Daniele Ghisi si laurea in Matematica all’Università di Milano Bicocca con il massimo dei voti nel 2006, oggi è un compositore.
Come mai hai scelto matematica all’Università?
Non ho una spiegazione precisa: sin da quando ero piccolo i numeri mi sono sempre piaciuti: il percorso è stato per me molto naturale. In un certo senso non mi sono mai posto il problema.
L’argomento della Tesi?
La tesi l’ho fatta sulle “shearlets”, particolari funzioni che hanno applicazioni, per esempio, negli algoritmi di decomposizione di immagini. Un argomento di matematica applicata, anche se ne ho studiato l’aspetto algebrico, più teorico.
E ora sei un compositore.
Primariamente sono un compositore.
La matematica come te la ritrovi, cosa ti ha dato in più o in meno nell’essere compositore?
Più che applicazioni dirette, mi ha dato molto a livello di formazione mentale, una capacità di ragionare. Mi ha dato molto anche per la parte più computazionale del mio lavoro. Insieme all’amico e compositore Andrea Agostini lavoro a un software per la “composizione assistita” che si chiama bach. L’idea è quella di utilizzare il calcolatore per creare e modificare partiture. È un qualcosa che lego a un aspetto pratico, e non teorico, del “fare matematica”; in ogni caso gli studi di matematica mi hanno aiutato molto in questa parte del mio lavoro.
Mi spieghi meglio, cosa vuol dire modificare partiture? Immagino sia legato al suono?
No, è piuttosto legato ai simboli. Esistono tanti software legati al suono. Ce n’è uno in particolare, largamente usato, che si chiama Max: un software per il cosiddetto “trattamento in tempo reale dei suoni”. Max implementa un paradigma di programmazione visuale: ci sono delle scatolette che fanno delle operazioni, le si collega, le si combina, si crea il proprio algoritmo e il risultato di questo algoritmo è una modifica del suono entrante.
Da una qualcosa di visivo si passa a un qualcosa di uditivo.
Esatto. Questo è il paradigma che va per la maggiore ultimamente, almeno nel campo musicale. Una programmazione visiva, alla portata di un pubblico più ampio rispetto a coloro che scrivono linee di codice, permette, collegando insieme queste “scatolette”, di partire da un suono e di modificarlo, cambiarlo, generando altri suoni. L’interesse sta nelle operazioni che si effettuano per ottenere il cambiamento.
Questo paradigma esisteva già, ed è molto interessante dal punto di vista sonoro. C’è però un altro aspetto importante nel fare musica, ed è l’aspetto simbolico. Si può pensare di fare analoghe operazioni (con analoghe “scatolette”) su delle partiture, di lavorare sui simboli. I simboli non sono una rappresentazione diretta dell’evento suono, ma sono una sua astrazione – io scrivo un “la” e lo do ad uno strumentista che poi lo suona: il “la” scritto rappresenta un’astrazione del suono effettivo, ad esempio perché avrebbe potuto essere suonato un po’ diversamente da un altro strumentista.
La “composizione assistita” è una piccola branca della “computer music” e si occupa di prendere, modificare o generare partiture. Il software bach, sviluppato da me e da Andrea è una libreria che si occupa di partiture e simboli all’interno di questo software Max, che invece tendenzialmente è improntato all’audio.
Mi sembra proprio che il tuo percorso di studi sia stato fondamentale …
C’è una parte noiosa, appunto quella implementativa …
In genere è quella che piace a me …
…per me è quella più noiosa: solitamente quando mi metto a scrivere codice tendo ad annoiarmi; ma poi dipende, in realtà va a periodi.
Il progetto all’inizio era molto piccolo, ma è diventato una cosa molto grande con decine di migliaia di linee di codice e una base di utilizzatori intorno al migliaio di utenti. Io e Andrea ci teniamo in modo particolare.
Quando abbiamo iniziato a fare questa libreria, c’era una separazione molto netta tra il mondo del trattamento dei suoni ed il mondo del trattamento dei simboli. Erano due cose separate, un software si specializzava nell’uno, l’altro software si specializzava nell’altro. Tipicamente i due mondi non si parlavano, era difficile mettere in collegamento le due cose. L’idea di fare una libreria di trattamento di simboli, cioè di partiture, all’interno di un software che era prevalentemente per il suono ha cercato di cambiare la dinamica della composizione assistita: invece di schiacciare un bottone e avere la partitura finale, si può cercare un dialogo più reattivo – ad esempio al suonare di una certa nota su una tastiera, la partitura mostrata o suonata può immediatamente modificarsi. C’è un’interazione molto più diretta tra le azioni che si fanno (schiacciare un tasto) e il risultato che si ha (la partitura su schermo); questo paradigma si chiama “tempo reale”.
Quello che ne esce fuori è bello?
No, quello che ne esce fuori il 99% delle volte è da buttare. Però quell’1% può mostrare qualche strada interessante. Intendiamoci, ogni compositore può usare gli strumenti di composizione assistita a modo suo. C’è chi li usa come una sorta di calcolatrice musicale (scrivendo un algoritmo per ottenere qualcosa che si impiegherebbe mesi a elaborare a mano). Questo è forse il livello zero della composizione assistita: usare il computer come una calcolatrice che fornisce note. Secondo me l’aspetto più interessante è invece usare il computer cercando di calibrare i parametri in modo tale da trovare qualcosa che non ti aspettavi, ma che ti colpisce positivamente. Giocare, quindi, sull’elemento della sorpresa: vedere il computer come un’entità il cui risultato può sorprendere; questo mi sembra interessante perché mi aiuta a “crescere” anche come persona, mi aiuta a vedere dei panorami che magari non avrei visto altrimenti. È un modo per non rinchiudermi nella quattro mura del mio modo di pensare.
Adesso sei a Parigi o in Italia?
Adesso sono in Italia perché sto girando un video; quest’anno divido il mio tempo davvero a metà tra Italia e Francia.
Un video?
Lavoro per un progetto per un’installazione con tre schermi e audio e dura 40 minuti, è un loop.
Quindi tu curi la parte di audio?
In questo progetto in particolare curo anche la parte video, è la prima volta che lavoro ad un progetto così grande, con video. Non è prettamente il mio campo, ci metto più tempo e faccio anche più errori… quindi adesso sono in Italia e riparto la settimana prossima.
Morale: ha un senso studiare matematica?
Per me aveva senso perché mi interessava. Io l’ho studiata perché volevo capire di che cosa si trattava, ero curioso. Non mi è mai importato se avesse un senso o no quello che facevo… Capisco che ha un senso, ma lo capisco a posteriori.
Io avrei finito. Ti ringrazio tantissimo e In bocca al Lupo!
[A cura di Maya Briani]