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Benvenuti al nuovo episodio di “Radice di Pop” la rubrica di Massimo Martone che scava nel terreno della cultura pop per far sbocciare, tra fumetti, meme e serie TV, i fiori della matematica. Questa volta ci tuffiamo in un argomento che sa di nostalgia per molti di noi. Parliamo di videogiochi: quei mondi virtuali che, fin dagli anni ’70, hanno fatto breccia nei nostri salotti, nelle sale giochi, nelle nostre vite. 

Che siate cresciuti con un joystick in mano o che abbiate semplicemente osservato amici o parenti perdercisi dentro, è difficile negarlo: i videogame sono diventati un fenomeno culturale. Con il tempo, però, qualcosa è cambiato. Quello che un tempo era solo un passatempo è diventato una professione per alcuni, una passione virale per altri, e per molti… un business milionario. Pensate ai tornei internazionali, agli streamer, ai creator che macinano milioni di visualizzazioni giocando. E dove girano passione e numeri, arrivano gli investimenti. Le grandi aziende hanno fiutato l’occasione e il mondo del gaming si è trasformato.

Alcuni titoli nati come free-to-play – cioè gratuiti – hanno iniziato a introdurre meccanismi per cui, in cambio di denaro reale, puoi ottenere vantaggi o premi speciali. È qui che entrano in gioco le famigerate loot box. Ma cosa sono davvero? E perché ci interessano, anche dal punto di vista matematico?

Cerchiamo di capire cosa sono…

Anche le carte pokemon possono essere considerate come delle loot box reali!

Le loot box sono oggetti virtuali, veri e propri “scrigni a sorpresa” che si trovano all’interno di molti videogiochi. Aprirne una è un po’ come scartare una bustina di figurine: non sai cosa ci troverai dentro, ma speri sempre nel colpo fortunato. Il contenuto? Oggetti, potenziamenti o benefici da usare nel gioco stesso. Un esempio ormai classico è quello di FIFA, il celebre simulatore calcistico: lì le loot box prendono la forma di pacchetti giocatore, all’interno dei quali puoi trovare calciatori da usare nella tua squadra. Ecco che scatta la caccia al campione: Mbappé, Messi, Yamal, Ronaldo… veri e propri pezzi da novanta per qualunque allenatore virtuale.

Ma come in ogni collezione che si rispetti, trovare l’oggetto raro non è affatto semplice. Ed è proprio qui che entra in gioco la matematica: ogni apertura è governata da probabilità spesso molto basse e, in certi casi, nemmeno dichiarate. In altre parole: più che un gioco di abilità, è un gioco d’azzardo mascherato da  intrattenimento digitale.

Il ricercatore Xiao ha avuto il compito di analizzare il funzionamento delle loot box per conto del Regno Unito, con un obiettivo preciso: stabilire se questi meccanismi possano essere considerati, a tutti gli effetti, una forma di gioco d’azzardo. Capite bene che la questione non è solo tecnica, ma anche profondamente etica. Se una loot box non viene riconosciuta formalmente come gioco d’azzardo, le aziende che la utilizzano non sono obbligate a dichiarare le probabilità di ottenere gli oggetti più rari.

In pratica, il giocatore apre pacchetti alla cieca, spesso spinto dalla speranza (o dall’illusione) di ottenere quel leggendario tanto desiderato.

Ma dal punto di vista matematico?

Per chiarire meglio il funzionamento matematico dietro le loot box, proviamo a ridurre il caso all’osso, eliminando ogni complicazione accessoria. Supponiamo che all’interno della loot box si possano trovare oggetti di vario tipo: comuni, rari, epici, leggendari. In un contesto reale, ogni oggetto ha una sua probabilità specifica di comparsa, ma per semplicità assumiamo che a noi interessi soltanto una cosa: trovare la carta leggendaria. L’unico evento che consideriamo “di successo” è l’estrazione della leggendaria. Qualsiasi altro esito è un fallimento.

In questo modo, ogni apertura di loot box diventa un esperimento Bernoulliano: un esperimento aleatorio che può avere solo due esiti possibili successo e insuccesso, rispettivamente con probabilità p e (1-p). Chiamiamo processo di Bernoulli una successione di esperimenti indipendenti, ciascuno con la stessa probabilità di “successo” p. Tornando al nostro esempio FIFA, ogni apertura di un pacchetto è un esperimento di Bernoulli: l’esito di una scatola non influenza quello della successiva e, ad ogni apertura, la probabilità di pescare la carta leggendaria rimane p.

Se osserviamo quante aperture X servono affinché compaia per la prima volta la leggendaria, scopriamo che X segue una distribuzione geometrica. La probabilità che il primo successo arrivi esattamente al k-esimo tentativo è : P(X = k) = (1 – p)^{k – 1} \cdot p


dove:

  • (1-p)k-1 è la probabilità di k-1 fallimenti consecutivi,
  • P è la probabilità di successo (trovare la leggendaria) al k-esimo tentativo.

E quindi?

Da questo modello matematico deriva un parallelismo tutt’altro che banale con il gioco d’azzardo, in particolare con le slot machine. Anche se alcune slot seguono schemi pseudocasuali più complessi, il principio di fondo è lo stesso: ogni tentativo è indipendente dal precedente, e ogni esito ha la stessa (piccola) probabilità di successo.

Questa indipendenza è ciò che alimenta il cosiddetto rinforzo psicologico: il giocatore, pur fallendo più volte, resta agganciato all’idea che “prima o poi” il premio arriverà.

E quando ogni pacchetto costa denaro reale, il quadro è completo: un sistema matematicamente aleatorio, psicologicamente ingaggiante, economicamente dispendioso. In altre parole: un gioco d’azzardo legalizzato, ma senza le etichette e le tutele previste per il gioco d’azzardo tradizionale.

Nel già citato rapporto del ricercatore Xiao, emerge un dato preoccupante: su un campione di 100 tra i videogiochi più scaricati su Apple Store, la maggior parte conteneva loot box, senza però dichiarare alcuna informazione sulle probabilità di vincita.

Massimo Martone

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