Si avvia in questo periodo una nuova fase di regolamentazione dei percorsi di formazione degli insegnanti e della loro immissione in ruolo. Riportiamo il punto di vista di Maria Mellone, che sintentizza il contenuto di un suo intervento al convegno della SISFA (Società Italiana di Storia della Fisica e dell’Astronomia) in qualità di rappresentante dell’UMI nella SIF (Società Italiana Fisica).
Una delle questioni storicamente più delicate quando si parla di percorsi per l’avvio alla professione docente è il rapporto tra la formazione iniziale dei docenti e il reclutamento, l’immissione in ruolo. L’esperienza ci insegna, infatti, che se mancano docenti formati è inevitabile che la scuola subisca un flusso di reclutamento di personale non qualificato e non filtrato da una seria valutazione. D’altra parte un eccesso di abilitati senza prospettiva di stabilizzazione crea quei fenomeni, che tutti ben conosciamo, di precariato di personale idoneo alla professione, con una conseguente mortificazione delle persone, del loro percorso e della loro professionalità.
Con la nuova regolamentazione per l’accesso in ruolo, per la prima volta nella storia del nostro Paese vengono ufficialmente riuniti la formazione iniziale professionalizzante (non si parla più di abilitazione) e l’immissione in ruolo: con i cosiddetti percorsi FIT (Formazione Iniziale e Tirocinio) – quando partiranno – si avvierà un piano di formazione iniziale per coloro che vinceranno il concorso di accesso che si concluderà (salvo valutazioni intermedie e finali negative) nel reclutamento a tempo indeterminato. La speranza è da un lato che vengano attivati FIT per tutti i posti vacanti, dall’altro che – al netto del giusto spazio riservato per già abilitati e precari con più di 3 anni di servizio – non si debba attendere troppo per uno spazio significativo per i neo-laureati e che il Ministero rispetti l’impegno di bandire biennalmente nuovi concorsi. Speriamo possa essere fugato in tempi rapidi il timore che ci possano essere scelte pre-elettorali che prescindano dai numeri e dalla preparazione, con il conseguente blocco di assunzioni per anni.
Tornando al percorso previsto, i FIT si configurano come un nuovo spazio di possibile (e fondamentale) incontro tra le due istituzioni Università e Scuola: istituzioni che già avevano cominciato a collaborare nelle precedenti esperienze delle SISS e del TFA. Anche questa è un’opportunità preziosa di crescita da non perdere sia per le Università – che potranno (dovranno?) finalmente dare una maggiore e più generalizzata attenzione al mondo della scuola – che per le scuole: il flusso di tirocinanti, se accolti con il giusto spirito e con modalità adeguate, potranno rappresentare un’incredibile ricchezza per le scuole di accoglienza. Un rafforzarsi del rapporto – ancora troppo flebile – tra università e scuola sarebbe un risultato socialmente e culturalmente importantissimo; si potrebbero così anche creare nuovi scenari per la formazione in servizio, che è promossa e resa obbligatoria dalla “Buona Scuola”, ma che di fatto non è ancora decollata.
Infine un’accanita discussione, tra il filone delle discipline antro-psico-pedagogiche e quelle relative alle metodologie e tecnologie di didattica disciplinare, è nata sui famigerati 24 CFU da conseguire per concorre ai FIT. Con il D. M. 616 del 10 Agosto, questa questione è stata risolta, a nostro avviso nella maniera migliore, lasciando la possibilità che nei 24 CFU, fino a 12 CFU possano essere di metodologie e tecnologie di didattica disciplinari, là dove esistono. Anche all’interno dei FIT, declinati secondo le diverse classi di concorso, prevedono nei tre anni di formazione che per tutte le discipline siano offerte agli insegnanti in formazione riflessioni teoriche e laboratori sulle metodologie e tecnologie didattiche disciplinari. D’altra parte la formazione insegnanti non si improvvisa, così come non ci si improvvisa esperti di didattica. L’auspicio è che le università e le varie aree disciplinari finalmente capiscano l’importanza di dedicarsi davvero alla formazione insegnanti, di conseguenza riconoscendo la necessità e il valore della ricerca didattica: creando ad esempio delle scuole di dottorato impegnate nella formazione di giovani ricercatori di didattica disciplinare e investendo in questa direzione sia nei campi – come la matematica – nei quali c’è una lunga tradizione (spesso non valorizzata proprio dai matematici), sia in quelli in cui esistono solo esperienze estemporanee.
Maria Mellone