Silvia De Toffoli ha attualmente una posizione postdoc presso l’Università di Princeton dove studia filosofia della matematica. È stata intervistata da Roberto Natalini.
Roberto Natalini: Ciao Silvia intanto grazie di aver accettato di farti intervistare da MaddMaths! Tu sei un po’ una matematica e un po’ una filosofa. Come hai cominciato? Da matematica o da filosofa?
Silvia De Toffoli: Ho cominciato da matematica, però in realtà fin dal liceo mi sono appassionata sia di matematica che di filosofia e infatti quando mi sono iscritta all’università non sapevo a quale delle due iscrivermi. Addirittura mi sono iscritta in ritardo e ho dovuto pagare una multa perché ho esitato fino all’ultimo momento. Poi però mi sono detta, inizio con matematica, che magari è più difficile rompere il ghiaccio, e poi magari continuerò con filosofia ed è quello che è successo poi.
R.: E dove ti sei laureata?
S.: Mi sono laureata in matematica a Bologna, facendo un anno di laurea specialistica a Parigi, dove mi sono appassionata delle questioni di topologia a bassa dimensione per cui ho un po’ posposto il mio progetto di fare filosofia. Mi sono talmente appassionata a questi problemi che alla fine della specialistica a Bologna ho deciso di iniziare un dottorato in matematica, in teoria dei nodi, a Berlino. Quindi fino a quel momento la filosofia è sempre rimasta un po’ come un hobby. È solo durante il dottorato a Berlino che mi sono interessata a questioni più specifiche di filosofia della matematica che sono state poi il punto di partenza per il mio percorso successivo.
R.: Dove hai iniziato facendo un dottorato.
S.: Sì, mi sono iscritta a un dottorato a Stanford, negli Stati Uniti, ma bisogna dire che i dottorati in Europa e negli Stati Uniti sono molto diversi. Infatti mi sono iscritta negli Stati Uniti appunto perché nel dottorato sono integrati due anni di master, però pagati. E quindi insomma è stata una buonissima occasione per me perché mi ha dato anche la possibilità di studiare varie branche della filosofia analitica e non solo filosofia della matematica. Anche se poi chiaramente la mia ricerca, la mia tesi, è stata focalizzata su questioni che riguardano la matematica.
R.: Quindi: laurea in matematica a Bologna, con tappa in Francia, dottorato a Berlino e secondo dottorato in filosofia a Stanford. Direi un bel percorso in luoghi molti diversi. Chi sono le figure che ti hanno influenzato di più per arrivare alla tua visione attuale della matematica e della filosofia?
S.: Ho avuto influenze molto diverse. È stato importante studiare Henri Poincaré. È stato un matematico geniale, il padre della topologia moderna, che lui chiamava Analysis Situs. All’inizio mi sono proprio appassionata alle questioni matematiche che venivano fuori dalla sua opera. Però lui ha scritto anche delle opere di filosofia della scienza, sulla natura della matematica, sulle geometrie non euclidee, e quindi leggere Poincaré è stato un momento importante per me per capire appunto come matematica e filosofia potevano unirsi. Insomma una persona che un po’ incarna i due mondi. Un’altra persona che mi ha molto influenzato è stato invece Enriques, un matematico importante che però ha scritto anche trattati di filosofia sulla geometria.
R.: E invece tra gli insegnanti che hai avuto, quali sono stati quelli decisivi per scegliere il tuo percorso?
S.: Uno di loro l’ho incontrato a Parigi, si chiama Patrick Popescu-Pampu, insegna a Lille, è un professore in topologia, e devo a lui se mi sono dedicata a un dottorato di matematica. Perché io ero lì pronta per iniziare la laurea di filosofia, e invece mi ha “incastrata” con delle questioni di matematica molto visuali. Come nei lavori di William Thursthon, si tratta di questioni di geometria a bassa dimensioni in cui è importante immaginare cosa vorrebbe dire a vivere in spazi totalmente diversi dal nostro spazio tridimensionale. Insomma mi ha fatto vedere la matematica attraverso delle vere e proprie visioni, aiutandomi a sviluppare l’intuizione e la visualizzazione. E questi è stato poi il punto di partenza di certe riflessioni filosofiche che ho fatto in seguito.
R.: Però, leggendo il tuo curriculum, ho visto che hai scritto un libro con tuo padre. Quindi forse anche in famiglia hai avuto qualche influenza. Perché ho visto che tuo padre è un esperto di giochi.
S.: Sì, mio padre ha una piccola azienda che si chiama “Studio giochi” a Venezia, dove produce giochi da tavolo, li inventano, organizzano eventi e si occupano anche di enigmistica di vario tipo. Mio padre è un giocatore abbastanza eclettico. Non è uno scacchista o un giocatore di poker. Cioè pratica anche questi giochi, ma gli piace dedicarsi a tanti giochi da tavolo diversi e anche ha scritto molto, sia libri che articoli come giornalista. E anche adesso sta scrivendo un altro libro sul calcolo mentale, di cui è appassionato, tanto da partecipare a dei tornei che ha organizzato per gli studenti di liceo. E così abbiamo deciso di scrivere insieme questo libro chiamato “Numeri“. Lui voleva scrivere più delle tecniche euristiche di calcolo mentale e una sezione di enigmistica e giochi con i numeri. Però volevamo mettere una parte anche più matematico-filosofica in cui abbiamo messo qualche curiosità su cosa sono i numeri, che tipi di numeri ci sono etc… Non per matematici, ma più un libro di divulgazione con varie curiosità.
R.: Qual è secondo te il rapporto tra gioco e matematica?
S.: È un rapporto importantissimo. Ovviamente dipende, ci sono diversi tipi di giochi. Nel poker per esempio c’è tantissima probabilità e calcoli matematici su come bisogna valutare certe situazioni, e quindi senza una comprensione della matematica che c’è dietro non si può pensare di riuscire a essere dei bravi giocatori. Poi chiaramente spesso non basta la matematica, ci vogliono anche altre doti. Nel backgammon che è un gioco che a me piace moltissimo, tanti dicono che è un gioco di fortuna perché ci sono i dadi, ma non è vero niente. Cioè è ovvio che c’è una parte aleatoria, però poi ci sono delle scelte basate sulla matematica e quindi, alla lunga, non è un gioco di fortuna.
R.: Va bene. Quindi tu ti sei distaccata della matematica attiva e hai deciso che volevi studiare proprio la filosofia della matematica. Come mai hai preferito riflettere sulla matematica piuttosto che farla?
S.: Non è facile rispondere a questa domanda. Posso provare a parlare di un aspetto, o meglio di un’ipotesi, perché è chiaro che poi ogni scelta dipende da tanti fattori. Come dicevo, una delle ragioni per cui ho fatto un dottorato in matematica è perché mi sono appassionata a questo tipo di matematica molto visuale, come la topologia a basse dimensioni o la teoria dei nodi. E studiando questo tipo di argomenti si incontravano spesso dimostrazioni che invocavano l’uso di visualizzazioni e molti diagrammi matematici. E allora è stato naturale per me riflettere sulla natura della matematica, che cosa sia, che cos’è una dimostrazione e così via. E mi è sembrato che ci fosse una specie di distacco tra ciò che i filosofi e logici chiamavano una dimostrazione e quello che si faceva nel mio dipartimento di matematica. E questo distacco mi è sembrato molto interessante. E lo è diventato ancora di più parlando con i filosofi che ne davano una descrizione diversa, come se loro sapessero meglio dei matematici che cos’è la matematica. E questo mi ha motivata molto nel cercare di portare la mia esperienza di matematica praticante, che si è sporcata le mani con la matematica, in questo ambito di filosofi che idealizzavano la matematica e la trattavano in una maniera abbastanza asettica. Ho pensato di portare l’esperienza umana da matematica nella filosofia. Come ti dicevo avrei sempre voluto unire queste mie due passioni e appunto dopo il dottorato mi è sembrato un momento adeguato. Avevo anche un po’ l’impressione di stare lavorando su questioni molto tecniche, mentre avevo voglia di fare riflessioni a livello più ampio.
R.: Certo, effettivamente, tranne casi come Poincaré o Russell, di solito della filosofia della matematica se ne occupano i filosofi, che magari avranno anche studiato matematica, ma credo che raramente si siano cimentati a dimostrare nuovi teoremi. Va bene, forse questo è proprio un mio pregiudizio…
S.: Guarda, all’inizio del Novecento magari era un po’ diverso perché, con la crisi dei fondamenti, le discussioni sulla matematica erano fatte da matematici come David Hilbert o Hermann Weyl. Quello era un periodo in cui i filosofi e i matematici erano le stesse persone. Oggi non è più così, e nella grande maggioranza dei casi i filosofi della matematica sono filosofi e spesso logici. Infatti la logica è sempre stata una disciplina a metà che non si sa mai dove sia di casa. Insomma, tanti filosofi della matematica sono logici di formazione e quindi hanno delle competenze tecniche, ma molto diverse rispetto a quelle che ha una persona che faccia analisi matematica o geometria. E questo secondo me porta a una distorsione nella percezione di che cos’è la matematica. O alternativamente ci sono invece filosofi della matematica, che magari si occupano di questioni di ontologia metafisica, a cui basta sapere che due più due fa quattro per chiedersi che cosa sono i numeri. Ossia domande ultra generali che banalizzano la riflessione sul fare matematica.
R.: Allora, l’impressione da matematico è che la matematica moderna di alto livello tecnico sfugga un po’ a questo tipo di analisi, basata su cose elementari. Spesso gli articolo di matematica diventano molto sintetici perché in tantissimi punti si fanno dei salti, quando qualcosa da dimostrare sembra chiaramente uguale a qualcosa di leggermente diverso che si è già dimostrato. Altrimenti, scrivendo in dettaglio tutti i passaggi, gli articoli diventerebbero di milioni di pagine. Ecco, quali sono le tue riflessioni su questa parte che chiamerei “umana” di presentazione e verifica delle dimostrazioni?
S.: Effettivamente in questo momento c’è un gran dibattito sul problema della distanza tra le dimostrazioni formali e quelle informali. Le dimostrazioni che usiamo tra matematici hanno dei salti. È impossibile, anche solo per un problema di tempo, scrivere tutti i passaggi di una dimostrazione in modo che ogni passo sia evidente. Però questo comporta la possibilità di introdurre errori e questa potenziale fallibilità dei matematici viene ovviata dal fatto che comunque c’è una comunità di matematici che lavora sugli stessi problemi e permette di implementare un processo di monitoraggio interno alla comunità stessa. E questo è un aspetto sociale della matematica che secondo me è stato abbastanza ignorato dai filosofi. Perché si ha un’idea della matematica in cui c’è il genio isolato che fa un teorema per conto suo. E invece no, la matematica è un’attività intrinsecamente sociale e serve una comunità per ovviare alla nostra fallibilità individuale. E in questo contesto credo sia anche interessante chiedersi dove stiamo andando in matematica pura. Perché i risultati nella matematica contemporanea sono tipicamente molto tecnici e pochissimi i membri della comunità matematica possono controllarli e capire se sono corretti. Questo porta a vari problemi. Se pensiamo per esempio al caso di Vladimir Voevodsky, che era un importante matematico qui a Princeton, presso l’Istitute of Advanced Studies. Ha ricevuto per i suoi studi la medaglia Fields, e dopo dieci anni salta fuori che invece c’erano dei problemi nelle sue dimostrazioni. E lui stesso si è “scandalizzato”, perché si diceva che tante altre persone hanno usato, o insegnato usando quelle tecniche e nessuno aveva trovato errori. È stato lui stesso infatti a scoprire di essersi sbagliato, dopo che un altro matematico aveva pubblicato un contro-esempio. E qui ci sono delle questioni importanti che emergono. Come facciamo a fidarci di un matematico che afferma di aver dimostrato qualcosa? Non basta il fatto che magari è una persona molto famosa, per cui ci fidiamo del suo teorema. Comunque il caso di Voevodsky è particolarmente interessante perché lui stesso si è reso conto che è un problema fidarsi di risultati così sofisticati soprattutto in certe aree della matematica. Allora lui si è è lanciato in un nuovo progetto che consiste nel costruire dei sistemi formali automatizzati per creare, a fianco delle nostre dimostrazioni tradizionali, anche delle dimostrazioni formali che possono essere controllate in maniera automatica da alcuni software, in modo che questo processo rispecchiasse quanto possibile la pratica del matematico. Ossia rimanendo a un alto livello senza dover tornare ogni volta alla teoria degli insiemi, che sarebbe impossibile, ma cercando un sistema di fondamenti alternativo. Questo era il suo sogno prima della sua prematura scomparsa nel 2017. E adesso queste idee sono studiate nella comunità che si occupa degli “Interactive proof assistants”, come si chiamano, che sta crescendo anche tra i matematici, rimanendo però ancora molto limitata. Questo perché la tecnologia che abbiamo a nostra disposizione è ancora molto rudimentale. È difficile per un matematico tradizionale formalizzare una dimostrazione, ci vuole ancora tanto lavoro. Però l’idea è di cercare di creare librerie e nuove tecnologie per rendere sempre più facile questa transizione.
R.: Quindi se capisco non si tratta di fare dimostrazioni automatiche partendo dagli assiomi, ma limitarsi a fare il controllo automatico rigoroso di ciò che ha scritto il matematico. Questo però mi sembra che imponga di scrivere le dimostrazioni in un certo linguaggio per farlo capire al proof assistant.
S.: Sì, questa è l’idea. Molti pensano che in futuro, accanto alla dimostrazione tradizionale, che è indirizzata ad altri matematici con un certo tipo di formazione e percorso di studi, ci sarà una dimostrazione formale che potrà essere verificata in maniera automatica.
R.: Reuben Hersh ha scritto che “Una dimostrazione matematica in pratica è quello che facciamo perché gli altri credano nel nostro teorema. È un argomento che convice un esperto scettico e sufficientemente qualificato.” Sei d’accordo con questa affermazione?
S.: Insomma, è un po’ vaga, ma secondo me c’è un fondo di verità in questa idea. Infatti una cosa che non viene sottolineata abbastanza è proprio il fatto che le dimostrazioni vengono scritte e indirizzate a un pubblico specifico. In una dimostrazione ci sono sempre dei salti, ma quali salti sono accettabili e quali no, dipende dal contesto. E non solo dal livello di preparazione della persona che cerca di capirla, uno studente o un esperto, ma anche e soprattutto in relazione a diverse aree della matematica. Ossia, quello che viene accettato magari in teoria dei nodi, come un ragionamento visuale o dei diagrammi, non viene accettato in altre aree più astratte della matematica. Allora, la vera sfida diventa quella di capire come questi vari criteri locali possano poi essere uniti e diventare coerenti in un sistema di verifica di affidabilità generale. Però se sono d’accordo che c’è la questione del contesto, non penso che la correttezza di una dimostrazione matematica possa essere ridotta solo a questioni sociali.
R.: Rimane però il fatto che accettare o meno una dimostrazione come giusta è un fatto culturale e storico. I lavori di Eulero e Cauchy non passerebbero oggi al vaglio di un matematico moderno e spesso, rileggendole, i loro successori hanno trovato degli errori.
S.: Assolutamente, infatti è importante che ci siano varie comunità che controllano i risultati matematici e c’è comunque un cambiamento nel tempo negli standard del rigore in matematica.
R.: E c’è anche il problema di come cambia a seconda dell’ambiente il modo con cui ci si orienta nei problemi. Come si stabilisce e cosa vuol dire che un problema è matematicamente interessante?
S.: Dipende sicuramente dal contesto in cui uno si trova e a volte e ci sono anche fattori contingenti. Magari a volte è un matematico particolarmente famoso che inizia un nuovo programma di ricerca, ma insomma è un problema difficile. In filosofia della matematica c’è appunto questa nuova corrente, che si è sviluppata negli ultimi venti anni, che si chiama filosofia pratica della matematica. In questa corrente vengono studiate delle questioni che erano state precedentemente ignorate. Quindi per esempio, cosa vuol dire avere una dimostrazione o un problema interessante, o valutare magari delle teorie o delle dimostrazioni non solo in termini di corretto/non corretto, ma rispetto ad altri tipi di valutazione anche di tipo, per esempio estetico? Questo tipo di problemi sono affrontati da persone che comunque devono anche avere un background di matematica, altrimenti diventa difficile trovare una risposta a domande del genere.
R.: E poi spesso le motivazioni di un matematico sono di carattere extra-matematico…
S: Infatti. Per esempio la teoria dei nodi in realtà è nata per esigenze extra-matematiche, perché Lord Kelvin aveva una teoria degli atomi come vortici annodati e aveva creato una specie di tavola periodica con i vari tipi di nodi che corrispondevano a diversi elementi. Invece poi è saltato fuori che, ovviamente, questa teoria non funzionava per niente e per un po’ la matematica dei nodi è stata abbandonata. Però poi si è ricominciata a studiare perché i nodi hanno un ruolo anche sulla tipologia delle varietà dimensione 3, e salta fuori un’altra applicazione al di fuori dalla matematica, perché il dna, per esempio dei batteri, è annodato ed è utile capire che tipo di nodi si formano. Però ritornando al problema di cosa sia interessante, un criterio utile per esempio è quanto alcuni concetti possano poi essere fruttuosi in varie branche della matematica, che connessioni si possanto stabilire tra varie discipline, come algebra o geometria, per esempio. E poi ci sono questioni puramente contingenti, come che cosa è pubblicabile, magari c’è una moda del momento e un matematico famoso dice che vuole studiare certe cose. Insomma, è una somma di vari effetti diversi.
R.: E per te, cosa è interessante in questo momento? Cosa stai studiando?
S.: Io sto continuando il progetto che ho iniziato già durante il mio dottorato di matematica. Sto cercando di capire qual è il ruolo epistemologico dei diagrammi e della visualizzazione in matematica. Non solo a livello euristico. Certo tutti sappiamo che è utile usare dei disegni o delle immagini per aiutarci a scoprire un teorema. Però, mi chiedo, possiamo usare questi diagrammi anche all’interno di una dimostrazione rigorosa? E se sì, quali sono le condizioni per cui possiamo farlo? E cosa sono veramente i diagrammi e qual è il loro ruolo, ma anche in generale di altre notazioni in matematica, rispetto al pensiero matematico? Una cosa che a mio parere è stata ignorata dai filosofi è l’uso delle notazioni. Come tutti i matematici sanno, le notazioni specifiche sono importantissime per come ragioniamo. Pensiamo per esempio di scrivere delle equazioni algebriche come si faceva fino al cinquecento, ossia senza la nostra notazione algebrica standard. Diventa difficile anche solo esprimere certi problemi più complicati. Quindi le notazioni non sono un qualcosa di superficiale e contingente, ma sono delle realtà complesse che influiscono moltissimo proprio sul contenuto matematico e anche su che cosa uno può fare con queste notazioni. Pensiamo anche a una cosa semplice come un’equazione algebrica come quelle che vediamo alla scuola superiore. L’idea di portare una variabile dall’altra parte dell’uguale cambiando il segno ci permette di effettuare delle manipolazioni che hanno un significato matematico. E questo appunto succede anche con i diagrammi, e mi piacerebbe capire l’apporto di queste notazioni al ragionamento matematico.
R.: E che risultati hai ottenuto per adesso in questa ricerca?
S: Be’, i risultati in filosofia non sono paragonabili a quelli che si ottengono in matematica (ride), insomma, non ho dimostrato un teorema filosofico. Però spero di aver fatto maggiore chiarezza su cosa sono i diagrammi, anche portando esempi che magari prima erano stati ignorati, perché la ricerca si era focalizzata sui diagrammi di Euclide, perché tutti li conoscono e sono stati ben studiati. Però ci sono tanti altri tipi di diagrammi che erano stati completamente ignorati, come appunto quelli in teoria dei nodi, ma anche e soprattutto dei diagrammi algebrici come quelli commutativi, che sono molto simili a notazioni algebriche. E in relazione a questi problemi ho cercato di creare un framework più generale di epistemologia che ci permettesse appunto di parlare di queste cose e a stabilire il valore di questo tipo di pratiche. In questo modo ho cercato di inserirmi all’interno del panorama dell’epistemologia analitica contemporanea americana creando un quadro di riferimento che potesse aiutarci a parlare di matematica.
R.: Quindi in pratica hai cercato di indagare i retroscena della famosa frase di Poincaré che diceva che la geometria è l’arte di ragionare bene con disegni fatti male.
S.: Infatti! Per me questa frase è stata importantissima e la dico sempre ai miei studenti. Un diagramma non deve essere disegnato perfettamente, ma deve funzionare con certe regole e questo è un punto chiave, ragionare bene con figure imperfette.
R.: Quale pensi possa essere in futuro l’influenza sulla comunità matematica di queste tue ricerche?
S.: È difficile a dirsi. Finora tanti discorsi di filosofia della matematica sono stati, anche forse giustamente, ignorati dai matematici. Per cui non è ovvio che questa nuova corrente di filosofia pratica della matematica possa davvero portare a dei risultati interessanti al di fuori del suo ambito. Per me sarebbe già un risultato se portasse a fare delle riflessioni sulla pratica che possono essere usate realmente da matematici. In particolare credo che possa essere il caso per queste ricerche sulla visualizzazione e sui criteri per utilizzare delle rappresentazioni in maniera rigorosa, che possono rendere delle pratiche, che magari sono già in vigore, più esplicitamente accettate. In fondo già Euclide usava i diagrammi in maniera rigorosa, e infatti tutti i suoi risultati sono giusti. Magari poi dal punto di vista del rigore moderno c’erano dei problemi, però alla fine questo approccio funzionava. Ed è interessante capire perché funzionava, quali sono i criteri non detti, che però venivano seguiti, e facevano funzionare le cose. E questo si può fare anche con la matematica attuale. Inoltre direi anche che delle riflessioni filosofiche sulla matematica possono anche permettere di ragionare meglio nel caso di dispute in campo matematico. Per esempio, recentemente si è parlato molto della famosa congettura ABC (N.d.R.: su MaddMaths! ne abbiamo parlato qui). Il matematico giapponese Mochizuki dice di averla dimostrata, mentre altri matematici, ugualmente qualificati, ritengono di no e Peter Scholze e Jacob Stix hanno identificato un problema particolare etc…. Ed è interessante ragionare su cosa ci porta veramente a credere che un teorema sia stato dimostrato o meno e anche a mettere in luce che la letteratura in matematica è piena di buchi, ossia ci sono tanti risultati che vengono ritenuti veri, ma non sono mai stati veramente dimostrati. Magari qualche matematico famoso ha dichiarato che una certa cosa funzionava sicuramente, ed è difficile per un giovane matematico provare a dimostrarli veramente, perché ormai vengono considerati come acquisiti. Insomma, ci sono questioni di autorità epistemica di cui non si parla spesso come forse si dovrebbe. E questo ci potrebbe aiutare a stabilire la necessità o meno di usare metodi automatizzati di formalizzazione e alla fine capire quanto la nostra idea della matematica come una struttura perfetta sia diversa da come realmente è la matematica.
R.: E hai anche analizzato personalmente delle occorrenze storiche concrete in cui si questo tipo di situazioni si sono create?
S.: Chiaramente sono più una studiosa di filosofia, ma sono in contatto con tanti storici della matematica e ci sono dibattiti molto importanti su questo tipo di problemi. Per esempio, per parlare di questioni italiane, la scuola italiana di geometria algebrica ha avuto tantissimi problemi a livello di rigore delle tecniche utilizzate. Infatti tanti risultati di Enriques funzionavano, però se uno va a guardare in dettaglio le dimostrazioni, ci si chiede se siano o no rigorose. Per non parlare di Severi per cui si pongono tante questioni di autorità epistemica che vanno a complicare la situazione. Su queste tematiche sto lavorando, in collaborazione con matematici e storici, per provare a scrivere qualcosa di taglio sia storico che filosofico.
R.: Come ultima domanda, questa filosofia pratica può avere influenza per cambiare il modo di insegnare la matematica?
S.: Sicuramente. Penso sia importante far vedere nell’insegnamento che la matematica non è una disciplina asettica e perfetta, mostrando l’umanità dentro la matematica. Questo potrebbe renderla anche più affascinante e più facile da imparare per dei ragazzi che magari invece hanno un timore reverenziale verso questa materia. E penso anche sia utile mostrare aree diverse della matematica e non sempre questi percorsi standard e noiosi. Ho sempre pensato, ma perché non fare un po di topologia nei licei artistici o geometria proiettiva? Si potrebbero fare magari non in maniera ultra rigorosa, ma sufficiente a dare un’idea di come la matematica abbia un’importanza veramente cruciale nella nostra vita per tantissimi motivi diversi. Per cui mostrare l’umanità e anche il caos bellissimo che c’è dentro la matematica, la sua creatività, potrebbe essere importante proprio per l’immagine della matematica nella società.
R.: Grazie Silvia, sono veramente spunti molto interessanti. Ci sono veramente tante cose su cui riflettere.
Intervista a cura di Roberto Natalini
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