La topologia algebrica è la disciplina del futuro nello studio del cervello. Non solo, sarà anche un prezioso strumento nei campi dell’intelligenza artificiale e dell’analisi dei dati.
di Massimo Ferri
Da ragazzino rimasi affascinato dal costrutto logico della geometria euclidea (anche se non avevo capito il significato e il ruolo delle definizioni). Però la sua aderenza alla realtà, pur ampiamente garantita dalle applicazioni, mi sembrava minata da un problema di base: nella realtà fisica non esistono curve, ma strisce magari molto strette; quella che posso disegnare non è mai una vera circonferenza, ma una sua approssimazione.
Quando un amico mi prestò un meraviglioso libretto [1] fui folgorato dall’esistenza della topologia: i disegni che posso fare per illustrare il problema delle tre case e tre servizi (v. figura in basso) o il problema dei quattro colori non sono approssimazioni di un oggetto esistente solo nel mondo delle idee, ma sono leciti, concreti esempi del concetto in gioco. Agli spigoli dei grafi non si chiede di essere segmenti di retta o di soddisfare particolari equazioni! Non avrei mai pensato che esistesse una geometria così “libera”.
Ero un avido lettore di fantascienza (di quella buona, non mostri e donnine verdi) e mi pareva che la topologia fosse molto più vicina a quella scienza futuribile che non tutta la matematica che conoscevo; convinzione che si rafforzò quando finalmente studiai quel suo enorme capitolo che è la topologia algebrica. Questa particolare disciplina associa oggetti algebrici a spazi topologici, col vantaggio di poter studiare in modo spesso combinatorio degli oggetti continui. La mia opinione non cambiò molto quando, molto più tardi, venni in contatto con una tecnologia d’avanguardia, la visione artificiale: la matematica utilizzata era molteplice e anche sofisticata (per esempio geometria proiettiva e analisi funzionale) ma ancora lontana dalle fantastiche potenzialità della topologia.
Fui, perciò, molto felice di veder nascere proprio nel mio dipartimento quella che, nata col nome di teoria delle funzioni di taglia, sarebbe diventata la topologia (in particolare omologia) persistente [2,3,4]. Le applicazioni furono subito molteplici e … fantascientifiche, con un apporto del tutto innovativo alla visione artificiale. Non mi ha stupito più di tanto, dunque, leggere un post dell’MIT [5] in cui si magnifica la topologia algebrica (di cui la persistente fa parte) come la disciplina del futuro nello studio del cervello.
Il post fa riferimento a un preprint di autori statunitensi [6] molto accurato, in cui si analizzano le interconnessioni di 83 diverse regioni cerebrali; la novità sta nell’identificare non solo le clique, cioè sottoinsiemi in cui tutte le regioni sono connesse con tutte le altre, ma anche i cicli, elementi base dell’omologia che rappresentano cavità delle diverse dimensioni; in particolare si mettono in rilievo i cicli persistenti, cioè con un ampio intervallo fra la “nascita” e la “morte” al variare del peso delle connessioni (si veda ancora [4], in particolare il Box 2), dove il peso è dato dalla densità di materia bianca della connessione. Il fatto che gli stessi cicli persistenti si riscontrino in tutti i soggetti osservati suggerisce che siano strutture significative. Post e preprint sembrano ignorare un precedente lavoro italo-britannico sul cervello [7], in cui si usa l’omologia persistente per analizzare l’effetto di uno psicofarmaco; spero che la lacuna venga colmata nella versione finale.
L’omologia persistente e, più in generale, la topologia algebrica hanno il vantaggio di catturare in modo formale e calcolabile aspetti qualitativi degli oggetti d’interesse. Per questo – non solo per il fatto di fornire interessanti modelli per il cervello – sono strumenti con un enorme potenziale per l’intelligenza artificiale e per l’analisi dei dati. L’omologia persistente, per esempio, ha una modularità, nella scelta della funzione filtrante, che permette di far cooperare diversi “punti di vista” su uno stesso oggetto e su uno stesso problema di classificazione [4].
La topologia algebrica è una disciplina ricchissima di strumenti estremamente potenti [8] ma ancora largamente inesplorati dal punto di vista applicativo. Il post dell’MIT chiude affermando “Questo è chiaramente un momento eccitante per un topologo algebrico”; spero che se ne accorgano anche i topologi algebrici italiani.
Massimo Ferri, Università di Bologna
[1] O. Ore, I grafi e le loro applicazioni, Zanichelli 1965.
[2] P. Frosini, Measuring shapes by size functions, Proc. of SPIE 1991, In “Intelligent Robots and Computer Vision X: Algorithms and Techniques, Boston 1991”, 1607 (1992), 122-133.
[3] H. Edelsbrunner, D. Morozov, Persistent homology: theory and practice, In “European Congress of Mathematics, Krakow, 2-7 July, 2012”, Europ. Math. Soc. (2012), 31-50.
[4] M. Ferri, L’incredibile ubiquità dell’omologia persistente, MaddMaths! (2015).
[5] How the mathematics of algebraic topology is revolutionizing brain science, MIT Technology Revue (2016).
[6] A. Sizemore, C. Giusti, R.F. Betzel, D.S. Bassett, Closures and cavities in the human connectome, arXiv preprint http://arxiv.org/abs/1608.03520 (2016).
[7] G. Petri, P. Expert, F. Turkheimer, R. Carhart-Harris, D. Nutt, P.J. Hellyer, F. Vaccarino, Homological scaffolds of brain functional networks, J. Royal Soc. Interface 11.101 (2014): 20140873.
[8] A. Hatcher, Algebraic topology, Cambridge UP, Cambridge 606.9 (2002).
Sono completamente d’accordo. L’interdisciplinarità è il futuro, anche se raccogliere fondi per ricerche interdisciplinari è davvero complicato al momento.
Caro Delio, concordo con te su tutta la linea:
1) i grafi sono in uso da decenni in neuroscienze; io stesso contribuii nel 1981 e nel 2002 ad articoli con Agnati, Fuxe e soci;
2) il progresso dovuto alla ricerca di cui parlo è limitato; il post dell’MIT è di stampo più giornalistico (quindi sensazionalistico) che scientifico; converrai che io mi sono tenuto su toni più tiepidi al riguardo del singolo risultato;
3) le neuroscienze sono un casino pazzesco!
PERÒ proprio per il casino intrinseco delle neuroscienze – e di tutte le scienze che si allontanano da quelle, come la fisica, che si possono modellare con equazioni differenziali ecc. – occorrono nuovi modelli matematici, più plastici e più orientati alle scienze o alle tecnologie che vogliono modellare.
È mia umile opinione che la topologia sia uno degli strumenti matematici con maggiore potenzialità in questo senso. In particolare la “topologia persistente”, che è la vera novità matematica dell’articolo di Sizemore et al., è nata proprio come strumento per indagini qualitative ma oggettive e calcolabili.
Lasciami approfittare di questo commento per una mia battaglia di lungo periodo: con tutti i limiti, con tutte le incertezze del caso, dobbiamo a tutti i costi favorire l’avvicinamento delle scienze e tecnologie alla matematica e della matematica alle scienze e tecnologie; progetti questi quasi ovvii e spesso sbandierati, ma che pagano poco in termini di facilità di pubblicazione, di conquista di finanziamenti e di successi concorsuali.
Interessante, ma vedo anche una serie di problemi. Il primo è che le neuroscienze, a differenza della matematica, sono un casino, a dirla tutta. Gran parte dei paper di neuroscienze teoriche (e ne escono migliaia al mese!) non sono raccolte di fatti, ma di ipotesi piú o meno corroborate dai fatti; quindi anche in questo caso non so quanto sia ragionevole fidarsi a occhi chiusi delle tesi di Bassett & co.
Detto questo, l’idea che nell’analizzare il connettoma piú che le connessioni occorra studiare i “motivi”, cioè tutti possibili grafi (magari non connessi) su tre nodi, è vecchia già di parecchi anni; qui di nuovo, al massimo, c’è che si passa dai complessi di celle bidimensionali a quelli tridimensionali.
A dirla tutta, visto che nelle sinapsi chimiche la retropropagazione è rara, gran parte dei neuroscienziati finora ha lavorato con grafi orientati (e quindi i motivi vengono definiti sulla base di questi orientamenti): passare ai complessi di cellule orientati sarebbe sicuramente, anche se tecnicamente parecchio piú complesso; ma c’è chi (in matematica) già si occupa di complessi orientati, per esempio al MPI di Lipsia.