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A soli 29 anni, è diventato professore ordinario all’Università di Zurigo. Oggi parliamo con Camillo De Lellis.

 

Q.: Ciao Camillo, puoi presentarti brevemente? Cosa fai, chi sei?

 

A.: Cosa faccio? Mi diverto, tanto. Cosa faccio matematicamente, intendi? Sono Camillo, sono all’università di Zurigo, studio analisi, in particolare equazioni alle derivate parziali con collegamenti alla geometria e alla fisica matematica, qua e là.

 

Q.: Quando hai cominciato a capire che eri bravo in matematica?

 

A.: Da piccolo ho sempre avuto un certo talento per la matematica, ma era molto meno chiaro che volessi fare il matematico. È venuto fuori molto più tardi, diciamo verso i quindici o sedici anni. Diciamo che ero abbastanza convinto che volessi fare lo scienziato e poi al Liceo ho capito che volevo fare il matematico.

 

Q.: C’è qualcuno che ti ha guidato in questa tua vocazione?

 

A.: No, ho cominciato leggendo. Ovviamente mio padre ha una certa inclinazione per la scienza, ma più per quella sperimentale che per quella teorica. A casa c’erano tanti libri di matematica, ma anche di fisica. Mio padre tra l’altro fa l’insegnante di Inglese alle scuole medie come mia madre, per cui non è che ci sia… Mio zio fa l’insegnante di matematica alle superiori, ma fino al momento in cui ho palesato questo interesse non ne avevamo mai parlato.

 

Q.: E qual è il libro che più ti ha ispirato?

 

A.: Un libro specifico? Beh, una cosa che mi ha incoraggiato molto è che mio padreaveva studiato un po’ di analisi, era interessato alla matematica come a tante altre cose e, una volta, quando avevo credo quattordici anni, mi disse che non era mai riuscito a capire il teorema fondamentale del calcolo. E mi aveva allungato un libro (non mi ricordo in realtà quale fosse) e mi aveva in un certo senso sfidato a capire questa cosa qua, che io in realtà dopo un po’ di mesi ho capito. Non come lo chiederesti a uno studente all’università, ma insomma avevo abbastanza capito perché l’integrale è il contrario della derivata.

 

Q.: E poi hai provato a spiegarlo a tuo padre?

 

A.: A dir la verità non c’ho nemmeno provato. Molto spesso quando provo a spiegare qualche cosa di matematica a mio padre o ai miei familiari va a finire abbastanza male. Per qualche motivo sono impaziente se ho un legame affettivo con la persona. Spero non succeda anche con mio figlio. In realtà quello che mi succede è che mi spazientisco se la persona non capisce subito. E se la persona è emotivamente vicina a me lo percepisce immediatamente. Mentre con gli studenti sono emotivamente più distaccato, per cui anche se non capiscono, pazienza. Con le persone che mi sono vicine tendo a essere più emotivo, forse perché ho la sensazione che sono io a non essere chiaro. Insomma con mio padre se entriamo un po’ nel dettaglio, rischia che litighiamo…

 

Q.: E i tuoi genitori ti hanno incoraggiato verso la professione di Matematico?

 

A.: Mia madre era fortemente contraria e voleva farmi fare Ingegneria, come tutte le madri d’Italia, credo. Mio padre non era contrario, ma fortemente dubbioso. Mia madre temeva che io finissi a insegnare in un Liceo o una scuola Media. Mio padre non è che abbia tentato di influenzarmi, ma era preoccupato che questa storia di fare il matematico non finisse bene.

 

Q.: E tu cosa hai fatto?

 

A.: Beh, a mia madre ho detto chiaro e tondo che avrei fatto matematica sia se fossi entrato in Scuola Normale, sia in caso contrario. È chiaro che poi, quando ho vinto il concorso a Pisa la situazione è un pochino cambiata.

 

Q.: E hanno cambiato parere?

 

A.: Mia madre dice tuttora che se avessi fatto Ingegneria avrei fatto sicuramente bene e probabilmente starei meglio di adesso come matematico.

 

Q.: E tu quando hai capito che eri tagliato per questo mestiere?

 

A.: Quando ho capito che avrei combinato qualcosa di buono? Ah, beh, non credo di essermi mai posto una domanda di questo tipo. Forse da un punto di vista molto egoistico, ho pensato che questa era una cosa che mi piaceva proprio fare. E l’unico problema che mi sono posto è se sarei riuscito a sopravviverci. Quando ho capito che il problema non c’era mi sono tranquillizzato. Però non mi sono mai chiesto cosa io potevo dare alla matematica. Casomai il contrario.

 

Q.: E quando hai capito che eri proprio bravo?

 

A.: Mah, non credo di averlo mai capito. Non so se ne sono tuttora così convinto. Di certo che mi dessero un posto di ordinario a 29 anni a Zurigo… Insomma questo problema del tipo ‘quando divento professore’ non me lo sono mai posto. Nel momento in cui mi sono addottorato ho fatto domande da Post-doc e da ricercatore e poi, strada facendo ho fatto domande per i posti più in là. Non mi sono mai posto il problema di quando ci sarei riuscito. È venuto tutto molto naturale. In generale, nel corso dei miei studi, non c’è stato mai un momento in cui mi sono detto: ‘ah, ma allora sono più bravo di quanto pensassi’. La mia opinione su di me è abbastanza costante.

 

Q.: Però ci saranno stati dei successi che ti hanno incoraggiato.

 

A.: Certo ci sono stati dei momenti in cui ho avuto delle soddisfazioni. In alcuni momenti ho risolto dei problemi interessanti, che erano anche abbastanza difficili. Ecco. Però quei momenti li ho vissuti dicendo:‘però, accidenti, questo mi è riuscito’.

 

Q.: Il risultato che hai ottenuto che ti soddisfa di più?

 

A.: Se ne devo sceglierne uno è sicuramente il lavoro sulle equazioni di Eulero Incomprimibile. Quello che ho fatto due o tre anni fa con LászlóSzékelyhidi. In questo lavoro diamo una spiegazione abbastanza efficace per alcuni esempi di non unicità di Euleroincomprimibile. E abbiamo collegato questo aesempi in geometria differenziale e anche a esempi come la mal positura delle soluzioni di entropia per le leggi di conservazione in dimensione maggiore di due.

 

Q.: E in che dimensione avete lavorato?

 

A.: Mah, le cose valgono sia in dimensione due che superiore.

 

Q.: A cosa stai lavorando adesso?

 

A.: In questo momento ho un paio di progetti piuttosto a lungo termine. In uno di questi sto cercando di dare una dimostrazione semplice dei risultati di regolarità per le correnti minime in codimensionemaggiore uguale di due.

 

Q.: Di che si tratta?

 

A.: Diciamo che c’è questo risultato storico sulla regolarità delle superfici che minimizzano l’area in ogni codimensiondimostrato una trentina di anni fa da Almgren, e che stampato faceva oltre 1000 pagine (il manoscritto era di oltre 1800 pagine!). Una delle mie aspirazioni sarebbe di trovare una dimostrazione “umana” di questa cosa qui. E una buona parte della teoria l’abbiamo già semplificata trovando delle dimostrazioni più eleganti dei risultati fondamentali. E questo servirebbe a sbloccare in un certo senso un’intera area di ricerca, perché ci sarebbero cose interessanti da fare, ma che sono bloccate da questo “Moloch”. Ci tengo a dire che questa ricerca la sto conducendo con un mio dottorando che si chiama Emauele Spadaro che discuterà la sua tesi tra pochi giorni.

 

Q.: Quali persone sono state importanti per la tua formazione?

 

A.: Sono debitore in realtà a moltissime persone. Se devo identificare tre persone da cui ho imparato molto, beh, devo molto a Luigi Ambrosio (il mio relatore), Felix Otto e Tobias Colding.

 

Q.: Quali sono i settori della matematica che vedi come maggiormente promettenti?

 

A.: Mah, non saprei, diciamo che c’è questa interazione tra analisi e geometria che mi sembra sia molto interessante negli ultimi venti-trent’anni. La soluzione della congettura di Poincaré ne èun esempio lampante. Da questo mi aspetto che escano ancora cose molto interessanti. È un ambito della matematica che a me interessa molto e che trovo estremamente moderno, promettente. Ma è molto ampio, poi è difficile circoscrivere cosa poi risulterà più interessante.

 

Q.: Quali sono i tuoi “dream problems”?

 

A.: Ce ne sono tanti. E alcuni anche estremamente ambiziosi. Ma me li tengo lì, ci lavoro attorno, magari non esattamente a quei problemi lì, o magari non al 100%. Ma faccio anche altre cose, altrimenti non combinerei nulla. In realtà la maggior parte di queste cose le tentano in molti, ma le risolvono uno o due, no? Einsomma, ho un approccio abbastanza pragmatico. E poi quando studio un problema mi piace anche capire cosa ci siaintorno.

 

Q.: Ma pensi mai di chiuderti in casa come Wiles oPerelman a lavorare initerrottamente su un problema super-importante?

 

A.: Beh, sì, a volte mi chiudo in casa e lavoro solo su queste cose, ma, a differenza diWiles, non mi riescono… Insomma, non so se Wiles o Perelman facevano solo quello, io faccio anche altro…

 

Q.: Che rapporti hai con le applicazioni?

 

A.: Io credo che ci siano cose molto interessanti. Io, più che cose applicate, magari ho cercato di dare basi teoriche a persone che facevano matematica applicata, soprattutto all’inizio della mia carriera. E la trovo una cosa estremamente interessante, fruttuosa e appassionante. In realtà io sono un matematico piuttosto teorico e non mi sento portato per farlo io in prima linea. Però se uno venisse da me con una domanda precisa su di un problema di matematica applicata, sarei ben contento di interessarmene. Se poi il problema esteticamente mi piacesse, potrei mettermici a lavorare, ma sempre da matematico puro.

 

Q.: Secondo te per fare applicazioni bisogna interagire direttamente con chi lavora sul campo o basta avere un problema ben precisato?

 

A.: Io credo che ci sia bisogno di interazione con chi il problema lo fa, forse non con una sola persona, può anche essere fatto in team, ma credo che un contatto ci debba essere altrimenti mi verrebbe da dire che più che matematica applicata stai facendo fisica-matematica, che è un’altra cosa.

 

Q.: Hai interagito con non matematici a livello scientifico?

 

A.: Sì in alcuni c’è stato un contatto e credo che sia possibile avere uno scambio di informazioni anche fruttuoso. Solo che ho investito molto più tempo nella matematica pura che in quellaapplicata.

 

Q.: Va bene, passiamo a parlare d’altro. Cosa fai quando non fai matematica?

 

A.: Quando non faccio matematica faccio parecchie cose. Faccio sport, sono appassionato di cinema, di musica classica, gioco con mio figlio, che adesso ha tre anni, e leggo molto.

 

Q.: E cosa leggi?

 

A.: Leggo veramente di tutto. Per esempio mi piace molto JamesEllroy, ma mi piace molto anche RobertoMusil, per cuisono abbastanza disparate le cose che mi piacciono. Per esempio nel 2010 ho letto due o tre libri di legalthriller di Carofiglio che mi sono piaciuti, poi un saggio di Enzensberger su Hammerstein, un generale tedesco tra la prima e la seconda guerra mondiale oppositore di Hitler e poi l’ultimo romanzo dei Wu-Ming (N.d.r.: presumibilmente Altai). E poi ho cominciato a leggere in tedesco “I Buddenbrook”. Ho letto un capitolo, ma lo trovo molto arduo.

 

Q.: Parli bene tedesco?

 

A.: Riesco a esprimermi, correntemente. Che poi lo parli bene non ne sono sicuro. Però faccio lezione in tedesco.

 

Q.: Che rapporto hai con i tuoi coetanei che a volte sono ancora alla ricerca di un lavoro e spesso abitano con i loro genitori? Che pensano della tua carriera di matematico?

 

A.: In realtà stando all’estero questo fenomeno di persone della mia età che stiano a casa con i genitori non esiste, per cui non saprei. In generale la gente è interessata, e trovo delle reazioni più di curiosità che di terrore.

 

Q.: Non ti sembrano intimiditi?

 

A.: No, non mi sembra…

 

Q.: Ma non ti chiedono dettagli su quello che fai?

 

A.: Questo mi viene domandato piuttosto spesso. Io do sempre delle risposte provocatorie del tipo “Mi diverto un sacco”. In genere do questa risposta provocatoria per vedere se l’interlocutore è realmente interessato a sapere cosa faccio.E funziona da barriera, così che escludo i casi in cui la persona vuole semplicemente conversazione, e poi invece ci sono le persone che sono veramente interessate e allora mi piace cercare di spiegare cosa fa un matematico.

 

Q.: Cosa ne pensi della divulgazione della matematica?

 

A.: Da ragazzo ho letto parecchi libri di divulgazione che mi hanno molto stimolato. Poi però, dopo i 15 o 16 anni ho cominciato a trovarli molto superficiali,per cui ho cominciato ad approfondire di più. La divulgazione è importante ed è difficile da fare, specialmente in matematica. Però una cosa che non mi piace, ed è una tendenza che io vedo in tanti libri di divulgazione, è la tendenza a renderla una cosa astrusa o magica. Come quando dicono“il fisico X ha detto che viviamo in uno spazio a 17 dimensioni”,insomma queste cose che vengono fatte per impressionare la gente. Che è la filosofia esattamente contraria a quella della scienza. Cioè quello che mi è sempre piaciuto nella scienza è che si cerca di avere una spiegazione semplice di un fenomeno complesso. Ci sono invece articoli di divulgazione scientifica in cui si fa l’esatto contrario. A volte leggo articoli sui giornali che trattano la matematica come l’astrologia. Cosa che francamente mi irrita.

 

Q.: Che ne pensi dei film che parlano di matematica?

 

A.: Beh sui film non saprei. Credo di aver visto solo “Morte di un matematico napoletano” e non so quanto corrisponda alla vita di Caccioppoli. A me il film è piaciuto, e Cecchi era magnifico. Non sono andato a vedere “A beautiful mind”. Poi un amico mi ha fatto vedere una puntata del tizio di “Numb3rs”. E io lo trovo nello stesso filone di cui parlavamo prima. Questo tizio è una specie di mago che sta lì e risolve tutto. Può essere divertente guardarlo, ma insomma…

 

2Q.: Torniamo a parlare di cose serie. Visto da fuori, cosa non funziona nella ricerca italiana?

 

A.: Tante cose non funzionano in Italia. Intanto che rispetto allo sforzo che ti costa, la carriera accademica non è così soddisfacente. Vuol dire fare un sacco di sacrifici senza avere uno status sociale soddisfacente. E questo vale per tutta l’educazione statale, dove le persone non sono pagate come dovrebbero. Questo è un problema grosso. Per esempio quando cominci la carriera accademica, all’estero hai uno stipendio che ti permette, se vuoi, di spostare la tua famiglia. In Italia no. Poi i meccanismi di selezione che non sono molto trasparenti. E i finanziamenti per la ricerca sono molto pochi. E queste sono cose che tutti dicono. Ma c’è una cosa che non sento dire quasi mai, e che pure mi rende molto perplesso e sconfortato quando cerco di paragonare l’Italia all’estero. Se, in media, io entro in un Dipartimento di matematica in Italia – e mi limito alla realtà che conosco -trovo che c’è una discreta percentuale  di professori ordinari che non fanno nulla, non fanno ricerca, essenzialmente non fanno didattica, non hanno studenti di dottorato, insomma, non producono nulla. Ma nulla di nulla. Non vorrei però essere frainteso: la dimensione del fenomeno è shockante solo se confrontata alla situazione in tanti altri paesi di cui ho esperienza.C’è da dire infatti che, in valore assoluto, c’è una grossa fetta di docenti dei dipartimenti italiani che lavora moltissimo, compensando per i nullafacenti. E’insomma, a parer mio, un gioco a somma nulla: molti fanno il lavoro al posto degli altri. Chiaramente persone di questo tipo che lavorano poco ci sono ovunque, anche all’estero. Però quando prendi un buon dipartimento di matematica all’estero, ne trovi alcuni, pochi, una percentuale piuttosto bassa. Una cosa per me mostruosa è che nei dipartimenti di matematica in Italia ne trovi una percentuale molto più alta!

 

Q.: Ma la didattica la fanno un po’ tutti…

 

A.: No, no, non bene. Fanno didattica a distruggere. E questo lo trovi in quasi tutti i dipartimenti di matematica. E non so perché sia così. E una cosa collegata è che c’è gente giovane e brava a cui di conseguenza vengono appioppate tonnellate di impegni didattici, spesso soffocandoli. Mentre questo all’estero normalmente non succede. Certo non è uguale dappertutto, ma non come nel nostro paese. La mia impressione è che questo succeda specialmente nella vecchia generazione. I giovani entrano freschi e pieni di entusiasmo. Certo, ognuno al suo livello. Mica devono tutti essere dei Gromov. Però si richiede che ciascuno faccia il suo onesto lavoro. E poi non so cosa succede, perché non vivo direttamente la realtà italiana, e se magarifossi inserito in quel contesto sarei uno di quelli che non fa nulla, magari si scoraggiano, ma insomma vedi molti che dopo i quarant’anni sono lì e non fanno più nulla. Sono delle osservazioni che mi porto dietro da quando sono studente…

 

Q.: Cosa diresti per motivare un giovane a fare matematica?

 

A.: Direi che è bello. È bello. È bello. È bello fare matematica. È interessante. Si capiscono le cose. Non so come dirlo, ma il piacere che provo quando capisco una cosa è proprio la soddisfazione di averla capita. È impagabile. E ovviamente è anche una cosa utile. Certo, a un ragazzo di 18 o 19 anni, se lo vuoi incoraggiare a fare matematica o più in generale a fare scienza, gli puoi spiegare che ci sono le applicazioni.Ma insomma, alla fine se sono queste che veramente lo interessano, allora potrebbe anche andare a fare l’ingegnere. Invece secondo me uno deve battere sul chiodo del genuino interesse estetico nel fare matematica. Uno fa cose belle. E in questo invidio i miei colleghi che fanno scienze umanistiche che non devono mai giustificare il motivo per studiare le loro materie. Studi italiano o storia dell’arte perché sono belle. E così dovrebbe essere per la matematica. Perché la matematica è bella e divertente, più di quanto uno non pensi.

 

Intervista raccolta da Roberto Natalini

 

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