Leggere un libro di matematica non è come leggere un libro di letteratura. Non si inizia necessariamente da pagina uno, non si finisce necessariamente all’ultima pagina. Nicola Ciccoli ci conduce tra le sue letture giovanili di matematica (da un’idea nata su Facebook). La parte 2 è qui.
Leggere un libro di matematica non è come leggere un libro di letteratura. Non si inizia necessariamente da pagina uno, non si finisce necessariamente all’ultima pagina; ci sono fior di matematici disposti ad ammettere che non hanno mia letto un libro di matematica “from cover to cover”. Non ci si muove a passo costante. Alcune righe possono richiedere giorni e alcuni capitoli poco più di una pausa caffè. Bisogna spesso tornare indietro, e a volte anche slanciarsi in anticipazione in avanti. Bisogna riscrivere quello che si legge, a volte a libro chiuso, come novelli Pierre Menard. A volte alcuni capitoli si leggono per osmosi, semplicemente lasciando sulla scrivania il libro chiuso per un numero sufficiente di giorni, e riaprendolo scoprendo con stupore di aver finalmente capito il significato di parole che un a settimana prima sembravano ungherese. Non sono neanche sicuro che la parola ”leggere”, per l’operazione che si compie con un libro di matematica, sia completamente appropriata. Se Kodaira dice che “niente è più illeggibile per me di un libro di matematica” e Yang che “Ci sono due tipi di libri di matematica; quelli in cui non superi la prima pagina e quelli in cui non superi la prima riga”, certamente c’è qualcosa su cui riflettere. Eppure li leggiamo, ce ne innamoriamo, stiliamo classifiche, giudichiamo lo stile, condividiamo entusiasmi. Fra lo stupore di amici, compagni, sposi che non capiscono quando una pagina di formule possa essere più bella di un’altra. E’ il frutto di una relazione perversa, di un rapporto quasi incestuosa, di un alternarsi di gioie e sofferenze che spesso suscitano gelosie lunghe una vita. Davanti a un libro nuovo, agognato a lungo, ci rimbocchiamo le maniche con entusiasmo e anche un po’ di timore: per dirlo con le famose parole di Halmos: Don’t just read it; fight it!
Arnol’d: Metodi matematici della meccanica classica. Avevo 20 anni. Finalmente, in virtù di una modifica del regolamento, potei entrare nella biblioteca del Dipartimento di Matematica della mia Università. Era un largo sotterraneo, stipato di scaffalature a perdita d’occhio. I libri in parte divisi per argomento, anche se spiccavano le collezioni di testi tutti uguali, tra cui (intera parete di fondo) la successione giallo-nera dei Lecture Notes in Mathematics. Mi sentivo come un bambino nel paese dei balocchi. Passai almeno tre ore la dentro, toccando libri, aprendoli, sfogliando le introduzioni. La sezione di Meccanica Razionale stava sulla sinistra. Tra gli altri libri questo, che avevo già adocchiato ma ancora non letto; lo presi in consultazione. Lo avrei dovuto riportare entro sera. Quando iniziai a leggerlo in sala studio ne fui rapito. Entro sera non solo lo avevo riportato ma me ne ero comperato una copia (che ancora ho, peraltro). Cosa che comportava praticamente una settimana a pane e acqua, data la scarsità di risorse economiche. Ma sapevo che non potevo tornare a casa senza avere con me queste pagine, senza poterlo sfogliare prima di andare a letto. Era di una bellezza sconvolgente, mi emozionava, mi turbava in un modo che ricordo ancora. Ancora non sapevo che più ancora del testo originale sarebbero state le Appendici, veri libri nel libri, a restarmi in mente a lungo. Ancora, soprattutto, non sapevo chi fosse Arnol’d. Di lì a poco mi procurai i libri che, grazie alle economiche edizioni Mir, mi potevo procurare. Le “Equazioni Differenziali Ordinarie” (famoso per il Problema di pagina 24: “Indicare la lacuna nella precedente dimostrazione” e per i commenti salaci “Come accade sempre per le dimostrazioni di teoremi ovvii, è più facile eseguirle che leggerle”) e i “Metodi Geometrici della teoria delle equazioni differenziali ordinare” (dove il famoso gatto di Arnol’d splende in piena luce). Ancora Arnol’d non era venuto a Bologna a prendere la sua laurea honoris causa, la prima dopo la caduta del muro di Berlino, dopo la caduta di quel regime che nel 1974 aveva imposto che non dovesse vincere la medaglia Fields, perché ebreo e sospetto di dissidenza. Ancora non mi ero preoccupato alla notizia del suo incidente parigino, come se ad essere caduto con la bicicletta fosse stato un mio parente e ancora non avevo letto quel bellissimo libro di ricordi, Yesterday and long ago, che, scritto per recuperare in pieno l’uso della memoria ha finito per essere una sorta di testamento morale di un uomo rigoroso e intransigente, del rigore e della intransigenza dettati da un amore profondo per il proprio lavoro. Molte, negli anni, son diventate le pagine di Arnol’d che ho letto e riletto: Quando non riesco a risolvere un problema prendo i miei sci di fondo. Dopo una quarantina di chilometri trovo sempre una soluzione (o un’ idea per una soluzione). Dopo averla analizzata attentamente spesso trovo che è sbagliata. Ma questo è un nuovo problema che posso analizzare nello stesso modo.
Bourbaki: Lie groups and Lie algebras. Quando il professore di Geometria Superiore ci disse che il corso sulle algebre di Lie avrebbe avuto il Bourbaki come libro di testo non feci una piega. Ci aveva già passato un malloppo di circa trecento pagine di appunti del corso dell’anno prima, dando per scontato che noi dal dato di fatto di sapere quelli saremmo dovuti partire, figuriamoci. Soprattutto io, del tutto ignaro dei fatti più elementari della storia della matematica, non sapevo chi (o dovrei dire cosa?) fosse Bourbaki. Quello suggerito era un libro di testo e già il fatto di averne uno, per quanto in francese, era buona cosa. Lo presi in prestito dalla biblioteca, la vecchia edizione della Hermann che andava trattata con cura per evitare che si perdesse le pagine per strada, lo fotocopiai in copisteria come era uso fare a quei tempi e iniziai a studiarlo e sottolinearlo. Ho conservato quelle fotocopie. Mi abituai in fretta ai simboli di “passaggio pericoloso”, la famosa S di Bourbaki, e a esercizi che erano veri e propri pezzi di teoria. Mi abituai in fretta al fatto che alla definizione di un oggetto seguisse non già una lunga lista di esempi e contro esempi ma molto semplicemente la definizione del corrispondente omomorfismo. Faticai, sudai, e mi gustai una lettura che certo non era facile ma metteva dannatamente in chiaro, da subito, il suo stile e il suo obiettivo. Ora tutte le volte che racconto a qualcuno che le algebre di Lie le ho imparate la prima volta sul Bourbaki mi si da del pazzo. Oggi so che il libro gode di fama quasi sulfurea, e che mai nessuno considererebbe i Bourbaki (nel loro insieme, tutta la completa enciclopedia) come testi di didattica. Invece per me, per l’aspirante matematico che ero allora, quell’algido ordine era rassicurante, quella asciutta complessità (così agli antipodi dell’Arnold) riposante. Una lettura difficile, che ricordo ancora. Poi, con il passare degli anni, ho imparato a riconoscere i limiti di quella scrittura a volte troppo ingessata, la necessità di liberare le intuizioni anche scorrette, il piacere di ripercorrere i contenuti di un argomento matematico anche secondo linee di ragionamento meno limpide, più spurie. Oggi mi rendo conto che la convinzione di poter imbrigliare l’intera matematica in una struttura così formalmente rigorosa era un sogno matto e disperatissimo e sono contento che non sia stato possibile. Ma nel ricordo, il piacere di quelle pagine e il piacere delle prime dimostrazioni in cui tutto sembrava tenersi in maniera imperfettibile sono tutt’uno.
Bott-Tu: Differential forms in algebraic topology. Se c’è una cosa che sembra difficile da spiegare a uno studente di matematica di oggi è la seguente: in tempi in cui non c’erano i PDF, i download, i siti russi, non c’era proprio internet, c’erano due modi per mettere le mani su di un libro di matematica in inglese. Il primo, relativamente semplice, di prenderlo in prestito o in consultazione in biblioteca. Sempre che la biblioteca concedesse prestiti o consultazioni facilmente, naturalmente. Spesso la procedura necessaria a ottenere la mallevadoria di un docente del Dipartimento era sufficiente a scoraggiare i deboli di cuore, altrettanto spesso i bibliotecari sembravano abbastanza scocciati all’idea che quelle pagine venissero affidate proprio a te e comunque mai i tempi di riconsegna erano compatibili con l’idea di poter leggere e studiare qualcosa di diverso dall’eserciziario necessario a finalizzare il compito (cinque appelli l’anno, capiamoci) che ti aspettava. Insomma una via fattibile e non priva di insidie e che concedeva solo il dono del possesso temporaneo. Poi c’era un’altra via ed era quello di acquistare il libro negli USA. Molto più facile a dirsi che a farsi. L’unica agenzia che se ne occupasse, a Bologna, stava in un portone subito prima dell’inizio di Via delle Moline (posto che sarebbe diventato magico, per altri motivi, in anni successivi). I tempi erano lunghi (pagamento anticipato e 2-3 mesi di attesa, il servizio di spedizione via aerea proibitivo per le finanze di uno studente) e il ricarico economico notevolissimo. Così, quando un fisico che aveva seguito assieme a me il durissimo corso sulle Algebre di Lie mi comunicò che sarebbe partito per un Ph.D. a Rochester mi organizzai. Gli diedi i soldi e l’ordine ad Agosto, momento della partenza, con la promessa di vederci a Natale, al suo primo ritorno. Il libro che volevo era il Bott-Tu. Libro che avevo intravisto solo di striscio ma che prometteva un intero mondo di cose vagheggiate e mai capite: classi caratteristiche, fibrati vettoriali, successioni spettrali. Nomi tanto esotici quanto l’idea che di lì a quattro mesi sarei diventato possessore di un Graduate Text in Mathematics per la prima volta. Dal caldo di Agosto dovetti aspettare la nebbia di un pomeriggio di fine Dicembre. Il mio amico ritornò, mi telefonò, venne a Pesaro e davanti al cancello di casa mia potei finalmente dare a lui i soldi che aveva gentilmente anticipato e prendere, eccitato, il mio libro, perfetto nel suo giallo scuro brillante, contrastato al bianco. Centoventi giorni e finalmente il Bott-Tu era mio. Leggerlo ha però richiesto molto più di centoventi giorni. Quando il mio amico tornò da Rochester con il Ph.D io ancora non ero riuscito a capir nulla di successioni spettrali. Il libro mi ha seguito fedele. L’ho studiato per gli esami di ammissione per il mio dottorato e poi per i concorsi da ricercatore, me lo son portato dietro per i concorsi da associato (e se la prova didattica fosse sulle classi di Chern) e ancora oggi lo sfoglio, lo leggo, lo studio con soddisfazione. Ancora oggi non posso dire di aver capito tutto quello che c’è scritto in quelle dense 300 pagine. Meglio così. Ancora oggi trovo qualcosa da capire e, in ultima analisi, per cui emozionarmi. Sono contento di averlo atteso così a lungo. Come se l’attesa mi avesse preparato a essere un lettore migliore di quello che sono.
Mawhin-Willem: Critical point theory in Hamiltonian systems. Su questo libro ho imparato la teoria del grado topologico di Leray-Schauder e un sacco di altre cose interessanti, in anni in cui la lettura dei libri di matematica la facevo più per imparare qualcosa di nuovo che per risolvere dei problemi. Si potevano dunque anche leggere libri di analisi, essendo geometri, di algebra essendo analisti numerici, e così via, senza suscitare scandalo. Qui, in particolare, ho scoperto che in ogni istante esistono due punti della Terra in cui pressione e temperatura sono esattamente le stesse e che c’è una ragione per cui al centro della testa abbiamo tutti un punto in cui i capelli sono impossibili da domare. E che la stessa matematica permette anche di dimostrare l’esistenza e unicità di equazioni alle derivate parziali quasi senza guardarle negli occhi, cosa che fa dormire male i fisici matematici e benissimo i topologi, Ma questo è poca cosa da dire (e poi oggi non mi va granché di parlare di grado topologico) se non che, ecco: LERAY e SCHAUDER, il grado topologico lo hanno inventato loro. Schauder è un matematico polacco di Lvòv, ebreo. Esponente di quella famosa scuola di Lvòv che, guidata da Banach, portava avanti il suo lavoro principalmente ai tavolini di bar e caffè, tra birre e snack, in sessioni interminabili che potevano comprendere una intera giornata e nelle quali, come ricorda Ulam, era impossibile superare Banach in qunatità di alcool. Durante la seconda guerra mondiale Lvòv viene prima occupata dai sovietici, che pur imponendo all’Università molte restrizioni ne lasciano inalterata la struttura, poi dai tedeschi. Dopo soli otto giorni dall’occupazione tedesca 42 professori vengono giustiziati. Schauder sopravvive, nascosto, circa un anno. Poi, arrestato, viene probabilmente giustiziato dalla Gestapo dopo un tentativo di fuga. Continua a fare matematica fino all’ultimo anche se non ha neanche la carta per scrivere i teoremi a cui sta lavorando, cosa di cui si lamenta in brevi note scritte a Heisenberg e Hopf per chiedere aiuto. Il suo collega Leray è un matematico francese, di umili origini. Anche per Leray la guerra non è priva di conseguenze. Messo, con i gradi di tenente, al comando di una unità antiaerea, viene fatto prigioniero e tenuto per 5 anni in un campo di concentramento in Austria. In questo campo di concentramento fonda una “Università per detenuti” e si concentra sulle ricerche in topologia algebrica, l’argomento più lontano dalle applicazioni per evitare di dover essere arruolato forzatamente tra gli scienziati nazisti. Nel ’45, in un campo di rifugiati, trova la figlia di Schauder, ormai orfana e gravemente malata, la accudisce, la fa ricoverare in un ospedale parigino e la segue fino alla sua guarigione. Due piccole storie, nel dramma di un secolo, legate da un lavoro in comune su di qualcosa di così astratto da permettere loro di sfuggire, se non con il corpo almeno con la mente, a ciò a cui non si può sfuggire. Matematica e amicizia. E niente, una cosa così.
Milnor: Morse theory. La copertina arancione della Princeton University Press è, per un matematico, sinonimo di qualità indiscussa. Purtroppo, spesso, anche di difficile leggibilità. Le lezioni dei seminari di Princeton, sono centrate su argomenti al limite della conoscenza del momento, quindi non sempre pulite, a volte complesse, certamente avanzatissime. Questo libro, invece, è una specie di manuale di come tanto possa essere detto, a volte, con il minor numero di parole possibile e con totale leggibilità. Milnor non è nuovo a questo. I suoi articoli sono capolavori di semplice eleganza. Non a caso il più famoso, la scoperta delle strutture differenziabili esotiche, non raggiunge le 10 pagine. In questo libro la sua eleganza di scrittura è al massimo. Chi legge ha l’impressione che tutto scorra con apparente semplicità. Deve certamente essere così: probabilmente Milnor nel confezionare queste note ha avuto la naturalezza che noi comuni mortali dedichiamo all’atto del respirare. Persino le figure son diventate iconiche nel seguito. Oggi non si potrebbe pensare di studiare i punti critici della funzione altezza sul toro senza rivedere quei disegni, a mano, in cui nitido è il tratto e l’idea che vogliono selezionare. Altri libri di Milnor conservano questa efficacia: quello con Stasheff sulle Classi caratteristiche e quello sulla Topologia differenziale. Nessuno però raggiunge lo stesso conciso nitore: di modo che se anche ai libri di matematica volessimo applicare l’etichetta dei “classici”, questo sarebbe senza dubbio uno di loro. Il lettore si lascia trascinare da questa apparente semplicità e attraversa quelle pagine quasi con facilità. Poi, alla fine, scopre di aver imparato tecniche che all’epoca in cui venivano scritte erano rivoluzionarie. Un capolavoro, di sole 153 pagine, che, con inguaribile ottimismo, termina con questa frase “The proof is not difficult”.
Ruelle: Thermodinamic formalism and its applications to dynamical systems. Il libro di matematica di quest’oggi lo odio e lo amo, come nelle migliori tradizioni. E’ stato il libro, durissimo, su cui ho preparato la mia tesi di laurea. Un lavoro di studio certosino che produsse un quadernone intero che conteneva la riscrittura del libro, con tutti i passaggi difficili delle dimostrazioni svolti in dettaglio, tutti gli esercizi svolti e commentati (o solo commentati per quelli che non ero riuscito a fare) esempi e contro esempi per vedere che le ipotesi dei teoremi non si potevano indebolire. Un lavoro estenuante. Il libro era oscuro nel suo mischiare teoremi matematici e terminologia da meccanica statistica, una terminologia a cui il mio nullo intuito fisico non riusciva a dare un luogo. Era complesso nel suo usare matematica di derivazione diversissima (topologia, analisi funzionale, algebra) a servizio di uno scopo ultimo che non mi era chiaro. Io dovevo trovare il valore critico della pressione topologica di un sistema dinamico unidimensionale. Il libro ne sembrava francamente disinteressato. Dopo laureato (una tesi dura e difficile, avarissima di soddisfazioni) iniziai a preparare gli esami di ammissione al Dottorato. A metà Novembre andai a Milano, mi fermai a dormire da mio fratello, feci l’esame, lasciai la borsa in stazione e girai per Milano con una ragazza di cui ero innamorato ma con cui il rapporto era ormai finito. Al ritorno in stazione non trovai il biglietto del deposito bagagli. Lo avevo perso. E chi lo aveva trovato aveva pensato bene di ritirare il mio bagaglio e prenderselo. Avevo perso un panino con il salame (la cena), un set di lenzuola e biancheria da lavare e, infine, il quadernone di appunti. Avevo perso anche il treno.
E poi, improvvisamente, nel caos della stazione Centrale capii che avevo perso un amore a cui tenevo, avevo perso la giovinezza ingenua, avevo perso la convinzione di essere in grado di fare il matematico, avevo perso speranza. E piansi. Piansi senza riuscire a fermarmi. Arrivai alla stazione di Rimini all’una di notte e mio padre dovette venire a prendermi in macchina da Pesaro. Così mi presi anche il suo cazziatone. Alle sette di mattina ero già sveglio per andare al Liceo Scientifico di Urbino e insegnare fisica a studenti da cui mi separavano solo quattro anni. Cinque anni fa ho ripreso in prestito il libro. Nel frattempo i miei interessi matematici sono cambiati, ma volevo vedere quanto sarebbe stato difficile leggerlo. Non riuscii ad andare oltre una decina di pagine. Mi sembrava impossibile che un giorno avessi capito quelle cose. Pagine che mi respingevano con una forza quasi soprannaturale. Eppure, ogni volta che lo vedo sulle scaffalature sono tentato. Tentato di riprendermi quello che ho perso. Sapendo che non posso. (1- continua)
Nicola Ciccoli