Intervento di Daniela Gambi
Docente di matematica e fisica – Liceo “L. Ariosto” di Ferrara
Chi scrive, provando a dare un modesto contributo a questa interessante discussione, è un’insegnante di Liceo alle prese con il consistente lavoro di preparazione degli studenti di quinta Scientifico; come molti colleghi nella mia situazione, sono anche impegnata nell’assolvimento di un numero di prassi burocratiche strettamente crescente (non dico in base a quale legge, proverò prima o poi a ricavarla dai dati sperimentali!) , in uno slalom tra preparazione lezioni, mansioni aggiuntive, corsi di formazione, progettazione di attività extra curricolari. In aggiunta a questo, da alcuni mesi, dall’avvio della macchina ministeriale delle “conferenze di servizio”, ho ritenuto doveroso dedicare tempo anche a capire gli “umori” di docenti e studiosi riguardo a prove autentiche, simulazioni, rubriche di valutazione. Seguo da mesi con attenzione il dibattito sulla fisica nella seconda prova dell’Esame di stato. Nel tempo questo dibattito è diventato sempre più ricco e animato, in particolare nelle liste di associazioni di matematica e di fisica a cui aderisco: alcuni interventi esprimono volontà di mediazione, altri contengono prese di posizione dure pro o contro, o contengono semplicemente manifestazioni di disagio. Un nuovo forte stimolo alla discussione è stato certamente dato dalla petizione pubblica del prof. Ivan Cervesato, contro la scelta di fisica nella seconda prova nell’Esame di Stato 2017. Anche io sono tra i numerosissimi firmatari: non voglio sfuggire alla “novità” per incompetenza, credo di fare il mio lavoro in modo dignitoso, con onestà, impegno e passione, mi aggiorno, studio continuamente. Con spirito critico, appoggio le ferme motivazioni della petizione che, garbatamente, esprime contrarietà per i tempi, i modi e il merito.
Assisto sempre più infastidita alla riduzione del confronto sul tema alla solita tenzone tra “fisici” e “matematici”, che richiama un po’ l’immagine manzoniana dei capponi di Renzo. Qualcuno argomenta con toni appassionati in difesa del proprio essere fisico o matematico di formazione, quasi fosse un tratto genetico. Senza voler sminuire i punti di vista, mi sembra che i problemi veri siano altri e che ai più sfugga la funzione di efficace distrattore, assunta da questo “taglio” alla discussione. Posso concordare sul fatto che la preparazione universitaria media di un laureato in matematica su argomenti di “fisica moderna” sia inferiore rispetto a quella di un fisico. Credo si potrebbero cercare simmetrie…, ma non nutro interesse per questa schermaglia inutile. Matematica e fisica: discipline ontologicamente diverse e complesse, ma altrettanto preziose per la formazione di una cultura scientifica, insieme alle altre scienze. Come forse molti miei coetanei di 40/50 anni, all’università non ho ricevuto una formazione specifica sulla didattica disciplinare e forse questo vale anche per i colleghi di scienze: l’abbiamo acquisita successivamente, “sul campo”, insegnando in varie scuole e studiando in preparazione ai concorsi. Di certo, questa rivendicazione di primati di “laurea più efficiente” contribuisce solo a rafforzare, nei vertici del Miur, l’idea di andare decisi alla meta, visto che tra i docenti non c’è compattezza: emerge la solita maggioranza silenziosa di esecutori (convinti, rassegnati o acritici), oltre ad un “manipolo di facinorosi” resistenti alle innovazioni, o, come si dice, alla completa attuazione di una riforma, foriera di miglioramenti nella didattica dell’ambito scientifico.
Non voglio riprodurre analisi su aspetti epistemologici, né entro nel merito della didattica dei contenuti previsti dalle Indicazioni Nazionali per l’ultimo anno di Liceo Scientifico: è già stato detto tanto qui e altrove, condivisibile o meno. Non nascondo invece l’apprensione sul futuro della formazione scientifica dei giovani. Cosa significa davvero per noi oggi? Qual è l’efficacia dei modelli curricolari esistenti, in una scuola sempre più improntata sulle logiche di competizione? Quali sono il ruolo e la formazione dei docenti? Quali il tasso di diffusione e l’impatto delle nuove tecnologie sulla didattica e l’apprendimento? Di fronte a mutamenti socio-culturali rapidissimi, e ad una situazione economica globale complessa e critica, le scelte politiche in materia di istruzione sono all’altezza?
Dalla “punta dell’iceberg” dell’Esame di Stato, vorrei che abbandonassimo i “pensieri corti” ed esplorassimo più consapevolmente la parte sommersa. Provo ad “immergermi” solo attraverso due osservazioni da semplice docente:
1) nelle decisioni in materia di istruzione prese nelle “alte sfere”, nell’ultimo decennio in particolare – condivise con pochi – quale ruolo e quale posto ha lo “studente reale”? Lasciando perdere le carenze infrastrutturali delle scuole italiane, senz’altro condizionanti, credo passi in secondo piano l’acuirsi di problematiche pressanti, che hanno modificato l’approccio didattico e la vita quotidiana nelle classi: calo di motivazione e di concentrazione degli studenti, didattica “personalizzata” per gli alunni DSA e, non ultima, mancanza di una concreta politica, adeguatamente riflettuta, della valutazione e dei suoi fini. Recepiamo direttive internazionali/europee, adottiamo regolamenti, stiliamo dichiarazioni di intenti ben articolate, nominiamo commissioni e funzioni strumentali ovunque, ma per chi vuole insegnare/imparare, soprattutto nelle nostre discipline, come si traduce tutto questo in classe? Molto spesso in ansie da prestazione, in una crescente “pressione” ad analizzare performances, e soprattutto nel “calmierare” le valutazioni. Per il “miglioramento” delle prestazioni o per l’apprendimento? Per evitare conflitti con diversi soggetti? Per l’immagine della scuola? Nelle scuole si attuano strategie palliative (di autotutela?) con scarse risorse, come corsi di recupero di poche ore. I problemi di apprendimento comunque restano e si estendono sempre più all’Università, ma si sfugge all’analisi delle cause, ci si confronta con poca efficacia e umiltà.
Tra ipocrisia, snobismo e autoreferenzialità, vedo molto individualismo tra gli insegnanti (competenti o competitivi?) e sento “saggi esterni” discettare di contenuti e approcci alla didattica, su come dovremmo insegnare. Manca una visione organica e lungimirante, non esiste un canale di comunicazione permanente tra i vari livelli di istruzione, per attuare ovunque strategie in verticale e affrontare la situazione critica: in questo panorama confuso e divisivo, a noi in basso si chiede di fare il miracolo, in sei anni, abituando gli studenti a prove esperte/autentiche, quando tutto – attorno e fuori- è rigido!
2) Pensando con orrore alla sperimentazione di liceo in quattro anni, constato ogni giorno che monte ore e modello curricolare vigenti sono insoddisfacenti: non credo – magari è un mio limite – siano adeguati per concorrere ad un pieno sviluppo di conoscenze e abilità degli studenti “medi”, né per valorizzare le eccellenze e supportare adeguatamente i ragazzi in difficoltà. La fatica del docente al biennio è sempre più quella di conciliare la prassi laboratoriale, fondamentale, con la necessità di rinforzare basi del calcolo spesso carenti, abilità di studio, attitudine all’ascolto, e, nello spirito di Polya, l’abitudine al “Try, try again until you succeed”. Difficilissimo! Anche al triennio le classi sono sovente numerose e una buona metà dei ragazzi fatica a raggiungere livelli costantemente accettabili.
Provengo dal Liceo Scientifico di trent’anni fa, dove da studentessa ho vissuto, male, le materie scientifiche rigidamente frontali, ore di spiegazione senza problemi autentici o esperti; ho scelto di insegnare, mettendomi in gioco in modo diverso, con entusiasmo e curiosità di sperimentare, magari sbagliando, ma acquisendo negli anni l’abitudine a variare metodi, strategie e attività didattiche anche in base ai miei fallimenti.
Ho sempre cercato di attrezzarmi per accogliere dignitosamente le innovazioni proposte, ma ora mi chiedo: è giusto forzare la mano per andare avanti comunque, a dispetto di tutto, solo nello spirito di “Seconda prova di fisica, ora o mai più”? Ci sono state le condizioni, nella scuola reale, per far digerire in cinque anni, allo studente reale, tale modello di prova, non solo seguendo le Indicazioni Nazionali, ma usando testi con un taglio coerente e laboratori all’altezza della loro funzione? C’è stato il tempo per validare le simulazioni sulla base di un campione significativo di classi e di analizzare gli esiti della validazione? Ciò varrebbe per la prova di matematica e a maggior ragione per quella di fisica. Non si tratta di un nuovo farmaco da immettere sul mercato, ma credo dovremmo adottare un protocollo simile di sperimentazione, per poter poi dire: “Siamo in grado di dare agli studenti la preparazione adeguata per affrontare una prova di matematica, fisica o scienze”.
Chiudo con una domanda provocatoria e una considerazione, che nella mia testa producono una intersezione non vuota: qual è la posizione dei docenti, in primis quelli di ruolo, tra i 30 e i 45 anni, che insegnano nei “nuovi licei”?
Condivido ciò che sosteneva il grande Zygmunt Bauman in un recente intervento pubblico: l’istruzione nelle nostre scuole dovrebbe acquisire una maggiore connotazione interdisciplinare per “dare ai giovani gli strumenti necessari per risolvere i conflitti in modo diverso da come siamo abituati a fare. Tutto questo non è facile ed è un processo di lunghissimo termine. È un modo diverso da quello seguito dalla politica. Acquisire la cultura del dialogo non comporta una ricetta facile, una scorciatoia. Tutto il contrario. Un proverbio cinese dice: <<Dobbiamo pensare all’anno prossimo piantando semi, ai prossimi dieci anni piantando alberi, ai prossimi cento anni educando le persone>>. L’educazione è un processo a lunghissimo termine”. C’è urgenza di ascolto e di “pensieri lunghi”!
Personalmente sono convinto che una prova scritta di Fisica sia, in linea di principio positiva, soprattutto per dare un senso alle conoscenza di matematica e dare alla matematica appresa anche il senso di linguaggio della scienza. Il progetto sottintende la costruzione di un percorso formativo a mio avviso di grandi prospettive ma che necessita una meditata pianificazione. Un esame di stato che operi trasversalmente e in modo unitario come esame di “matematica e fisica” può essere una sfida intellettuale di grande livello, ma l’esame deve essere la conclusione di un percorso formativo, non è l’esame il modo per costruire i percorsi formativi. Io personalmente sono convinto che una strada di questo tipo possa aiutare a eliminare i danni indotti dagli eccessi di una pedagogia troppo subalterna alle influenze delle strutturalismo del novecento. Trasmettere una visione della matematica come scienza che vive insieme alle altre scienze non può che avere effetti positivi, ma la domanda che sorge spontanea è se possiamo fare tutto ciò solo attraverso una prova di esame, su questo ho forti dubbi.
Chiedo scusa ad Ivan per il riferimento non corretto, che declinava in effetti quello che era la mia posizione contraria, a partire dalla quale ho condiviso le considerazioni espresse nella petizione da lui lanciata.
Un caro saluto e buon lavoro
Daniela G.
Gentile Daniela,
solo una doverosa precisazione: la petizione da me promossa non è “contro la scelta di fisica alla seconda prova all’Esame di Stato”.
La petizione si limita invece a richiedere l’ovvio, ossia che agli studenti siano proposte prove “ragionevoli”, ossia in linea con quanto mediamente è possibile svolgere in un’aula reale, con studenti reali: che non sono dei fisici, che hanno attitudini assai diverse, che si trovano a dover gestire non indifferenti carichi di lavoro relativi a numerose discipline (prima di chiedere la luna, al MIUR farebbero bene a meditare seriamente sui quadri orari ordinamentali ad oggi vigenti, chiedendo magari un parere di fattibilità a chi in classe ci entra davvero, con piacere, tutti i giorni).
Un invito alla cautela e alla ragionevolezza, insomma: assolutamente necessarie anche e soprattutto in considerazione della totale novità rappresentata da tale tipologia di prova.
Un cordiale saluto,
Ivan Cervesato
Sono un’insegnante di liceo scientifico, proprio come Daniela Gambi, ma con una decina di anni in più sulle spalle. 🙂 Quest’anno non sono direttamente coinvolta nella preparazione dell’esame di Stato, non insegnando in alcuna classe quinta, tuttavia l’argomento mi ha coinvolto in modo molto profondo e da diversi mesi a questa parte. Desidero precisare esplicitamente che le opinioni che esprimo qui sono solo le mie personali, dato che non ho certo la presunzione di fare l’esegesi del pensiero altrui.
A mio parere, non è in discussione è l’opportunità che la seconda prova scritta d’esame di Stato del liceo scientifico sia di Fisica. Al contrario, era tempo che avvenisse, e per una serie di motivi che qui non credo sia il caso di elencare. Il problema di fondo, quello vero, è *come* calare nei fatti questa bella novità, l’implementazione è la vera questione in gioco. Tenendo d’occhio, simultaneamente, sia gli obiettivi finali che si vogliono raggiungere (consapevolezza, spirito critico, cultura scientifica necessaria al cittadino medio, non specialista e non necessariamente laureato?), che le carte che si hanno in mano (preparazione/motivazione degli insegnanti e degli studenti, ore di lezione, libri di testo, presenza di laboratori?).
Sempre parlando solo a nome mio e di nessun altro, le simulazioni proposte non sono (ancora) adeguate allo scopo, anche se l’ultima sembra lievemente meglio costruita delle precedenti e quindi si può forse iniziare a sperare in una positiva evoluzione della consapevolezza ministeriale. A mio parere, una delle richieste più inconsuete fatte al diplomando è una specie di riproduzione dell’elaborazione dei dati sperimentali, ad un livello che presuppone sia una notevole dimestichezza con il laboratorio attivo che una padronanza approfondita di competenze specifiche, proprie di un ricercatore e quindi del tutto inusuali in uno studente liceale medio. Se i nostri alunni studiosi e diligenti, ma non necessariamente future matricole di Fisica, fossero davvero in grado di risolvere ‘problemi esperti’ in sede di scritto d’esame, vale a dire che, trovandosi in una situazione oggettivamente stressante, fossero ugualmente capaci di affrontare, decifrare e comprendere situazioni fisiche reali o quasi, e perciò complesse, o che comunque non sono già state analizzate a fondo in classe con l’insegnante, se la condizione reale della media dei nostri studenti liceali fosse davvero quella, posso assicurare che non sarebbe sorta alcuna questione e gli insegnanti non si sarebbero presi la briga di piantare grane.
Dal mio punto di vista, di ‘soldato semplice’ in trincea insieme ai suoi alunni, è sorprendente e significativo il fatto che, in un ‘tavolo tecnico’ di dieci esperti, che sono stati incaricati di elaborare il Quadro di Riferimento, solo tre di essi siano stati presi dal mondo della scuola, e di questi tre, solo uno è un insegnante in servizio. Come ampiamente prevedibile, il Quadro di Riferimento che è stato prodotto (e imposto) è lontano da ogni realtà scolastica secondaria: gli studenti delle facoltà scientifiche costituiscono un sottoinsieme altamente selezionato, e perciò niente affatto rappresentativo, della totalità degli alunni del liceo scientifico, specie in questi ultimi anni: un dettaglio che qualunque insegnante sul campo avrebbe potuto serenamente confermare. Se solo qualcuno glielo avesse chiesto.
In linea di principio, ritengo utile ed opportuna la coesistenza di prove classiche, alias ripetitive, insieme a quesiti più sfidanti. Il nodo della questione è la dose di ciascuna delle due tipologie all’interno della prova d’esame. I problemi cosiddetti ‘esperti’ che sono stati proposti finora come simulazioni erano del tipo ‘tutto o nulla’, e perciò, a mio avviso, profondamente, *eticamente*, ingiusti nei confronti del diplomando medio studioso, in quanto, nel caso in cui non si riesca a capire la fisica sottostante alla situazione reale descritta, allora è preclusa ogni possibilità di rispondere a qualcosa. In questo senso, un problema tradizionale, di quelli che si trovano sui libri di testi, gli garantirebbe di raggiungere la sufficienza con relativa tranquillità. Poi, una batteria supplementare di quesiti di diversi livelli di conoscenze/competenze, permetterebbe di distinguere tra lo studente che ci mette del suo dall’altro che invece ha solo studiato ed applicato diligentemente quello che gli è stato insegnanto in classe, ovvero i quesiti sarebbero riservati alla valorizzazione della fascia alta e delle eventuali eccellenze.
A questo proposito, sottolineo che è stato (giustamente) molto critico e chiaro il documento presentato dal Consiglio Direttivo dell’Associazione per l’Insegnamento della Fisica in occasione del convegno Orlandini (19 settembre 2015), che prende una netta posizione, tra le altre cose, anche sull’inopportunità di valutare gli studenti all’esame di Stato con problemi esperti, che sono in qualche modo paragonabili a quelli delle Olimpiadi della Fisica, relativamente alle quali le finalità e gli obiettivi sono ben diversi.