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Nell’intervista a Roberto Ricci che abbiamo pubblicato qualche tempo fa [qui], era emersa una discrepanza fra gli esiti delle prove INVALSI per materie STEM per bambine e ragazze, che le vedono ottenere risultati mediamente peggiori dei loro coetanei maschi, e le valutazioni scolastiche, che invece premiano il genere femminile. Il tema ci è sembrato meritevole di un approfondimento, Chiara de Fabritiis ne ha quindi parlato con Pietro Di Martino, presidente della CIIM (Commissione Italiana per l’Insegnamento della Matematica) dal 2018 al 2021 e ricercatore in didattica della matematica.

Partiamo da un argomento di attualità, cioè la tua lettera aperta ai ministri Bianchi e Messa (la trovate qui) che reazioni ci sono state?

La lettera-appello ha totalizzato moltissime visualizzazioni, segno che il tema, se discusso, interessa le persone e dunque che è importante che se ne dibatta, inoltre la petizione avviata su change.org in una sola settimana ha raccolto più di 1200 adesioni. Il dibattito è poi arrivato anche sulle pagine di quotidiani a diffusione nazionale come Corriere della Sera e Sole24Ore e questo è sicuramente un segnale importante. Un aspetto di questa natura, non solamente tecnico, dovrebbe interessare tutti, al di là dei possibili diversi punti di vista, perché la qualità della scuola è un bene comune e il tema della formazione iniziale degli insegnanti è cruciale per la qualità della scuola. L’onere delle decisioni spetta senza dubbio alla politica, ma su temi di questo genere non si può a mio avviso procedere e legiferare, come era sembrato da alcune indiscrezioni, senza aprire una discussione seria con la comunità educativa e scientifica, e in maniera poco trasparente.

Entrando nel merito, al di là del metodo (comunque importante), le indiscrezioni uscite su alcuni mezzi di comunicazione erano veramente molto preoccupanti, e lasciavano trasparire un’idea del valore della formazione iniziale e della complessità del mestiere di insegnante veramente avvilente (non mi vengono altri termini). La gran parte delle reazioni alla lettera è stata positiva, abbiamo radunato una massa critica di persone, con idee variegate, ma d’accordo sull’aspetto principale, che ci sia cioè necessità di una formazione specifica iniziale degli insegnanti, co-progettata fra scuola e università.

A mio parere è indispensabile, perché la formazione ad una professione così rilevante e delicata sia considerata tale, creare una comunità attraverso un percorso che fa incontrare gli aspiranti futuri docenti, li fa stare insieme e discutere in aula sul loro comune percorso, sul tirocinio, sulle problematiche didattiche osservate o immaginate.

Il principio di fondo è che la formazione dei futuri insegnanti è una cosa seria, e quindi non può essere ridotta ad un “fai da te”, nel quale si richiede la mera acquisizione individuale di crediti formativi universitari specificando magari i settori scientifico disciplinari. Se questa fosse l’idea dei Ministeri, io convintamente dico “meglio niente”, per evitare di far partire un futuro insegnante con questa idea di formazione, legata puramente ad aspetti formali e non di sostanza, e per evitare anche squallide derive non difficili da immaginare.

Ribadisco la mia convinzione che invece sia importante creare un percorso che includa insegnamenti teorico-didattici e insegnamenti disciplinari soprattutto nelle classi miste (come scienze e matematica per le scuole secondarie di primo grado) e che si concluda con un tirocinio in co-tutela fra scuola e università.

Cosa si può sperare in questo momento rispetto a questo tema?

La speranza è che i ministeri condividano la necessità di una riforma, che sarebbe questa sì epocale, che introduca un percorso serio di formazione iniziale post-laurea, e condividano il fatto che la formazione iniziale dei futuri insegnanti di scuola secondaria di primo e secondo grado non può essere considerata una “perdita di tempo”. Dopo quello che abbiamo passato in questi due anni dovrebbe essere ancora più chiaro a tutti quanto sia importante la scuola, quanto siano importanti gli insegnanti e quanto sia complesso insegnare.

Il messaggio più forte, e nel contempo forse il più duro da far passare, è che un percorso di formazione insegnanti serio richiede risorse. Al di là dei molti proclami che ciclicamente vengono fatti sull’importanza della scuola e dell’investimento nella e per la scuola, il timore è che proprio l’idea di investire davvero risorse per il futuro della scuola spaventi.

L’investimento su un vero percorso di formazione iniziale insegnanti co-progettato fra scuola e università permetterebbe anche di far emergere quelle sensibilità nella formazione insegnanti che già nelle esperienze passate (penso alle SISS) erano venute alla luce. Esperienze emerse in settori che, a differenza della matematica, non hanno una tradizione di ricerca nella didattica disciplinari. A mio avviso, per la qualità del percorso formativo, si considera poco questo “effetto di ritorno” sull’università, in termini di sollecitazione dell’attenzione per la didattica disciplinare e di avvio di sperimentazioni scuola-università.

Hai parlato del periodo complesso vissuto anche a livello educativo in questi due anni: come incide questo sulla discussione relativa alla formazione inziale degli insegnanti?

Il periodo vissuto dovrebbe aver dato maggior consapevolezza della complessità del mestiere dell’insegnante, e per muoversi nella complessità è fondamentale avere più strumenti di conoscenza possibili. A me, da matematico, fanno molto sorridere le generalizzazioni, a maggior ragione sugli insegnanti. Credo che gli insegnanti di scuola secondaria di primo e secondo grado in Italia siano circa 400.000: un mondo nel quale stanno persone tra loro molto differenti. Ci sarà l’insegnante che consideriamo bravo e quello che consideriamo meno bravo, ma per me è certo che lo stesso insegnante, formato, è un’insegnante con più strumenti e dunque, potenzialmente, migliore.

Devo confessare che, anche come ricercatore, mi sono sempre focalizzato sulle difficoltà (in matematica), più che sulle eccellenze e su questo fronte mi piace citare quella che Rosetta Zan chiama l’antinomia dell’insegnante: “Riesco ad insegnare qualcosa soltanto a quelli che imparerebbero anche da soli. E non riesco ad incidere su quelli che veramente avrebbero bisogno di me”. La mia convinzione è che la formazione possa e debba dare strumenti di conoscenza per poter incidere su “quelli che veramente avrebbero bisogno di noi”.

Forse anche perché ho figli in età adolescenziale, sento in maniera particolare questa questione della complessità e delicatezza della professione insegnante a livello di scuola secondaria. I ragazzi di oggi affrontano uno dei periodi più complessi della loro vita, quello appunto dell’adolescenza, in un momento tra i più drammatici e incerti del dopo guerra: la scuola per loro può essere fonte di riscatto, di speranza, di rinascita oppure il peso che li affonda definitivamente. In tutto questo, l’insegnante gioca un ruolo fondamentale e gli strumenti di cui ha bisogno solo molteplici e, lo dico da disciplinarista, non si limitano a quelli, fondamentali, disciplinari e didattico-disciplinari, ma includono gli ambiti pedagogici, psicologici e, in una scuola sempre più multiculturale, anche quelli antropologici. La “guerra santa” fra pedagogisti e disciplinaristi (con psicologi e antropologi non c’è perché non si considerano nemmeno ahimè questi ambiti quando si discute di formazione) a mio parere non ha ragion d’essere, ma purtroppo noto essere tornata in auge anche sui media nazionali. Frasi come “per insegnare serve solo sapere la disciplina” oppure “serve solo la pedagogia” sono il rovescio di una stessa medaglia, forgiata su un pensiero alla base del quale c’è un’idea di scuola e di insegnamento, a mio avviso, non proponibile.

Ma veniamo ad uno dei temi sui quali era nata l’idea di questa intervista: la valutazione

Il tema in realtà si lega molto alla questione delle difficoltà e della formazione insegnanti. La valutazione che si fa alle scuole secondarie di secondo grado, soprattutto all’inizio del percorso, è molto delicata. Io contesto una certa retorica che ha pervaso la discussione intorno al tema della valutazione scolastica in questi anni: quella del merito. Lo scopo della valutazione scolastica, soprattutto nella scuola di base e dell’obbligo, non è per me quello di gratificare chi fa bene con un numero che deve essere molto maggiore di quello dato a chi fa meno bene (anche questa idea di gratificazione comparativa è bizzarra, per essere eleganti). Non è nemmeno quello di classificare e selezionare o dire a chi fa male “non sai far niente”. Dovrebbe essere uno strumento per condividere con lo studente punti di forza e di debolezza, così come strategie per rafforzare i punti di debolezza.

Quando ad un ragazzo o una ragazza di 14-15 anni viene assegnato un 2 al primo compito di matematica, quale è il messaggio che viene mandato? “Vai a fare altro, ti ho inquadrato subito dopo due mesi: non c’è contatto fra te e questa disciplina, rassegnati perché sei negato”.

Una cosa che consiglio nei percorsi di formazione con gli insegnanti, e che provo a implementare anche all’interno dei miei corsi all’università, è quella di sforzarsi, nella valutazione di prove o attività importanti, di mettere in luce per ogni ragazzo una cosa fatta bene e una cosa su cui lavorare. In questo modo si danno spunti di riflessione per il miglioramento, sia a chi, in quel momento almeno, si è dimostrato più bravo, sia a quelli che hanno fatto male, a cui viene anche riconosciuto quello su cui si può contare.

La valutazione di una prestazione matematica viene spesso usata e vissuta come giudizio definitivo, e per di più spesso come giudizio sulla persona e non sulla sua prestazione. Questo aspetto ha dei risvolti emozionali molto forti, che con Rosetta Zan abbiamo studiato nelle nostre ricerche, e che sono fonte non solo di grosse difficoltà, ma anche di abbandoni definitivi del confronto con la disciplina. Abbandoni che permangono anche in età adulta, con la fuga da qualsiasi argomentazione di carattere scientifico (e vediamo tutti i giorni come questo possa diventare da problema individuale a problema sociale).

L’altro tema per cui questa intervista è nata è il rapporto di bambine e ragazze con la matematica…

È un tema molto interessante e ci sono diverse ricerche nel campo: segnalo in particolare la recente tesi di dottorato di Chiara Giberti, che analizza, attraverso strumenti anche qualitativi, gli item INVALSI in cui c’è una discrepanza maggiore tra risultati dei ragazzi e risultati delle ragazze, proponendo interpretazioni molto interessanti.

A proposito di INVALSI, per quanto riguarda la discrepanza fra i test INVALSI, che vedono le femmine avere risultati peggiori dei maschi e la valutazione scolastica, nella quale sembrano premiate maggiormente le ragazze, di cui hai discusso con Roberto Ricci, è evidente che è una discrepanza tra due valutazioni completamente differenti, ognuna delle quali ha un suo potere informativo.

Quello che io non condivido di molte analisi è la pretesa che un certo tipo di valutazione (dalle Olimpiadi, all’OCSE_PISA, passando per INVALSI) sia LA misura della capacità in matematica e che quindi discrepanze con quel tipo di misura siano segno di qualcosa che non va, di una minore “scientificità”. Nella mia ottica, la valutazione scolastica sviluppata in tempi lunghi ha le potenzialità per essere molto più accurata di una valutazione fatta su una prestazione singola (qualsiasi essa sia).

Se parliamo della valutazione INVALSI, ricordo che INVALSI ha come obiettivo lo sviluppo di una valutazione di sistema, non la valutazione individuale. Detto questo, da ricercatore credo che, se usata bene, una valutazione di questo tipo possa fornire spunti di riflessione interessanti per le scuole

Contesto però la questione della misura, che si lega all’idea di valutazione oggettiva. La valutazione oggettiva, a mio avviso, semplicemente non esiste e spesso si confonde la valutazione oggettiva, con la valutazione automatica…e sono due cose ben diverse.

Cosa c’è di oggettivo in tutte le scelte a monte: perché il tempo stabilito è quello? Perché si può / non si può usare la calcolatrice? Perché domande a risposta multipla? Perché una risposta giusta a una domanda vale tanto quanto quella di un’altra? Perché le risposte sbagliate valgono 0 (non sono né penalizzate, né differenziate, dunque considerando “gravi uguali” tutte le scelte alternative a quella giusta?

Con queste domande voglio solo dire che, anche a partire dallo stesso tipo di prova, le scelte a monte potrebbero essere diverse, influendo pesantemente sia sulla prestazione che sulla valutazione stessa. Valutazione che, alla luce di queste scelte soggettive fatte a priori, diventa automatica.

Ma quali sono a tuo parere alcune delle motivazioni del peggior rendimento delle ragazze nelle prove INVALSI?

Non ho una risposta in questo momento a questa domanda, si dovrebbero sviluppare studi specifici (come quello già citato di Chiara Giberti). Certo che il tipo di prova, le scelte a monte di cui parlavo prima, potrebbero essere scelte che mettono più in difficoltà determinate categorie di persone e può benissimo darsi che queste maggiori difficoltà siano legate anche a fattori socio-culturali.

Tra i fattori che secondo me incidono di più da questo punto di vista ci sono quello del tempo e quello della risposta multipla senza penalizzazione. Un altro aspetto interessante da osservare è che nelle prove INVALSI tipicamente non si deve giustificare la risposta (e comunque la giustificazione richiesta può essere solo breve): ecco, il giustificare in matematica è molto importante e può darsi che il ribaltamento delle valutazioni a livello scolastico tenga in considerazione anche questo fattore.

Sono ovviamente tutte ipotesi: l’unica certezza che queste ipotesi danno è che non ci può essere una lettura automatica del tipo peggiori risultati nelle prove INVALSI di una determinata categoria di persone – peggiore competenza matematica di quella categoria di persone. Al limite di può dire che quella categoria di persone ha più difficoltà nelle valutazioni di quel tipo.

Come possiamo sfruttare al meglio le informazioni che i risultati dell’INVALSI forniscono?

Sicuramente non assolutizzandole e non rimbalzando i titoli di giornale del tipo “Le ragazze non sono brave in matematica”: come detto questi titoli veicolano una lettura dei dati discutibile ad un grande pubblico e spesso hanno un forte potere di convincimento proprio perché il discorso poi non è approfondito, rimane sulla superficie e si giustifica con un dato di fatto (che un numero è maggiore di un altro…). In questo modo, entra in gioco quello che è noto come l’effetto Pigmalione: se tutto l’ambiente, tutti i feedback spingono in una direzione, in maniera naturale ci vai e quindi, ad esempio, la minor capacità matematica delle ragazze diventa una profezia autoavverante in ambienti classe dove c’è questa convinzione.

Mi ricordo la mia prima esperienza sul campo fatta in un liceo socio-pedagogico, all’interno di un progetto contro la dispersione scolastica. Una delle ragazze quindicenni coinvolte mi disse al primo incontro che con lei non c’era niente da fare e giustificò questa sua ferma convinzione con le seguenti parole: “in tutta la mia famiglia le donne sono sempre andate male in matematica: mia nonna, mia zia, mia mamma”. Si era sviluppata in lei la convinzione di non potercela fare su basi quasi genetiche, ereditarie di genere…convinzione, non è difficile immaginare, nata e consolidata sulla base di discussioni all’interno del proprio ambiente.

Gli stereotipi sulle scarse capacità matematiche delle ragazze sono numerosi…

Sì, ed è evidente che nascano su basi socio-culturali (direi come tutti gli stereotipi). Tempo fa vidi la pubblicità di una linea di prodotti, tra cui una custodia per cellulare. che aveva come logo un fumetto di una bambina bionda con la scritta agghiacciante “I’m too pretty to be good in math”.

A un convegno PME (il convegno internazionale più importante nel campo della didattica della matematica) è stato presentato uno studio in cui veniva richiesto a bambini e ragazzi di disegnare gli insegnanti di varie discipline. Ne emergeva come l’insegnante di matematica era rappresentato, rispetto agli insegnanti di altre discipline, come una persona non solo in partenza poco attraente, ma con poca cura di sé.

Poi è innegabile che la nostra società sia ancora fortemente maschilista in tantiaspetti, anche a ll’interno di scuole e università. Faccio un esempio che mi ha sempre colpito molto lavorando tanto con le scuole primarie. La scuola primaria, per motivi a mio avviso prettamente socio-culturali, è un contesto prettamente femminile per quanto riguarda il corpo docente (per non parlare di nidi e scuole dell’infanzia). Questo a mio avviso è anche una debolezza della scuola primaria, ma al di là di questo, se ci fai caso, i “grandi insegnanti” della scuola primaria, quelli intervistati sui giornali, sono uomini. E ti assicuro che di grandi insegnanti donne ne conosco moltissime.

La cultura non sembra aiutare a contenere il fenomeno, il che è preoccupante e dispiace, perché in molti casi manca addirittura la consapevolezza stessa del problema. E finché manca la (meta)consapevolezza è difficile cambiare le idee, in quanto le persone sono convinte che i loro pregiudizi derivino da realtà oggettive.

È in fondo una sconfitta nostra, di tutti quelli che sono coinvolti nei percorsi formativi, dalle scuole dell’infanzia all’università: un certo tipo di percorso formativo e di cultura su queste cose non ha ancora inciso – si potrebbe parlare molto del maschilismo all’interno dell’Università credo – il che è abbastanza triste.

Per chiudere il cerchio, credo che anche su queste tematiche una buona formazione per i docenti, a tutti i livelli appunto, potrebbe aiutare a fare passi avanti.

Intervista a cura di Chiara de Fabritiis

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