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Tommaso Valletti è professore di Economia a Imperial College di Londra e all’Università di Roma Tor Vergata. Si è laureato in Ingegneria al Politecnico di Torino e ha poi ottenuto un MSc e un PhD in Economia alla London School of Economics. Ha lavorato per un triennio (2016-19) presso la Direzione Generale per la Concorrenza presso la Commissione Europea in qualità di Chief Competition Economist. Chiara de Fabritiis, coordinatrice del Comitato Pari Opportunità dell’UMI, lo intervista per una presa di posizione tanto condivisibile quanto inusuale.

Il motivo per cui ti intervisto è che da qualche tempo ha iniziato a girare nell’ambiente accademico la storia del prof. Lipstick; di recente se n’è addirittura parlato su un quotidiano nazionale. Ci racconti che cosa è successo a Rodi per i nostri lettori che magari non ne sanno niente?

Si è trattato di un gesto estemporaneo: ero ad una conferenza accademica come capo economista della Commissione Europea e la platea era composta prevalentemente di avvocati, consulenti di grandi aziende interessate alla legislazione europea, e di economisti; insomma, un “certo ambiente” di persone interessate alla politica industriale e alla regolazione della concorrenza. Al tavolo eravamo 7 uomini, di cui uno di colore, il presidente dell’antitrust sudafricana. Ho un po’ improvvisato un cappello, il tema che mi interessava era “Conscious and Unconscious Bias” domandando al pubblico in sala, dove c’erano oltre un centinaio di persone, “Cosa vedete?” La prima risposta è stata “Sei bianchi e uno di colore”: già il fatto che fosse presente una persona di colore era inusuale, a Bruxelles non accade spesso. “Non vedete altro?” Risposta “No”. A quel punto ho chiesto se qualcuno mi prestava un rossetto, una signora gentilissima me l’ha porto e io me lo sono messo dicendo “Siamo 7 uomini, non è possibile che non ci sia una donna che ha idee interessanti su questo argomento; mi ero riproposto di non accettare più inviti a tavole rotonde in cui non fossero presenti donne; ho sbagliato a non controllare chi fossero gli intervenuti e allora io mi metto in una posizione di imbarazzo, così anche voi siete sollecitati”. Ed ho fatto il mio intervento col rossetto. Sono convinto che l’ambiente accademico debba reagire; se arrivano inviti con queste caratteristiche le possibilità a mio parere sono due: o si chiede di inserire uno speaker donna, suggerendo nomi adatti, oppure si rifiutano.

I matematici sono spesso persone piuttosto informali, ma l’idea che abbiamo degli ingegneri e degli economisti è che sia un ambiente piuttosto attento a come ci si presenta: tanto per dire nei programmi dei vostri convegni c’è scritto in calce il dress code. Come hanno reagito i tuoi colleghi alla tua provocazione?

Le reazioni sono state tante, molti mi hanno contattato tramite vari canali: solitamente più le persone erano giovani, più erano d’accordo con la mia posizione; c’è stata anche una quota di persone più vecchie che hanno detto basta queste affirmative actions, sono una cosa fuori luogo, si deve considerare solo il merito. Questa è una convinzione che non tiene conto dei dati reali: nel nostro ambiente, soprattutto ad alti livelli, le donne sono molto poche; non è possibile che le capacità di padroneggiare le materie economiche e legali siano influenzate dal fatto di essere maschi o femmine. Continuando ad agire così perdiamo molti talenti.

Nel vostro ambiente scientifico quanta attenzione c’è alle problematiche di genere? In matematica le cose sono andate migliorando per un lungo periodo, poi negli ultimi anni sono peggiorate, che succede fra gli economisti?

In economia le donne sono abbastanza poche: l’ambiente accademico è molto aggressivo, se fai una presentazione dopo 60 secondi c’è qualcuno che ti interrompe in modo abbastanza tranchant, si tratta di un ambiente troppo ‘testosteronico’ e quindi spesso le donne giustamente si ritraggono. Nei programmi di PhD le donne sono circa un terzo, nei gradi successivi di carriera poi calano drasticamente. Nel mio ateneo inglese c’è un aspetto particolare, perché a Imperial College c’è molta attenzione alla coltivazione dei talenti femminili: al rientro dopo la maternità, ad esempio, le donne per un anno intero non hanno carichi didattici, così si possono concentrare sulla ricerca che è quello che conta nel nostro lavoro; è un investimento in cui crediamo come università e che permette alle donne un rientro migliore, al prezzo di magari un corso in più da insegnare per gli altri colleghi. Fra le cose negative, c’è da notare che l’economia è un regno di maschi bianchi e potenti, dove manca anche l’attenzione alla diversità etnica oltre che di genere; magari vengono fissati incontri alle ore tarde nel pomeriggio e per una donna che ha figli è difficile riuscire a gestire simili orari; questo tipo di problematiche emerge ancora di più in dipartimenti come quelli di medicina.

Una cosa importante a mio parere è quella di ripensare ad aspetti riguardanti importanti programmi come Athena Swann, che premiano con un bollino oro, argento o bronzo gli atenei che soddisfano alcuni criteri: il difetto è che tutto il sistema diventi un po’ basato sull’apparenza; un effetto paradossale è che magari ci sono 72 comitati e commissioni in ciascuno dei quali ci deve essere una presenza femminile. Le poche colleghe donne sono quasi obbligate a partecipare a queste commissioni saltando da una all’altra e alla fine la forma prevale sulla sostanza. Quello che è molto importante qui nel Regno Unito è il trattamento salariale: siccome è a negoziazione individuale, le donne prendono di solito meno a parità di competenze, dovrebbe essere un obbiettivo importante la riduzione del gap salariale.

Trovi differenza fra l’ambito accademico e quello istituzionale?

Io sono stato nelle istituzioni europee in un periodo fortunato: fra il 2016 e il 2019 il commissario alla concorrenza per il quale ho lavorato era Margrethe Vestager, una vera ispiratrice: si tratta di un caso eccezionale perché di solito le posizioni apicali della Commissione sono coperte da avvocati 50-60enni. Nelle istituzioni europee si cerca di far qualcosa per riequilibrare il gap, ma non c’è un sistema di quote esplicito. Io, quando ho potuto, ho sempre cercato di promuovere donne nel team del capo economista.

In commissione europea qual è l’orientamento rispetto alle problematiche di genere?

In Europa vedo segnali positivi: la presidente della commissione è donna, come pure una vicepresidente, Vestager appunto, e metà dei commissari: la von der Leyen aveva chiesto che ogni nazione desse 2 nomi di possibili commissari, un uomo e una donna, fra cui poi lei avrebbe scelto [l’Italia ha indicato un unico candidato, Paolo Gentiloni].

Vorrei tornare a problematiche di genere nell’ambito accademico e raccontare un aneddoto: nel film ‘A Beautiful Mind’ c’è una scena in cui John Nash giovane è con i suoi colleghi al pub e gli viene l’intuizione di quello che oggi chiamiamo l’equilibrio di Nash, un concetto basilare per noi economisti. Nash e i suoi amici cercano di abbordare una ragazza e lo affrontano proprio come un problema di economia matematica. In realta’ gli autori del film non capiscono molto di economia e la soluzione che trovano nel film NON è un equilibrio di Nash. Alcuni anni fa facevo vedere una breve clip del film a lezione per far vedere cosa NON sia un equilibrio di Nash e ragionavo con gli studenti per farli arrivare al concetto giusto. Un paio di anni fa arriva un reclamo di una studentessa che cita la scuola (e me come docente) perché interpreta questo video come aggressivo e discriminante. Mi sembra importante sottolineare due cose: la prima è che la percezione degli esempi muta nel tempo; inoltre la risposta istituzionale è stata sottoporre me come docente a un corso di gender bias e sottoporre a revisione tutto il materiale didattico (il video e’ stato rimosso). Il problema di base rimane perché si è trattato solo di una soluzione esteriore: abbiamo fatto un esercizio in buona misura inutile: le disparita’ salariali persistono. Nel contempo però la macchina istituzionale ha fatto vedere come soddisfa una richiesta; a mio parere, il punto chiave è che dobbiamo evitare queste risposte soltanto formali.

Tu vivi in due paesi perché hai un posto in Inghilterra e uno in Italia, che differenze vedi fra questi due realtà?

La presenza delle donne nelle università italiane è maggiore, anche perchè in Italia il carico didattico è pesante e la grande aggressività nella ricerca, nel mio campo discliplinare perlomeno, si fa sentire meno. Tuttavia fra direttori di dipartimento, presidi o rettori, nei ruoli dirigenziali le donne sono poche. Le regole formali, come programmi certificati che in Inghilterra sono molto presenti, non ci sono o ce ne sono meno, si lavora soprattutto sul rapporto personale.

Nelle interviste alle donne, anche se si tratta di esperte di altissimo livello, dopo poco si scivola sempre sul campo personale e famigliare. Che reazione avresti se di punto in bianco ti domandassi se sai fare i biscotti oppure se preferisci stirare o spolverare?

È vero, non capita mai, e la trovo una totale assurdità. Ho una moglie e due figli, anche lei lavora all’università, è un’esperta di politiche sanitarie, di origini greche. Gestire la famiglia e l’impegno accademico è un lavoro pesante; cerchiamo di dividerci i compiti e di non dare ai figli il messaggio che alcune responsabilità siano esclusivamente femminili, ma l’ambiente esterno manda un messaggio molto forte. Quando sono andato a Bruxelles, per un anno la famiglia è venuta con me, mia moglie ha preso un sabbatico e lavorava sulla sua ricerca da casa. Quando a scuola hanno chiesto ai nostri figli cosa facessero i loro genitori, hanno risposto “La mamma cucina e il babbo lavora”. Per quanto cerchiamo di dare un messaggio paritario, i modelli sono molto incrostati, le donne subiscono aspettative dall’esterno molto pesanti.

Che messaggio conclusivo vorresti dare sull’argomento?

Guardando la questione da un punto di vista ideale, noi economisti ci aspettiamo sempre che il mercato sia efficiente e invece non è sempre e solo così. L’American Economic Association ha recentemente inviato un questionario a tutti i membri dell’associazione a proposito delle discriminazioni di qualsiasi natura (razziale, genere, orientamento sessuale) che hanno subito o di cui sono a conoscenza ed è emerso che nell’ambiente accademico c’è molta più discriminazione di quanto ci si immagini. Il punto chiave in Inghilterra, come detto, è quello della discriminazione salariale, ma non solo: vedo come nei paesi scandinavi ci siano quote di rappresentanza femminile in molti ambiti e certo non si può dire che siano economie inefficienti, anzi; quindi questo vuol dire che è un meccanismo che funziona, almeno finché il sistema non va a regime e le discriminazioni cessano.

Chiara de Fabritiis

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