Staffilani è Full Professor presso il Department of Mathematics del Massachusetts Institute of Technology (MIT). È da molti anni negli Stati Uniti, dopo un’infanzia cominciata in una fattoria abruzzese. Oltre ad essere un’eccezionale matematica, è una persona molto simpatica e dalla risata coinvolgente…

[NdR.: nella trascrizione abbiamo avuto dei problemi. Il primo è stato di riprodurre l’accento di Gigliola, quella leggera traccia delle sue origini abruzzesi mischiate a qualche intrusione americana. Il secondo è che lei per dire “al MIT”,dice “all’emmaiti”. Noi abbiamo trascritto MIT, all’italiana. Scusateci. Infine, come si trascrive una risata?]
Intervista raccolta da Roberto Natalini

Q.: Brava, sei puntuale!

A.: Siamo in America! Qui sono tutti puntuali!

Q.: Eh sì, va bene, allora buona sera, almeno, qui è sera… Cominciamo, allora, intanto presentati.

A.: Sono nata il 24 marzo del 1966 a Martinsicuro in provincia di Teramo. In una fattoria (ride). Infatti entrambi i miei genitori lavoravano lì in campagna e ho un fratello più grande di dieci anni. Non so quanto devo andare nel dettaglio.

Q.: Come vuoi tu.

A.: Sono nata lì. Quando ero piccola ero lasciata sola con le amichette a giocare in campagna, molto libera, per cui tutte queste cose di leggere libri, leggere prima di andare a dormire, non le ho vissute, anche se adesso le faccio vivere ai miei figli, purtroppo per loro (ride).

Q.: Quanti figli hai?

A.: Ho due gemelli, un maschio e una femmina, Mario e Sofia di 8 anni, e parlano tutti e due bene italiano, e di questo sono molto contenta, anche se non lo parlano qui con me, ma solo quando tornano in Italia.

 

 

 

 

 

 

Q.: E come fanno ad essere così bravi in italiano?

A.: Eh, torniamo spesso, ci passiamo l’estate e anche di inverno a metà anno ci passiamo una decina di giorni. Io cerco di parlare italiano con loro, anche se loro lo mescolano l’inglese. Comunque, insomma, stavo in questa fattoria sulla costa adriatica, sono andata a scuola in una piccola scuola di campagna dove prima, seconda e terza erano insieme, ma non come adesso per criteri educativi, ma perché all’epoca non c’erano bambini e non c’erano maestri. E il primo giorno di scuola ho fatto i bastoncini. E fino ad allora non parlavo nemmeno italiano, parlavo dialetto, e quindi ho imparato la lingua italiana andando a scuola. Mio fratello ha dieci anni più di me, ed era il primo della famiglia che i genitori pensavano di mandare all’università. Insomma, tutte le uova erano messe nel paniere di mio fratello più che le mie. E l’idea era che poi mio fratello avrebbe fatto il medico e io avrei sposato un suo amico e quindi non c’era bisogno di andare a scuola.

Q.: Un bel programmino ti avevano fatto…

A.: E infatti. Mio padre è morto quando avevo dieci anni e mia mamma poverina da sola, manteneva mio fratello all’università e non poteva mantenerci tutti e due, e io ero anche più piccola. E lei mi ha detto:“Tu magari andrai a fare la parrucchiera.” E la mia grande fortuna è che ho i capelli ricci e l’ho sempre odiato, per cui dissi “no, la parrucchiera no” (ride). È stata la mia fortuna insomma.

A.: Beh, magari come parrucchiera saresti stata anche brava…

Q.: No, non lo so, ma odiavo di dover avere a che fare con i capelli. Mio fratello però ci teneva molto a mandarmi a scuola, almeno fino alla scuola superiore. E poi parlando con i maestri, i professori delle medie, insomma tutti spingevano a che continuassi, specialmente perché ero molto brava in matematica. E quindi grazie a lui sono andata al Liceo Scientifico di San Benedetto dove ho avuto un professore di matematica molto molto bravo, che mi dava anche altri compiti da fare a casa. E alla fine del liceo, si è presentato cosa fare dopo, e l’università non era contemplata per me. Ma a me piaceva la matematica e il mio professore ha convinto mia mamma che fare la professoressa di matematica alle medie o alle superiori sarebbe stato un buon lavoro per una donna. Io tra l’altro conoscevo delle amiche del liceo che studiavano a Bologna e sapevo che c’erano delle borse di studio. Per cui, di nascosto dai miei, ho fatto domanda e l’ho avuta, anche se solo parzialmente. Sono partita quindi per Bologna e devo dire, adesso a posteriori, che quello è stato lo shock culturale più grosso, anche di quando poi sono andata a Chicago, e sono venuta qui negli Stati Uniti. E a Bologna ho studiato matematica, e dopo la laurea ho deciso di andare negli Stati Uniti. E ci sono rimasta. Comunque non è stata una cosa molto facile perché non conoscevo per niente l’inglese, non ho fatto l’esame di TOEFL, e quindi ho avuto parecchi problemi quando sono arrivata a Chicago, però alla fine … (ride).

A.: Facciamo un salto in avanti. Cerca ora di raccontare sinteticamente ci cosa ti occupi. Ma in modo semplice…

Q.: Io lavoro nel campo delle derivate parziali e in particolare delle equazioni dispersive. Sono considerata una matematica pura, più che applicata, anche se in questo campo si può state da una parte o dall’altra con molta facilità. In particolare mi occupo delle equazioni di tipo Schrodinger o KdV (ndr.: Korteweg-de Vries) non lineari, e le questioni di cui mi occupo sono relative all’esistenza delle soluzioni, le loro proprietà, unicità, stabilità. Non mi occupo molto di come vengano derivate, da dove arrivino, quale sia il modello fisico che le governa. Uno cerca, data l’equazione, di capirne le sue proprietà. Nel fare ciò, la cosa più interessante per me è quella di doversi inventare o scoprire, non so, degli strumenti abbastanza sofisticati per capire in dettaglio la dinamica non lineare che questi problemi hanno. Ho avuto la grossa fortuna di incontrare all’inizio della mia carriera Terry Tao (ndr: Medaglia Fields 2006), con cui infatti ho molti lavori in collaborazione, e devo dire che la sua mente è superiore a quella di qualsiasi altra persona abbia conosciuto, però è anche una persona molto generosa, e insomma, insieme con altri collaboratori, siamo riusciti a mettere insieme degli strumenti che adesso sono diventati abbastanza classici nel campo. E quello credo sia stato il momento più bello della mia ricerca fino ad ora. Adesso continuo a lavorare su queste cose, però l’intensità di queste scoperte di una decina di anni fa è stata il picco e adesso vediamo cosa arriva dopo.

Q.: Puoi spiegare in modo semplice cosa siano le equazioni dispersive?

A.: Queste equazioni hanno come soluzioni delle onde. Se non si impongono delle condizioni al bordo, e sono definite su uno spazio illimitato, queste onde si disperdono, e la loro misura tende a zero quando il tempo aumenta. Per un esempio fisico possiamo per esempio pensare ad un sasso lanciato sulla superficie di un lago calmo. Le ondicine concentriche che si formano sono un tipico esempio di onda dispersiva. La cosa interessante è che pur tendendo a zero la loro misura, l’energia viene conservata. Però se vi sono dei bordi, e si impongono delle condizioni al contorno, il fenomeno diventa molto più complicato. Per esempio una connessione con i problemi che studio, e che non è ovvia, è che se si considera il caso in cui i dati al contorno sono periodici, per esempio una scatola con dati periodici, capire le proprietà di queste onde porta a studiare quanti punti di una griglia a valori interi, un cosiddetto lattice, siano su un cerchio in funzione del suo raggio. Per esempio una parte dei lavori di Bourgain,per cui ha anche avuto la medaglia Fields, si riferiscono a queste equazioni dispersive periodiche, per esempio nel caso bidimensionale, in cui dividendo il periodo in x e il periodo in y si ottiene un numero razionale. Se però è irrazionale la teoria di Bourgain non funziona e non si sa cosa succede. Questo fisicamente è una cosa interessante, ma dal punto di vista matematico è una cosa difficile. Per esempio avere la stima dei punti della griglia che stanno su un’ellisse, al posto del cerchio. Per il cerchio si risolve utilizzando la teoria analitica dei numeri, ma questo non funziona per l’ellisse. E alcuni pensano sia collegato all’ipotesi di Riemann, per cui… (ride)

Q.: Ok, ma quale sarebbe la motivazione fisica di questo tipo di risultati?

A.: A me, come ho detto, interessa l’aspetto matematico. Dal punto di vista fisico, i miei colleghi più applicati mi dicono che questi risultati possono indicare come l’approssimazione numerica si avvicini alla soluzione analitica, quindi capire l’errore che si fa con queste approssimazioni.

Q.: Qual è stato il risultato che ti ha dato più soddisfazione in assoluto?

A.: Ce ne sono due. Uno più noto e uno meno, e quest’ultimo l’ho fatto da sola, per cui forse mi dà una maggiore soddisfazione. Si trattava, in questo caso di un problema che era stato iniziato da Bourgain e il nocciolo del problema era di dare una misura di queste onde dispersive negli spazi di Sobolev, e il suo approccio a questo problema dava un risultato che lui stesso non considerava ottimale. E quando sono andata all’Institute for Advanced Studies di Princeton, dopo aver finito gli studi a Chicago, mi ha chiamata nel suo ufficio e mi ha detto: “Guarda, questo è un articolo che ho scritto”, appunto su queste misure negli spazi di Sobolev, “e non credo che sia tutta la storia. Perché non gli dai un’occhiata?” E la mia reazione è stata “Se Bourgain non ha fatto di meglio, come faccio io?”, per cui per mesi ho lasciato la cosa lì, e continuavo a guardarla con gli stessi occhi che probabilmente aveva usato lui, insomma, ho provato a migliorare la tecnica del lavoro, ma alla fine avevo lasciato perdere. E poi verso la primavera sono andata per caso da una mia amica in California, e c’era Richard Hamilton che faceva un seminario. E si parlava di un problema di frontiera libera, e lui diceva qualche cosa come “dato che il problema con la frontiera libera è troppo complicato, mi fisso la frontiera e cambio variabile”.Mi sono detta “Ecco cosa devo fare!”. L’ho fatto e ho ottenuto un risultato molto migliore di quello di Bourgain, ma insomma, quasi per caso… (ride).

Q.: Va bene. Cosa pensi di fare in futuro? Ci sono cose che ti hanno incuriosito e non hai ancora osato fare?

A.: Hmmm, sì, veramente ho iniziato quella che penso possa essere una delle direzioni da prendere. Io ho sempre ammirato la probabilità, ma non ho mai avuto il coraggio di studiarla, perché secondo me è molto difficile (ride). Allora ho pensato che la cosa migliore fosse cominciare da un problema, perché se uno vuole imparare un soggetto è meglio che ci lavori sopra, e l’anno scorso sono stata ad all’Istituto Radcliffe di Harvard, dove ho passato un anno con una mia collega a lavorare su un problema usando un approccio probabilistico e ottenendo anche un risultato. Ma devo imparare ancora molto, non so quasi nulla di questa materia.

Q.: Ho letto che sei l’unica professoressa di Matematica pura del MIT, è esatto?

A.: Beh, c’è una mia collega Full Professor (ndr.: come Professore Ordinario da noi) di matematica applicata e io sono l’unica Full Professor in Matematica pura. Insomma, se uno considera solo le Full Professor, è vero.

Q.: Che effetto fa essere al MIT? In fondo tutti questi film sui geni della matematica, da Will Hunting a 21, si svolgono qui. Non ti sembra di essere anche tu in un film?

A.: Non ci ho mai pensato. Però il MIT è un posto molto speciale. Non è una semplice università. I ragazzi vengono qui perché vogliono fre scienza. E sono molto nerds, geeks, insomma. Sono qui per soffrire. E gli puoi fare il corso difficile e più è difficile e più sono contenti. A me questo piace molto. Io non mi sono mai chiesta dal di fuori se ci stessi bene o no. Ma dal di dentro ci sto molto bene ed è un posto molto bello, e anche essendoci molte superstars, i colleghi sono tutti persone umanamente molto a posto, con cui possiamo essere amici, che è una cosa molto rara. Insomma, mi sento molto fortunata e questo senso di appartenenza lo provo ancora di più in occasione della graduation di fine anno a giugno, in cui c’è la sfilata dei professori con la toga, fatta a beneficio dei genitori Ci fanno tutti sedere sul palco dietro, e in questo momento mi sembra di stare in un film e mi chiedo, “ma come ci sono capitata qui dentro?” e mi dà anche molto orgoglio. Vedere questi genitori che ti ammirano e ti indicano, anche perché non ci sono molte donne qui al MIT in generale.

Q.: A questo proposito. Ho visto che sei impegnata nella Association for Women in Mathematics (AWM). Che ne pensi della situazione delle donne nella matematica? Che idee hai?

A.: Rispetto all’Italia la situazione americana è molto peggiore sotto questo aspetto. La ragione per cui penso che sia peggio è che fino a quando sono rimasta in Italia, non mi ero mai posta il problema, ossia che poiché ero donna potevo non essere abbastanza intelligente per fare matematica. Invece negli Stati Uniti, per le ragazze dalle scuole medie e anche dopo, forse in maniera non completamente esplicita, si assume che le ragazze non abbiamo proprio il cervello per fare scienza dura e in particolare matematica. Collegato a questo, si considera che la matematica non sia una cosa “cool”. Per farti un esempio, quando ero all’Istitute for Advanced Studies di Princeton, mi hanno invitato a fare degli incontri in una scuola di sole ragazze, dalle elementari alle superiori, per raccontare cosa facevo all’Istituto. E hanno diviso queste ragazze in due gruppi. Il primo era fino agli 11 anni, il secondo dai 12 ai 18. Il primo gruppo era entusiasta e mi hanno riempito di domande, su cosa facevo e come passavo la mia giornata. Sono andata nell’altro gruppo e… silenzio assoluto. Si vedeva proprio che queste non avevamo niente a che vedere con me. E poi, dopo aver molto insistito, una ha detto che voleva sapere se il fatto di essere brava in matematica non mi impedisse di fare “dating” ossia uscire con ragazzi. Insomma non sei cool se fai scienza. Tuttavia, il MIT è molto favorevole ad incoraggiare la “diversity”. Io per esempio, oltre ad essere donna, vengo da un background che non è tipico, poiché i miei genitori erano contadini. Però sono molto preoccupata, poiché, quando un’istituzione calca un po’ troppo la mano, poi c’è una specie di effetto boomerang, nel senso che io spesso qui mi sono sentita a disagio quando ho avuto un lavoro o un finanziamento, e mi sono chiesta se me lo avevano dato perché ero io o perché ero una donna. E come me lo chiedo io se lo chiederanno I miei colleghi. Questo mi mette a volte a disagio. E poi alla fine per me l’importante è dimostrare teoremi. E lo dico a tutte le ragazze con cui parlo. Se vuoi far bene, se vuoi essere apprezzata, dimostra dei teoremi e poi si vedrà. Perché stare lì a lamentarsi, ci sono troppi maschi, non ci sono abbastanza donne, se poi non dimostra il teorema, eh che cosa succede? Bisogna fare matematica buona. Poi, magari tra 10 persone, ci sono 9 maschi e una donna, e allora il posto lo prende la donna. Va benissimo, perché ce ne sono poche. Però, se non hai la qualità per arrivare tra quei dieci, il problema non si pone nemmeno. Insomma, la qualità è la cosa più importante. E questi vari metodi per cercare di portare più donne in un posto come il MIT non so quanto possano essere efficaci. Però io sono responsabile del programma dei graduated students (ndr: dottorandi) e solo il 13% delle domande sono di donne. Però la percentuali delle ammesse salgono al 23%, che dimostra che i loro profili sono competitivi. Alcuni pensano che le ragazze siano più selettive. Non fanno domanda qui al MIT perché pensano di non essere abbastanza brave, e magari non è proprio vero. I ragazzi invece sono più sicuri di sé in materie come matematica e fanno comunque domanda e poi si vedrà. Comunque non cerco mai di spingere una donna che secondo me non rientra tra quelli che prenderemmo. Non prendiamo donne perché sono donne, ma solo perché sono brave…

Q.: Insomma, puntare sul merito.

A.: Secondo me sì. Perché se uno prende una donna che però non è altrettanto brava, lei si sentirà sicuramente frustrata, gli altri non la tratteranno bene e tutti ci perdono in questa situazione. Magari bisogna vedere meglio i curriculum, vederli sotto un altro punto di vista. Io ho questa idea che mentre per i maschi funziona la norma del sup (ndr.: qui vuol dire del miglior risultato in assoluto), per le donne bisognerebbe fare un integrale (ndr.: guardare al totale del lavoro svolto). Magari non hanno questi picchi fantastici, che poi sono un paio in tutta la carriera, ma hanno questa preparazione solida, e continuano ad accumulare risultati.

Q.: Sei la seconda persona che intervistiamo negli Stati Uniti. Quali sono le differenze principali tra Stati Uniti e Italia, sia in positivo che in negativo?

A.: Allora … (ride) mi vengono solo cose negative (ride). Io penso che gli italiani abbiano un bagaglio culturale che è superiore a quello degli americani, e su questo non c’è dubbio. E questo si rispecchia anche nel tipo di matematica che uno fa, e rispetto moltissimo i matematici italiani per questo. E lo ritrovavo l’altro giorno nell’intervista a “Vieni via con me”, che riesco a vedere anche qui, con Renzo Piano che diceva proprio che quello che noi abbiamo è questa enorme cultura alle nostre spalle, che possiamo portare dove vogliamo e fare molto bene. Qui conosco un numero esagerato di italiani in campi scientifici svariati, dalla medicina, all’ingegneria, matematica, che lavorano tra Harvard e MIT. Insomma l’Italia produce cervelli molto molto belli. In negativo purtroppo il problema sono le risorse. Negli Stati Uniti ce ne sono molte di più. Anche l’università statale con meno finanziamenti funziona meglio di una qualsiasi università italiana. Poi quando c’è un posto, si fa rapidamente, uno arriva a settembre e c’è lo stipendio, anche questo è importante. Perché uno può fare matematica, ma se poi non può viverci che cosa deve fare? E non è giusto che dei ragazzi giovani e brillanti, con un cervello che funziona molto bene, debbano stare lì a preoccuparsi di trovare il lavoro per i prossimi tre mesi. Non è giusto, e come fa uno a concentrarsi?

Q.: E avresti un consiglio da dare al ministro Gelmini per migliorare l’università italiana?

A.: (ride) Secondo me ci vogliono soldi! Io sono abbastanza addentro a come funziona la mia università e insomma, è tutta una questione di fondi. Se hai fondi vai e se non hai fondi non vai. Anche nella mia esperienza, quando ero a Stanford ho avuto una fellowship delle Hewlett-Packard che mi ha permesso di viaggiare molto e la mia ricerca non sarebbe stata la stessa se non l’avessi avuta. E se non ci sono soldi, veramente non so cosa uno potrebbe fare.

Q.: Insomma, non è tanto il sistema, quanto le risorse.

A.: Secondo me se uno ha risorse poi alla fine… insomma noi qui decidiamo un po’ come vogliamo, senza pressioni dal di fuori. Insomma, uno ha un dipartimento in cui il merito è la legge con cui si assume. Se poi ha un po’ di risorse, la cosa funziona. Ci metterei le mani sul fuoco. Il problema è meritocrazia e non avere fondi per niente. E poi certo, va visto in un contesto globale. Se un mio studente finisce lì e non ha un lavoro da un’altra parte, siamo finiti. Ci deve essere questa dinamicità. Qui tutti usano la metrica del merito con un bel po’ di risorse.

Q.: A parte la matematica e i figli, cosa ti piace fare?

A.: (ride) Matematica e figli prendono il 95% del mio tempo. Perché quando uno parla matematica, deve anche dire che con le età ti arrivano un sacco di responsabilità di commissioni, studenti etc… che portano via un sacco di tempo. Ma quando abbiamo un po’ di tempo libero, specie in estate, beh, a noi piace molto cucinare. Quindi, tutti quelli che passano più o meno per il MIT, conosco, non conosco, passano per casa nostra. Infatti domani è il giorno del ringraziamento, e stavo preparando perché avremo un venti, venticinque persone qui. E insomma, ogni fine settimana abbiamo qualcuno qui a mangiare.

Q.: Ma cosa cucini, piatti italiani?

A.: Ah interessante! Beh, un po’ misto. Domani faccio come da tradizione il tacchino, ma io faccio una ricetta abruzzese, faccio il tacchino con le castagne dentro, faccio le olive ascolane e poi però faccio un paio di ricette che ho trovato sul New York Times. Insomma una cosa mista, una revisione del Thanksgiving con gli occhi di un’italiana.

Q.: E quando torni in’Italia cosa fate? Andate a casa tua?

A.: Adesso che i bambini sono più grandi cerchiamo di passare una settimana in qualche posto in Italia e in Europa. Per esempio due estati fa siamo andati nella Loira e invece l’estate scorsa siamo andati alle isole Eolie che ci sono piaciute moltissimo. E poi due o tre settimane a casa di mia madre sull’Adriatico, dove andiamo a passeggiare in montagna, al lago…

Q.: Va bene. Vorresti chiudere con qualche cosa che non sei riuscita a dire?

A.: Vorrei tanto che l’Italia cambiasse un pochino. Al momento sono molto molto triste per quello che vedo, anche per come la donna viene vista, le università che non funzionano, questi ragazzi che poverini devono andarsene. Quando io sono andata via ero contenta di andare, non avevo forti legami con nessun posto. Però non mi sembra giusto che una persona giovane che sia molto brava e che ami vivere nella sua città e abbia forti legami con l’Italia, sia costretto ad andare via e a tagliare quei legami. Questo secondo me non è giusto. Per cui uno non può dire “sei bravo, te ne vai e fai carriera”. E vorrei che coloro che voglio restare lo potessero fare bene.

 

 

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