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Gli scienziati hanno scoperto una nuova “formula” che calcolerebbe il livello di disagio del personale. Rischio “Grande Fratello”. Per ora non sarà commercializzata.

E’ una situazione classica della vita aziendale: un’impresa ha successo, cresce, moltiplica il suo personale, e nella marea di impiegati e dirigenti aumenta poco alla volta anche l’insoddisfazione, la sensazione di non avere sbocchi di carriera, la delusione di sentirsi poco utilizzati, incompresi, messi da parte. Così, chi può, ovvero chi pensa di avere un mercato, si licenzia e va a lavorare da un’altra parte, spesso privando l’azienda che ha lasciato di un prezioso talento inutilmente coltivato e addestrato per anni.
Ma adesso tutto questo si potrà evitare, grazie a una formula matematica messa a punto dagli scienziati di Google: ribattezzato “l’algoritmo dello scontento”, è un calcolo che, incrociando un gran numero di dati personali, permette a un’azienda di individuare i dipendenti insoddisfatti che pensano di licenziarsi.
Anzi, secondo i suoi inventori l’algoritmo è in grado di individuare lo scontento ancor prima che questo si materializzi con chiarezza nella mente del dipendente, cioè prima che il manager o l’ingegnere se ne renda conto. Prima che le aziende di mezzo mondo si attacchino al telefono, o meglio a internet, per ordinare un simile programma, in grado di rivoluzionare la gestione delle cosiddette “risorse umane”, c’è da segnalare un piccolo, forse temporaneo problema: inventato dalla Google, l’algoritmo per il momento resta segreto, e la società del più potente motore di ricerca del web non manifesta, per ora, l’intenzione di condividerlo con altre imprese, ossia di commercializzarlo.
Tuttavia il fatto che Google abbia annunciato alla stampa la sua scoperta lascia intravedere la possibilità di un uso commerciale del nuovo prodotto, almeno in futuro. Una delle ragioni della segretezza potrebbe essere che, come nota il Wall Street Journal Europe, la formula matematica “dello scontento” viene ancora sottoposta a test, insomma potrebbe avere bisogno di aggiustamenti e revisioni, prima di essere messa in vendita e offerta a tutti (compresa la concorrenza). Le informazioni che vengono incrociate e confrontate nell’algoritmo riguardano il salario, le promozioni, le mansioni, le risposte a sondaggi interni, i rapporto di superiori e altri colleghi, e altri dati che l’azienda non rivela.
La decisione di sviluppare un simile programma non è casuale. Google, nata nel proverbiale garage, ha oggi 22 mila dipendenti sparsi per il mondo, e recentemente ha perduto un certo numero di dirigenti di primo piano, passati ad altre società del settore, come Facebook, Twitter e Aol, appunto perché insoddisfatti. Il Journal cita il caso di Tim Armstrong e David Rosenblatt, nel reparto pubblicità, e di Doug Bowman, Steve Horowitz e Santos Jayaram in quello della ricerca e dello sviluppo. “Il nostro algoritmo ci consente di entrare nella testa dei dipendenti ancora prima che essi sappiano di volersene andare”, dichiara Laszlo Bock, direttore delle risorse umane di Google, al quotidiano di Wall Street, un’affermazione che a qualcuno potrebbe ricordare le intrusioni del Grande Fratello orwelliano nella privacy dei cittadini e suscitare preoccupazione nelle associazioni per la difesa dei diritti civili.
Un altro motivo della segretezza sull’algoritmo è che non solo Google sta facendo ricerche in questo campo: “Molte aziende hanno compreso che c’è molto da fare per una migliore analisi del proprio capitale umano”, afferma Edward Lawler, direttore del Center for Effective Organizations alla University of Southern California. Lo scopo ultimo è, evidentemente, quello di parlare con i dipendenti scontenti, intervenire prima che decidano di andarsene e utilizzare al meglio le risorse che un’azienda ha contribuito a far crescere. Ancora una volta, dunque, Google indica a tutti la via del futuro: in tempi in cui si pensa che i computer possano fare tutto e che l’uomo sia un bene spendibile di cui si può fare quasi a meno, il motore di ricerca che ha rivoluzionato il modo in cui viviamo ci ricorda che anche gli esseri umani sono una risorsa preziosa e che conviene alle imprese utilizzarli con saggezza.

 

Fonte: Repubblica.it

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