Roberto Natalini è andato a vedere “The Social Network”, l’ultimo film di David Fincher, e ce lo racconta.
Viviamo in un’epoca strana. Anche se molti dicono che la cultura non conta più nulla, per la prima volta nella storia abbiamo delle persone comuni, senza privilegi di nascita, che diventano miliardarie e ultra-potenti senza aver dovuto commettere crimini violenti, aver speculato sulla pelle delle persone o averle sfruttate in modo disumano.
Prendiamo due film a confronto. “Il petroliere” (There will be blood, 2007), di Paul T. Anderson, interpretato da uno straordinario Daniel Day Lewis, e “The Social Network” di David Fincher con la giovane promessa Jesse Eisenberg. Il primo è meglio caratterizzato dal titolo inglese “Ci sarà sangue”, sangue che verrà versato con una certa abbondanza durante il film, e il prezzo del successo e della ricchezza sarà quello di rendere sempre più solo e isolato il protagonista, il ruvido Daniel Plainview. Invece, “The Social Network” è la narrazione romanzata dell’ascesa del fenomeno Facebook ad opera dell’oggi 26enne Mark Zuckerberg. Perché Mark Zuckerberg e Daniel Plainview sono così diversi? Entrambi sono persone dall’enorme volontà e ambizione, e sembrano avere una visione chiara dei rapporti di forza tra le persone. Plainview vive in un tempo spietato in cui solo la forza e la cattiveria sembrano poter sostenere l’affermarsi delle opinioni, giuste o sbagliate che siano. Zuckenberg vive in un’epoca profondamente diversa, fatta di connessioni veloci, di potere dell’informazione e di psicologia sociale.
La forza di Z. non è nella potenza materiale, e nemmeno nella sua profondità intellettuale, ma nella immediatezza(=senza mediazione) di esecuzione dei suoi progetti e nella capacità di astrazione. A differenza di coloro che non hanno fatto studi scientifici, Z. è capace di implementare le sue idee, svolgendo un lavoro di organizzazione dei dati gigantesco con pochi battiti di tastiera, una cosa che in nessuna altra epoca sarebbe stata possibile. Magari non è un genio dell’informatica, ma deve capirla e saperla usare molto bene per poter operare. Z., come i suoi colleghi Brin e Page (Google), ma anche come Steve Jobs o Bill Gates, ha una cultura forse non particolarmente vasta, ma solida e molto antica. La logica, la matematica, l’informatica moderna, da Leibniz a Turing e von Neumann, sono dietro di lui. È la prima volta, pensateci bene, che un nerd totale è non soltanto ben pagato, ma ha il controllo completo della situazione.
A questo contatto diretto con l’operatività, un sapere che si fa rapidamente potere, si affianca la dote tipicamente matematica dell’astrazione. Diversamente da tanta psicologia teorica o dagli “esperti” di comunicazione, Z. è capace di astrarre in modo efficace alcune caratteristiche elementari del comportamento delle persone, per ricombinarle e portarle a produrre effetti planetari. Cercare un amico, la foto di una persona che ci interessa, gli amici degli amici. Connettere insieme le persone. Capire che quello che tutti condividono è l’isolamento. Tutto questo scatena una valanga esponenziale, perché la rete, alla fine, per quanto vasta sia, si comporta come un oggetto matematico oramai molto noto, è un cosiddetto “small world”. Di che si tratta? Siete in viaggio all’estero e conoscete una persona. Dopo un po’ che parlate viene fuori che questa persona, ma guarda un po’ come-è-piccolo-il-mondo, conosce bene un amico di un vostro amico.
Questo tipo di coincidenze sono state popolarizzate da un film di qualche anno fa con Will Smith che si chiamava “Sei gradi di separazione”, in cui si sosteneva che tra due esseri umani c’era al più una catena di sei individui. Se sia vero o no dipende da come si definiscono i contatti (una stretta di mano? Una telefonata? Una cena insieme?). Per certi ambiti questa cosa può essere semplice. In matematica per esempio, il contatto è l’aver firmato insieme un lavoro recensito dal Mathematical Reviews. Vi sono circa 400.000 matematici che hanno firmato almeno un lavoro, e di questi ben 268.000 fanno parte della stessa componente connessa. Questa componente principale è in realtà molto ben connessa. Un modo per misurarlo è prendere come punto di partenza il matematico Erdös. Quelli che hanno scritto un lavoro con lui hanno Erdös Number=EN=1, e chi ha scritto un lavoro con un EN=n, ha EN=n+1. Ora, nella componente connessa nessuno ha più di EN=13 e solo 1150 hanno EN>8. La cosa potrebbe sembrare particolare, ma si scopre che in pratica la distanza qualsiasi tra due matematici è circa 8, con una deviazione standard di 1.21. Otto gradi di separazione, dunque…
Ora, con Facebook questa cosa è moltiplicata per un milione (gli utenti di Facebook sono stimati sui 600 milioni). E questo non vuol dire maggior distanza, ma anzi maggior opportunità di incontrarsi (beh, si fa per dire…). Se voglio connettermi con molta gente, niente di meglio che cominciare a diventare amico di “Barack Obama” o”Disney” (18 milioni di amici ognuno) oppure aprire una pagina di Super Mario o di Hello Kitty. Insomma sfruttare l’effetto “small world” che consiste nell’avere un certo numero di “hub” che fanno ricircolare le connessioni a grande velocità. In un network planetario si possono immaginare gli incroci più strani e tutti si possono incontrare con un paio di click. È una specie di “Schema Ponzi” funzionante (Lo schema di Ponzi è un modello economico di vendita illegale che promette forti guadagni alle vittime a patto che queste reclutino nuovi “investitori”, a loro volta vittime della truffa, una specie di catena di Sant’Antonio).
“The Social Network”, il film, è un film americano. E come tale deve cercare di spiegare in modo semplice delle cose che in sé sono abbastanza complesse. Nel film lasciano pensare che dietro all’idea di Facebook ci sia il desiderio di Z. di sentirsi meno solo, o meglio più in contatto con una certa ragazza. Può essere. Ma a volte mi sembra che sia come se quest’ansia di connettersi alla fine si fosse come messa tra due specchi, moltiplicandosi così all’infinito. E al centro ci siamo sempre noi, e l’amico Z., che guardiamo ossessivamente ognuno la propria immagine.
Roberto Natalini