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Chi ha dimostrato per primo il teorema di Cauchy-Kovalevskaja o quello di Gauss-Ostrogradskij? E chi erano Rolle e Bolzano? Il problema della denominazione dei teoremi in matematica è vecchio quanto la matematica e Nicola Ciccoli ce ne parla con il suo consueto stile, appassionato e attento.

Ancora ricordo in maniera vivida il brivido vanitoso che accompagnò l’apertura del pacco che conteneva i reprint del mio primo articolo scientifico. Là dentro, per la prima volta, c’era della matematica costruita da me. In testa a tutto, stampato con un font aggraziato ed essenziale, il mio nome. Anche oggi che quel brivido non provo più, anche oggi che di quel brivido ho capito i limiti, quando il mio nome viene fatto dallo speaker di un congresso per parlare di un mio articolo non riesco a reprimere un sorriso imbarazzato. Forse anche questa, per matematici di altro calibro, è un’emozione a cui ci si abitua. Immagino che il sogno infantile, più o meno confessato, della grande maggioranza dei matematici professionisti sia quello di avere il proprio nome associato a un teorema, un principio, una definizione, un lemma che entri stabilmente nei libri di matematica. Certificato indelebile del contributo alla propria disciplina.

Tutti, come studenti, abbiamo incontrato il teorema di Pitagora; da allora Pitagora e il quadrato costruito sull’ipotenusa sono diventati un binomio inscindibile. Molti probabilmente sanno che non esiste nessuna prova storica del fatto che questo teorema sia dovuto proprio a lui. Babilonesi, cinesi, egiziani, matematici greci più antichi, altri pitagorici… tutti i loro sforzi sono andati a maggior gloria di Pitagora. In realtà il vero grande risultato di Pitagora è stato quello di aver scoperto l’esistenza di numeri irrazionali. Ma a questa affermazione matematica non viene dato un nome e dunque a tutti sembra, forse, una intuizione meno importante.

Non è però un caso isolato, in matematica, quello di un teorema a cui sia associato un nome che non corrisponde a quello del suo scopritore. Anzi. La cosa è tanto diffusa che Arnol’d, in un articolo sull’insegnamento della matematica, enunciò il suo famoso principio: “se un concetto è associato a un nome questo non è quello del suo scopritore”. Il principio è anche detto principio di Arnol’d e, in effetti, si applica a se stesso visto che gli economisti lo chiamano principio di Stiegler e lo attribuiscono a Merton. Confusi? Anche noi. Borges ne avrebbe certamente tratto una delle sue fulminanti storie di regressi infiniti. O forse Zenone di Elea. Anche in letteratura le cose non sono poi così facili.

Raccogliamo le idee. Il celebre Teorema di Cayley-Hamilton riguarda identità polinomiali tra matrici. Ed è stato, ovviamente, dimostrato per primo da Frobenius: con buona pace sia di Cayley e di Hamilton.

Per quel che riguarda le algebre di Lie, gli esperti sanno che le matrici di Cartan furono introdotte da Killing e che la forma di Killing fu studiata per primo da Cartan. Per fortuna appare ragionevole attribuire le algebre di Lie proprio a Sophus Lie.

Che dire del fatto che Cech provò il teorema di Tychonoff sul prodotto cartesiano di compatti e che Tychonoff introdusse quella che oggi viene chiamata la compattificazione di Cech? Quanto meno il conto è pari, e pazienza per lo scambio.

È evidente che in qualche caso si può discutere se a meritare di associare il suo nome a un teorema sia il matematico che ha avuto l’intuizione iniziale, quello che ne ha dato la prima dimostrazione rigorosa, quello che ne ha stabilito la versione più generale.

Così, la diseguaglianza di Cauchy-Schwarz è una proprietà di base del prodotto scalare, dimostrata negli spazi vettoriali finito-dimensionali proprio da Cauchy. Nei testi di fattura russa o sovietica è attribuita a Buniakovskij che contemporaneamente a Schwarz (e indipendentemente) la verificò negli spazi L2. Ma nella generalità in cui viene insegnata oggi è stata dimostrata da Lebesgue che forse un piccolo spazio tra tanti nomi lo meriterebbe. Poco male, avendo a suo nome, e per una volta a ragione, l’integrale.

E cosa dire allora del Teorema di Bèzout sul numero di punti di intersezione tra curve algebriche che fu intuito da Newton per primo? Eulero e MacLaurin, prima di Bèzout, si dedicarono alla sua dimostrazione e ne avrebbero potuto rivendicare qualche merito. La prova pubblicata da Bèzout ha il difetto non del tutto trascurabile di essere sbagliata; la gloria comunque gli arrise a danno di Halphen che per primo dimostrò correttamente l’affermazione senza ricavarne un nome nei libri di testo e, per quel che vale, neanche uno spazio nella memoria di gran parte dei matematici.

Il Teorema di Stokes, invece, fu per primo scoperto da William Thomson (il famoso Lord Kelvin). A guadagnare il teorema al suo nome fu il fatto che Stokes regolarmente poneva il suo enunciato come esercizio d’esame a Cambridge. Non si sa se mai nessuno sia stato in grado di risolvere l’esercizio. A pubblicare, però, la prima dimostrazione di questo teorema fu il tedesco Hermann Hankel, studente di Moebius. Si, proprio quello del nastro di Moebius, la superficie topologica con un solo lato e una sola faccia che deve il suo nome al fatto di essere stata introdotta, guarda un po’, da George Listing, un suo collega e conterraneo che, con buona probabilità, non avevate mai sentito nominare.

Anche noi italiani potremmo sciovinisticamente recriminare. Pochi sanno, infatti, che il celebre Lemma di Poincaré sulle forme differenziali fu dimostrato in maniera completa da Volterra (Poincaré aveva dimostrato solo una delle due implicazioni). Lavoro completamente ignorato, forse perché scritto in italiano, forse perché il suo lavoro era dedicato alle forme armoniche e questo risultato era per lui solo, appunto, un lemma marginale.

D’altra parte il proprio nome è un modo molto debole di entrare nella storia della matematica. Se più di uno studente di Analisi I pensa che il Teorema di Bolzano debba il proprio nome a una località geografica, e non a un prete di Praga, son pronto a scommettere che ben pochi dei loro docenti si siano mai chiesti chi fosse quel Rolle che citano così spesso. Né abbiano idee molto chiare su cosa avesse effettivamente scritto. Io, di mio, ho insegnato per quindici anni il teorema di Rouché-Capelli prima di chiedermi chi fossero.

Così, Codazzi e Mainardi, i cui nomi potrebbero essere confusi per quelli dei parolieri di una canzone di Sanremo, trovano il loro posto in ogni libro che si rispetti di Geometria Differenziale senza che la gran parte dei nostri matematici abbia una vaga idea di chi siano stati e quali altri contributi abbiano portato.

Se, però, entrare nella storia della matematica è per voi un imperativo e avete alle spalle un solido capitale, potete sempre seguire l’esempio del marchese de L’Hopital. Egli, infatti, corrispose per anni a Johann Bernoulli uno stipendio di 300 franchi per istruirlo sul calcolo infinitesimale ed è estremamente probabile che il libro di calcolo infinitesimale che fu pubblicato a suo nome nel 1696, libro in cui compare per la prima volta la formula che così diligentemente i nostri studenti applicano a ogni limite indefinito, fosse più frutto dell’intelligenza di Bernoulli che di quella del suo nobile mecenate. Se oggi agli esami di Analisi invocazioni e imprecazioni si alternano nell’eternare il suo nome è grazie a quei 300 franchi al mese.

La strada per la gloria, si sa, non è mai lineare.

Nicola Ciccoli

In copertina: foto di William Thomson, meglio conosciuto come Lord Kelvin, che per primo dimostrò il teorema di Stokes, vedi qui.

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