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Vittoria Bussi fa parte della numerosa comunità di coloro che hanno studiato matematica a livello professionale e che intraprendono una carriera di tipo molto diverso: è infatti una ciclista molto nota, che ha realizzato due primati mondiali dell’ora, nel 2018 e due settimane fa, occasione in cui ha superato il muro dei 50 km, per la prima volta per una primatista di sesso femminile. In occasione di questo straordinario risultato, ottenuto ad Aguascalientes (Messico) il 13 ottobre, Chiara de Fabritiis l’ha intervistata.

Partiamo dagli ultimi giorni: sei appena tornata dal Messico dopo un record di portata formidabile, la prima donna a infrangere il muro dei 50 km…

Sono rientrata a Torino, dove abito, senza bici e senza documenti: dopo varie vicissitudini non è stato possibile imbarcare le bici e quindi ho dovuto spedirle separatamente. La borsa invece me la sono dimenticata in aeroporto in Messico; solo allo scalo successivo, quando volevo prendere una bottiglia d’acqua, mi sono accorta che l’avevo lasciata su un tavolino, meno male che avevo con me il passaporto. Io sono un po’ così, ho la testa fra le nuvole… Viaggiavo assieme al mio compagno, lui è il mio opposto, ci compensiamo, a dire il vero sembriamo un po’ Sandra e Raimondo, in casa succedono scenette anche sul tipo di carta igienica da scegliere, abbiamo modi di vivere totalmente diversi. Lui lavora a Milano, sta a Torino, dove mi sono trasferita, ha doti completamente diverse dalle mie: non è un  matematico e neppure uno sportivo. Ha un passato da idraulico, che è la stessa carriera del suo babbo, poi tramite uno mio vecchio  sponsor un’azienda ha notato le sue grandi capacità organizzative, e quindi adesso lavora in una multinazionale (Eurofins) che si occupa di analisi in ambito cosmetico. Ci siamo conosciuti che io avevo 23 anni…

Torniamo indietro nel tempo: a 23 anni eri a Roma e ti eri appena laureata…

Sì, a quell’epoca stavo per spostarmi a Oxford, lui mi disse che sarebbe partito con me, si è lanciato in un’avventura, che ha avuto anche momenti durissimi, quando è mancato mio padre.

Che studi avevi fatto prima dell’università? Avevi la passione della matematica fin da bambina o è un amore sbocciato più tardi?

Figuriamoci: ho fatto il classico, il Francesco Vivona all’EUR, non sapevo neppure che la matematica potesse essere un lavoro. Da bambina e da ragazza adoravo leggere e scrivere, al classico ci sono solo 2 ore di matematica a settimana. Ho avuto la fortuna di incontrare una professoressa superba, di un altro livello, di quelle che ti cambiano la vita: Ida Spagnuolo. Ho battuta la testa e ho deciso di iscrivermi a  matematica alla Sapienza. 

Un cambiamento di rotta radicale…

Sì, anche perché ho smesso con l’atletica leggera, facevo mezzofondo, mi allenavo a Ostia; l’atletica è gran scuola di personalità, molto formativa, se avessi un figlio mi piacerebbe che la facesse. Confesso che non vedo l’ora di tornare al campo di atletica, per me è stata una scuola di vita, condivisa con i genitori, ci ha unito come famiglia, forse anche perché sono figlia unica.

Alla Sapienza che percorso hai fatto?

Mi sono laureata alla triennale con Eugenio Montefusco, ho fatto una tesi sulle equazioni di Navier-Stokes. Alla magistrale ho incontrato la geometria algebrica: Enrico Arbarello (che nomino con piacere, l’ho sentito di recente), Domenico Fiorenza, Kieran O’Grady, ma anche Sergio Doplicher che ci insegnava meccanica quantistica e algebra di operatori. Ho deciso di laurearmi con Arbarello, studiando gli invarianti di Donaldson-Thomas.

Nel 2010 ti sposti a Oxford per il dottorato e poi all’ICTP di Trieste per un post-doc…

Sono entrata nel gruppo di Dominic Joyce, ho avuto la fortuna di frequentare persone che mi hanno fatto crescere tantissimo, infatti pur avendo lavorato per un periodo abbastanza breve ho un buon rapporto fra numero di pubblicazioni e anni di attività. Decidere di lasciare il percorso accademico è stato difficile, perché in fondo non era una scelta dettata dalla logica, la carriera da atleta è più precaria rispetto all’ambito scientifico, almeno per me che ero già inserita con prospettive ragionevolmente stabili. Posso dire di aver vissuto due vite, entrambe belle; tanti miei coetanei (non nella cerchia ristretta dei miei amici, ma in quella più ampia delle persone che mi capita di frequentare), sono insoddisfatti, hanno tanti rimpianti, non hanno il coraggio di fare qualcos’altro. Se potessi tornare indietro, rifarei tutto da capo: non so quale delle vite definirei migliore e sono orgogliosa di entrambe.

Sono entrambe vite molto costose dal punto di vita dell’impegno, sia fisico sia intellettivo ed emotivo

Per me non esiste il lavoro per arrivare a fine mese, ho bisogno di un’attività che deve nobilitare l’animo e che mi dia delle gratificazioni che non finiscano quando timbri il cartellino. Per me conta la felicità di alzarsi la mattina e la soddisfazione la sera di andare a dormire con qualcosa che sento mio.

È in Inghilterra che hai cominciato a praticare il ciclismo… 

Cercavo qualche tipo di sport da fare, mi mancava troppo. In Inghilterra si mangia piuttosto male, non stavo bene con il mio corpo e a questa situazione si è aggiunta la perdita di mio padre. Non c’è una logica in quei mesi: da un lato penso che non mi dovevo lamentare perché non c’era nulla che non andasse, ma non avevo più soddisfazione da quello che stavo ottenendo. Faccio fatica a spiegarlo, è una cosa che si deve vivere personalmente per capirlo: la morte ti dice “Io esisto davvero”… È stato un anno logorante per la malattia di mio padre: ha avuto un’emorragia cerebrale, un evento molto pesante, che ti apre un mondo che ti cambia dentro e per il quale non ci sono motivazioni razionali. È difficile da spiegare: è semplicemente successo. Mi sono accorta che quando facevo sport stavo bene. Lì va molto il triatlon (nuoto, corsa e bici), il mio compagno mi ha regalato un cancello [modo gergale di chiamare una bici scarsa e poco performante, ndr]; era inverno, quindi il triatlon non si fa perché l’acqua è troppo fredda, si pratica il duatlon (corsa-bici-corsa); io venivo dall’atletica e quindi avrei dovuto fare meglio nelle frazioni di corsa, invece ho scoperto che ero molto portata per la bici. 

E qui hai preso una decisione molto importante…

Flavio Zappi, che è un ex-corridore professionistico di ciclismo su strada,  trasferito in Inghilterra per motivi familiari, mi ha consigliato di non stare a perdere tempo con il duatlon/triatlon e di concentrarmi sul ciclismo: nel giro di qualche mese sono passata alla categoria più alta. A quel punto sono stata contattata da Brunello Fanini, che mi ha proposto di fare uno stage da loro, sono andata a Lucca e ho cominciato con il ciclismo professionistico.

Hai realizzato 2 record dell’ora, uno nel 2018 e l’altro due settimane fa, perché hai pensato di ritentare?  

Dopo che il mio primo record era stato superato, mi sono fissata con il traguardo dei 50 km da superare, ero convinta di avere la consapevolezza per poter andare oltre questo muro… 

La matematica ti ha aiutato nella tua attività ciclistica?

Il record dell’ora non è come una corsa su strada in cui ci sono tante variabili imprevedibili, direi che si può scrivere in formule matematiche: serve considerare la geometria del velodromo, in cui le curve sono inclinate in modo preciso, si conoscono tutti i dati (pressione, temperatura). Mi sono messa a studiare come si calcolano i vari parametri, ho cercato di sviluppare materiali adatti, ho fatto test aerodinamici. Se non fossi stata una matematica avrei fatto molta più fatica come atleta; la matematica poi ti dà un “modus pensandi”, si impara a non lasciare nulla al caso, se c’è un problema si sa che bisogna suddividerlo in sotto-problemi… Io di carattere sono piuttosto portata a coordinare un progetto e lo studio della matematica mi ha  insegnato a saper gestire me stessa e ad esserne consapevole.

In un’impresa sportiva di questa rilevanza non c’è solo la componente della sfida personale e sportiva…

La componente economica è la cosa più complicata, io mi sono dovuta tuffare in qualcosa che non è mio: i social. Adesso va tutto a storie, selfie, io invece sono da carta e penna e da libro cartaceo; ho avuto grandi difficoltà a finanziare il tentativo. Mi sono serviti 50mila euro per le spese vive; per il marketing (la gestione dei social, la realizzazione dello streaming video del record) ce ne sarebbero voluti altrettanti e io non li avevo, è per questo che ho rinunciato al marketing e non abbiamo realizzato il filmato tutto; infine ci vogliono altri 50mila euro di  materiali: io ho avuto tutti i materiali sponsorizzati e quindi mi sono serviti fondi solo per i training camp e per vivere. 

Per reperire finanziamenti hai scelto una strategia molto attuale…

Ho deciso di provare a trovare 10mila euro tramite un crowdfunding, sono riuscita a ottenerli perché la gente ha capito il progetto: io sono una persona diversa dai professionisti strapagati che lavorano con gruppi enormi, Un tempo il ciclismo era lo sport che tutti potevano fare, con costi ragionevoli; adesso non lo è più. Il ciclismo deve essere alla portata di tutti. La prima cosa che dici con il crowdfunding è che quello che vuoi fare ha un costo, io sapevo di essere un’atleta forte, avevo già fatto il record  nel 2018 eppure non avevo i soldi per tentare ancora… Ho deciso di chiamare questo progetto Road2Record, perché è un percorso visionario: ci sono molti casi  di studio, ma io mi sono detta cerchiamo di partire come se non sapessimo nulla, concediamoci di cercare cose nuove, basta con il ciclismo conservativo, non è tutto certo…

Quindi hai pensato di applicare le tue conoscenze di matematica allo sport? È una cosa che si fa da tempo…

Attenzione: la statistica applicata in maniera rigida può creare problemi, il campione statistico non può comprende la totalità dei casi, bisogna accettare una certa flessibilità, capire se un caso di  studio si può adattare a una persona specifica. 

Tu sei un’atleta professionista: la Federazione Ciclistica Italiana ti ha supportata?

La Federazione non si è mai mostrata interessata a questo progetto, avrà avuto i suoi motivi, però questo ha portato a una serie di conseguenze, a partire dalla mancanza di infrastrutture perché l’accesso al velodromo di Montichiari, in provincia di Brescia, è stato a dir poco complicato, tant’è che mi sono dovuta trasferire in Svizzera per potermi allenare nel centro in cui ha sede l’Unione Ciclistica Internazionale. In un certo senso questo mi ricorda un po’ qualcosa di già vissuto con la fuga dei cervelli a livello accademico, non è un segreto che la ricerca in Italia vive momenti di grosse difficoltà; io mi sono dovuta trasferire all’estero per inseguire il sogno di una carriera accademica.

[Vittoria si scusa, le arriva una telefonata: è un giornalista che la contatta in anticipo sull’orario fissato per un’altra intervista]

Hai il tuo bel daffare in questi giorni…

Non amo particolarmente la notorietà, mia madre è venuta su a Torino ad aiutarmi a gestire l’impatto di quello che sta succedendo in questi giorni, passi dalla solitudine a idolo della folla…

Cosa hai intenzione di fare ora?

Rifiatare, tanto per cominciare. L’idea di Road2Record è in realtà molto più articolata rispetto al solo crowdfunding per la spedizione in Messico: ho il sogno di creare un giorno un’accademia per formare giovani, dando loro la possibilità di applicare il metodo che io ho utilizzato nel mio progetto perché a me ha dato molto e ha dato molto anche alle persone che mi sono intorno, quindi credo che possa essere un metodo vincente, ma questo per ora è un sogno.  Più a breve termine mi piacerebbe  tornare a usare la matematica applicata al ciclismo, ad esempio a livello di regolamenti. Se questo non fosse possibile mi piacerebbe lavorare come matematico in un’azienda, ho tanti contatti di persone che mi hanno cercato perché pensano che possa essere una risorsa utile per ia loro impresa. Questo per me sarebbe un modo per riservarmi un’ora o due al giorno per fare sport, perché per me è una vera necessità, più che un desiderio; se sto qualche giorno senza allenarmi, l’attività fisica mi manca. Mi capita sempre quando smetto di fare sport: in questi casi sto malissimo, le giornate buone sono quelle in cui riesco a ad andare in palestra e mi sento subito meglio, appagata…

 

Chiara de Fabritiis

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