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A molti matematici piace leggere romanzi e racconti, ma a volte ci si dimentica che ci sono opere letterarie in cui la matematica e i matematici occupano un posto importante, molte più di quanto voi possiate immaginare. In questa rubrica “Ho letto un teorema…”, Barbara Fantechi ci presenta quelle che le sono piaciute di più. In questa puntata ci parla di “I reietti dell’altro pianeta” di Ursula K. Le Guin.

Il romanzo di oggi ha per protagonista… un matematico! Beh no, non proprio: si tratta di un fisico teorico, ma la descrizione di come lavora, non sorprendentemente, si adatta molto bene anche all’attività dei matematici. Sono incluse la necessità di avere silenzio e tempo per lavorare, la difficoltà di trovare un posto, e la scelta difficile di lasciare il proprio paese e le persone amate per portare avanti nel modo migliore le proprie ricerche; si parla di difficoltà di pubblicazione, di sottovalutazione del contributo di chi è in anticipo sui propri tempi, e di rapporti difficili fra relatore e studente.

È un romanzo in cui la ricerca scientifica pura, e i problemi ad essa inerenti di tutti i livelli (dalle questioni pratiche a quelle morali), sono al centro dell’attenzione e descritti in modo chiaro ed empatico. Fantascienza, direte voi? Esatto! Stiamo parlando de I reietti dell’altro pianeta (di cui consiglio caldamente, a chi può permetterselo, di leggere la versione originale inglese The Dispossessed) di Ursula K Le Guin, del 1967.

Tolkien non è l’unico a disegnare mappe dei mondi che crea

L’altro pianeta del titolo è quello in cui un gruppo di anarchici si rifugia per dar vita alla propria società, basata su una filosofia di vita che rifiuta ogni struttura di potere e ogni forma di possesso materiale; il protagonista, Shevek, è stato educato in quella società e ne ha assorbito fino in fondo gli insegnamenti – e si trova quindi spiazzato quando, per risolvere il problema che sta studiando, si trova costretto a passare un periodo in visita nella migliore università del pianeta d’origine, una Princeton neanche troppo travestita.

Questa è l’edizione che ho io. Letta e riletta.

Il romanzo lascia ampio spazio a questioni politiche (è stato scritto all’apice della guerra fredda e nel pieno delle rivendicazioni di donne e afroamericani) ma il suo cuore pulsante è senza alcun dubbio la lotta di Shevek con i suoi problemi matematici, il suo lavorare senza sosta, studiando e insegnando e riflettendo fino alla sua soluzione, basata sull’accesso ai lavori di uno scienziato morto da tempo su un pianeta lontano, Ainsetein. La fatica del lavoro, la frustrazione della mancanza di progresso, il luminoso fulgore dell’illuminazione e la gioia rilassata del mettere tutto per iscritto risulteranno familiari a chiunque abbia provato a dare un contributo, anche piccolo, alla costruzione dell’edificio della matematica.

Il messaggio dell’autrice è chiaro: la scienza pura ha un valore intrinseco, e anche le scoperte più teoriche finiscono, presto o tardi, con l’avere conseguenze pratiche che rivoluzionano la vita di tutti; condizione necessaria per le scoperte stesse è l’interazione, diretta o mediata da pubblicazioni, fra ricercatori provenienti da paesi (o sistemi solari) diversi.

Le Guin, a differenza di molti scrittori di fantascienza, non prende sotto gamba la relatività, e propone una interessante soluzione al problema del viaggio interstellare: la materia non può superare la velocità della luce, ma l’informazione sì. Questo focalizzarsi sugli effetti di una comunicazione “istantanea” e il dibattito su vantaggi e svantaggi dell’apertura culturale che viene resa possibile rende il libro estremamente attuale. Purtroppo lo stesso vale anche per la descrizione delle difficoltà delle classi povere e della differenza fra utopia egualitaria e sua realizzazione.

Anche in questo caso vorrei concludere con una citazione, tratta stavolta non dal romanzo ma dalla sua prefazione: “L’artista non è il solo ad affrontare la difficoltà e il privilegio dell’ispirazione divina;  anche lo scienziato si prepara a riceverla, lavorando notte e giorno, quando è sveglio e quando dorme. Già Pitagora sapeva che il dio può esprimersi nelle forme della geometria come in quelle dei sogni, nell’armonia del pensiero come in quella dei suoni, con numeri come con parole.”

Barbara Fantechi

Barbara Fantechi

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