Un modello matematico che dimostra che per una società non sempre avere molti creativi è un bene (anzi). Per avere un risultato culturalmente ottimale per la società, dovrebbe essere scoraggiata la creatività quando un creativo ‘fa fiasco’ e incoraggiata quella dei creativi di successo
Woody Allen, in diverse occasioni, ha paventato i rischi di una società in cui tutti sono attori e gli spettatori si sono estinti. Ora arriva uno studio che attesta scientificamente che la presenza di un alto numero di persone creative non è automaticamente un bene per la società. Anzi, anche per la creatività varrebbe la regola che il troppo stroppia, ed essa porterebbe benefici solo se presa in piccole dosi.
È questo infatti quello che emerge dalle simulazioni presentate in uno studio recentemente pubblicato nei Proceedings of the 36th Annual Meeting of the Cognitive Science Society, incontro svoltosi alla fine di luglio a Quebec City, e firmato da Liane Gabora della University of British Columbia. La Gabora è una giovane scienziata canadese che si occupa dai tempi del suo dottorato del tema della creatività sotto una luce matematica e guardando a questo soggetto attraverso il filtro dei modelli computazionali, della statistica e della teoria dei giochi (oltre che delle scienze comportamentali).
Lei e il suo giovane collaboratore Simon Tseng, del Dipartimento di Ingegneria, hanno messo a punto un modello matematico che tenta di riprodurre il destino di una società i cui membri possono avere alternativamente un comportamento “creativo” o “imitativo“. In questo modello vengono introdotte infatti due figure: i ‘creatori’ e gli ‘imitatori’. Gli imitatori possono solo imitare, mentre i creatori possono compiere azioni di tipo nuovo. Passo dopo passo, la probabilità di essere imitatori o creatori è variabile, ossia la proporzione di creatori innovatori e di imitatori fluttua stocasticamente a ogni ciclo di simulazione.
“Si tratta di un modello molto semplificato della realtà, ovviamente, – spiega Roberto Natalini, matematico e direttore dell’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del Cnr di Roma, e studioso di modelli evoluzionistici – in cui sono presenti due tipologie di ‘agenti’, i ‘creatori’ e gli ‘imitatori’, che che vengono identificati con ognuna delle 1024 caselle di una griglia toroidale, e che sono ‘liberi’ di scegliere volta per volta un’azione da compiere. Se l’azione sarà un’imitazione degli agenti delle altre caselle o un movimento del tutto nuovo, quindi un atto creativo, dipende da una certa misura di probabilità”.
E a proposito di questa probabilità, che influenza il comportamento degli ‘agenti’, Gabora e Tseng distinguono due scenari. Il primo è quello in cui, in questo mondo artificiale stilizzato da una ‘tabella’, ognuno degli agenti, a ogni ciclo della simulazione, ha una probabilità esattamente del 50 per cento di compiere un gesto creativo e del 50 per cento di imitare quelli che gli stanno intorno. “In questo primo scenario – continua Natalini – ogni agente compie un’azione, di tipo imitativo o creativo, e questo può fargli guadagnare più o meno punti, o ‘fitness’ come si dice tecnicamente, e nel ciclo successivo non si tiene conto del successo o meno dell’azione precedente, ma si ha ancora una probabilità uguale, 50-50, di essere imitatori o creatori. Questo è uno scenario in cui la società, nel suo complesso, soffre della presenza di così tanti creativi”. Tradotto in termini umani, questo scenario corrisponde ai casi in cui numerosi membri della società si mettono a creare e, anche se non hanno successo, se ne infischiano e insistono a creare. Essere scarsi creativi risulta alla fine dannoso e non solo perché ci si ritrova con una serie di invenzioni inutili tra i piedi, ma anche perché lo scarso creativo avrebbe potuto dedicarsi, magari, all’imitazione accurata dell’opera di un bravo creativo, e si sa bene che per evolversi sono essenziali sia l’innovazione che la continuità. L’innovazione è portata dall’invenzione di cose nuove, la continuità è preservata dall’imitazione di queste cose.
Nel secondo scenario, invece, entra in gioco quella che viene chiamata auto-regolazione sociale. “In questo caso un agente che una volta compie un’azione creativa, al passo successivo avrà una maggiore probabilità di essere di nuovo un creativo solo se in precedenza ha avuto successo. Tecnicamente: se il suo punteggio è superiore alla media del punteggio complessivo degli altri agenti” spiega Natalini. In questo scenario, quindi, le persone creative che hanno successo sono incoraggiate a compiere nuovi atti creativi (i “punteggi” elevati potrebbero tradursi, in termini sociologici, in guadagni seguiti a una loro creazione, oppure alla maggior considerazione di cui godono dopo il successo) e i creativi che invece hanno fatto fiasco tendono a limitarsi a imitare i creatori più bravi di loro. “In questo tipo di società, che in un certo senso scoraggia la creatività indiscriminata e incoraggia solo i creativi che hanno dimostrato di saperci fare, la fitness media è più elevata. Rispetto all’altro scenario può anche essere oltre il triplo” spiega Natalini. In queste comunità in cui la creatività è “frenata”, gli agenti che non sono capaci di essere immediatamente creativi e che accettano di imitare hanno, volta per volta, sempre maggiori probabilità di diventare creatori. E non solo: in un contesto di questo tipo le simulazioni hanno fatto vedere che si hanno anche una maggiore diversità di idee creative.
Lo studio conclude che se in una società tutti inventano sempre e nessuno imita mai, il valore dei risultati culturali è scarso, perché le varie idee non si diffondono e non si radicano nella società. Una società, in particolare, è in uno stato di salute cultuale ottimale quando il rapporto tra creatività e imitazione è di circa 2:1, e non si allontana molto da questa proporzione. La scoperta che livelli estremamente alti di creatività possono essere dannosi per la collettività suggerisce che l’ancestrale atteggiamento “ambivalente” verso la creatività della società – che da un lato sembra incoraggiarla, dall’altro sembra volerla limitare – potrebbe avere un suo preciso scopo evolutivo.
Stefano Pisani